Nato a Toronto, “funny man” Jeremy Bailey e’ un artista visivo che la rivista “Filmaker” ha descritto come “una rivoluzione nel modo in cui usiamo video, computer e il corpo per creare arte”, ed il cui lavoro é stato definito “fiduciosamente auto-disapprovante nell’offrire spiritose parodie del vocabolario dei nuovi media” (Marisa Olson, Rhizome). I suoi lavori sono stati presentati in numerose mostre e festival internazionali, ha avuto il suo master in arte e studi mediali dall’Università di Syracuse nel 2006 ed attualmente é rappresentato dalla label Vtape.
Essendo nato a Toronto il suo lavoro é ben radicato nella filosofia McLuhaniana che vede le tecnologie mediali come estensioni delle nostri funzioni sensoriali e comunicative, e ciò é particolarmente evidente specialmente nei suoi ultimi lavori che fanno uso di tecniche di “computer vision” e realtà aumentata. I suoi interventi sono spesso basati su una visione radicale delle distopie create dai nostri panorami mediali, mettendone in risalto gli aspetti più comici e grotteschi. Ad esempio, nel suo Public Sculpture (2010) mette a punto un software che gli permette di interagire con oggetti geometrici che ricordano vagamente armature e armamentari rubati ad un qualche cartone animato Giapponese degli anni ’80, prendendosi gioco nello stesso tempo di tutta una certa estetica da “realtà aumentata” tanto in voga in questi ultimi tempi.
I suoi lavori sono spesso presentati come performance partecipative: ad esempio il suo show WarMail (2008), commissionato dalla HTTP Gallery di Londra é un performance collaborativa diretta da lui stesso che utilizza il potenziale latente danzereccio e canoro del pubblico presente per scrivere a mandare email a sua madre, conducendo simultaneamente una “campagna di guerra spaziale”, mentre in SOS (2008) produce una serie di corti per lo show televisivo canadese King Kaboom, offrendo “una guida utenti ad un nuovo sistema operativo visivo inventato da artisti”.
In realtà, i suoi lavori più riusciti sono quelli in cui si offre al pubblico in prima persona, mischiando in un vortice intimista e un po’ schizofrenico strategie comunicative lontane come certi video dimostrativi di You Tube, la video performance art anni ’70 e un certo illusionismo da tele-venditore. E’ proprio questo mashup mediale, unito ad una certa dose di introspettiva ego-mania autoriale, a rendere le sue opere così accattivanti e popolari senza mai perdere di vista una solida critica mass-mediale.
Purtroppo, non ho potuto assistere alla sua performance al Festival Video Collide in Real 3D Space qui a Los Angeles nel Marzo scorso, così ho pensato che un’intervista poteva essere l’occasione perfetta per mettere le mani sul suo lavoro.
Mattia Casalegno:In uno dei tuoi primi lavori, 8.7 MB (2002), provi a “spiegare il processo di compressione estrema sulla mia stessa immagine, riconoscendo nel contempo la moltitudine dei dispositivi che interferiscono con l’identità di ognuno”. Che cosa intendi dire?
Jeremy Bailey: Questo è uno dei miei primissimi lavori, fatto quando stavo ancora all’Università. Si riferisce ad una tesi che stavo portando avanti e che poi ho esplorato nei miei studi successivi. La tesi è una sorta di adattamento del termine “performance per videocamera” degli anni ’70, nel quale l’artista riconosce che è la videocamera stessa a mediare l’identità dell’artista . E’ una hyper-consapevolezza del contesto.
Giusto come una conferenza sulla pace può essere letta diversamente davanti alla porta di Brandenburgo, un monologo sui miei sentimenti è diverso quando compresso da un algoritmo matematico e caricato su Internet. Quando feci quel lavoro mettere video online era una idea nuova.. e in effetti il video digitale era una idea nuova!
A quel tempo questo creava una certa ansia, rispetto al fatto che il lavoro potesse essere percepito diversamente se visto su uno schermo piccolo, o uno schermo di un PC in un salotto piuttosto che nella classica galleria. Da quel momento in poi, decisi che tutto il mio lavoro futuro sarebbe stato fatto con l’assunzione che fosse visto in un modo che compromettesse se stesso.
La cosa divertente è che in effetti anche la video-arte nacque fin dall’inizio con questa supposizione: ogni aspetto della prima video-arte si basa su questo presupposto. Cosi compromesso, delusione, ansia, paura, determinazione incontrollata, privilegio del lettore, confusione, complessità: dopo questo lavoro divennero tutti temi importanti per me.
Mattia Casalegno: Parlando di videoarte degli anni Settanta, mi viene in mente il video Deodorant (1972) di William Wegman, nel quale l’artista trascorre quasi dieci minuti spiegando quanto gli piace il suo deodorante spray mentre se lo passa sotto l’ascella, col grottesco risultato di avere un’ascella mostruosamente bianca a fine performance.
Ho l’impressione che nel contesto degli anni Settanta, questa sorta di anti-spot pubblicitario era anche una critica alla TV e alla nascente cultura mass-medializzata. Come credi sia cambiata questa “iper-consapevolezza del contesto”, con l’avvento di Youtube e della cultura Web 2.0 ? Che tipo di nuovi compromessi si hanno davanti?
Jeremy Bailey: Deodorant è uno dei miei video preferiti! Vedo Youtube fondamentalmente come una popolarizzazione della video-performance anni Settanta. E’ una risposta allo stesso ambiente massmediatico. Hai tutti i fattori presenti: tecnologia accessibile, una buona dose di narcisismo represso e una comunità che lo sostiene. La differenza è che questa interazione ora avviene all’interno di un computer e su Internet al posto di una piccola scena locale. Se dovessi identificare un compromesso, potrebbe essere che i video dell’era You Tube sono mediati massicciamente dall’interfaccia, che influenza il tipo di contenuti creati. In un certo senso, ogni video caricato su You Tube può essere visto come un video circa You Tube.
Mattia Casalegno: Sempre con un linguaggio visivo che ricorda le prime body-performance degli anni Settanta, in Strongest Man (2003), provi a mantenere una videocamera a braccia tese più tempo che puoi.
Jeremy Bailey: Questo lavoro è stato un mio primo tentativo di rendere ovvi i meccanismi di un circuito narcisistico tra il mezzo di registrazione e il performer. Il riferimento è ad una precisa performance degli anni Settanta. C’è un saggio di Rosalind Krauss a cui faccio spesso riferimento, “L’Estetica del Narcisismo”, che descrive questo circuito narcisistico in modo ottimale.
A quel tempo ero molto interessato a come disabilitare la mia “entità-ego” di maschio e bianco. La camera, necessaria a dimostrare mostrare quanto sono forte, quanto sono uomo, è l’elemento stesso che disinnesca la mia entità. Qui ovviamente il giochetto è che negli anni Settanta questo tipo di camera sarebbe stata troppo pesante e impossibile da tenere (qualcuno una volta mi disse che un video del genere fu effettivamente girato all’epoca, ma non l’ho mai visto), ma nel frattempo le videocamere si sono rimpicciolite di non poco.
Questo lavoro è anche una buona introduzione per capire il modo in cui interpreto la tecnologia, che per me è quella cosa che aumenta i corpi e le identità, disabilitandole allo stesso tempo. Cè una grande analogia nel “Capitale” di Karl Marx, che distingue un oggetto da una macchina. Sommariamente dice qualcosa tipo: “un’oggetto è qualcosa che usi, una macchina qualcosa che usa te”. Sono affascinato da questa linea di confine tra macchina e oggetto. E’ una questione di chi è in controllo, e nell’arte il controllo è un importante oggetto di conversazione.
Mattia Casalegno:Spesso presenti i tuoi lavori con un linguaggio preso dalla cultura demo, che finisce per essere quasi una tuo stile distintivo. Ad esempio, sul tuo sito quasi ogni pezzo ha una dettagliata descrizione tecnica e concettuale che può essere vista come un’opera d’arte di per sé. E’ l’estetica della demo culture ad offrire una chiave di lettura al tuo lavoro o è più il tuo lavoro ad essere influenzato da essa?
Jeremy Bailey:Come ti dicevo prima, la cosa che mi intriga di più sono proprio questi demo o sketches, questo riferimento alla computer art e alla demo culture, l’approccio di svelare la macchina (il software) come una sorta di creazione divina, una esternalizzazione del corpo d’artista. L’spetto tecnico del lavoro è un riferimento al mio corpo, alla mia identità. Non sono Jeremy Bailey, sono OpenGL. non sono Jeremy Bailey, sono OpenCV! Sono un API del software che mi usa.
Mattia Casalegno: Ma al tempo stesso tu sei il soggetto e l’attore principale dei tuoi video. Sei “usato” dal software, ma poi alla fine c’e’ sempre qualcuno di fronte alla camera che spiega come fare qualcosa. Penso che la demo culture sia conoscenza e scambio, tanto quanto il potere che tale conoscenza esercita sugli individui. E alla fine è sempre un problema di come questo potere è legato al consumismo e alla produzione del desiderio. L’altro giorno ho trovato un video su You Tube di Michelle Phan, una teenager che fa una video dimostrazione su come avere un make-up stile Lady Gaga nel video Poker Face. Il video, in questo momento che ti scrivo, ha quasi 20 milioni di hits.
Alla fine ho scoperto che Michelle Phan è una testimonial per una grande casa di cosmetici e quel video è solo un altro strumento di marketing virale. Mi pare che, in un contesto differente, i tuoi video hanno lo stesso linguaggio e le stesse metodologie di questi strumenti di marketing. Vedi certe similitudini in ciò?Se sì, come queste si relazionano con l’idea di ”esternalizzazione del corpo d’artista” di cui parli?
Jeremy Bailey: Siamo entrati da tempo in un era in cui branding e advertising si mischiano con le identità personali. Tale cultura ci impone di promuoverci come prodotti, come una nuova barretta di cioccolata o una versione di Photoshop. Siamo tutti diventati promoter di noi stessi. Non mi ricordo l’ultima volta che ho usato Facebook o Twitter in un modo sincero o personale. Questi sono strumenti che trasformano la mia vita sociale in un network che posso usare per aumentare la popolarità del mio brand. Il mio lavoro per un po’ di tempo si riferiva satiricamente proprio a questo: sento che l’arte multimediale è particolarmente colpevole per aver partorito lavori e contesti che sono semplicemente supportati e sponsorizzati da brands senza nessun approccio critico.
Mattia Casalegno: L’idea di una tecnologia come “estensione” del corpo ma anche come qualcosa che inibisce il “sensoriale” deriva dalla scuola di Toronto, McLuhan e De Kerchove. Toronto è la tua città natale e in un certo modo ritrovo questo approccio nei tuoi lavori di “realtà aumentata”, come Public Sculpture (2009) e il tuo ultimo proposal Gundam Suite. Cosa ti spinge a lavorare con la realtà aumentata?
Jeremy Bailey: Sicuramente per me questa tensione tra liberazione e restrizione (oggetto e macchina) è essenziale. E’ davvero interessante vedere come cambiamo comportamento man mano che le interfacce diventano sempre più fisiche, per adattarci ai “bisogni” del software. Per me la realtà aumentata è il modo più letterale per esprimere questa tensione. In fondo, tutte le mie opere provano a inserire il corpo tra l’interfaccia e la realtà. Tale esperienza è sempre un po’ goffa e mi spinge a compromettermi per conto dell’interfaccia. E’ interessante vedere come ci adattiamo a queste circostanze non solo fisicamente, ma anche cognitivamente e moralmente.
La realtà aumentata quando applicata al corpo è un posto fantastico dove l’estetica e l’evoluzione si intersecano, e gli autori di questa nuova soft biology sono una manciata di ingegneri e programmatori tanto imperfetti quanto gli utenti controllati dalle loro interfacce.
Mattia Casalegno: “Realtà Aumentata” è la nuova parola-chiave dei media, dell’industria dell’intrattenimento e dei videogiochi: che direzioni prenderà questa soft biology, specialmente nell’ambito di questi settori?
Jeremy Bailey:Beh, sicuramente le mie idee indicano la direzione in cui andranno le cose! L’industria dei videogiochi sarà sempre più il motore trainante, specialmente in riferimento a nuovi prodotti come l’iPhone 4 (e il suo giro-scopo all’interno) e il Microsoft Kinect (hai visto il loro demo di pittura virtuale?). Sono sicuro che sia l’industria della moda per teenager che il porno trarranno vantaggio dalla realtà aumentata sempre di più nel futuro. In futuro si potra avere una porno star virtuale a casa. Senza in questo dimenticare, ovviamente, l’industria pesante e quella militare, che continueranno ad usare la realtà aumentata per produrre e uccidere con sempre maggior efficienza.