Si avvicina alla chiusura la mostra Digital Life, che ha inaugurato agli inizi di marzo 2010 le attività della Pelanda, a Roma. Restaurata di recente e parte integrante dell’enorme complesso dell’ex Mattatoio (come dice il nome, si trattava delle sale del mattatoio in cui si spellavano gli animali), la Pelanda ha aperto le porte a metà febbraio come “spazio di produzione culturale”. Voluta e curata da Zone Attive, un’entità della cultura capitolina che con il passaggio politico del comune di Roma dalla pax veltroniana a quella di Alemanno nel 2008 sembrava dissolto, la Pelanda è stata presentata alla sua apertura come un ulteriore passo avanti nel processo di recupero del Mattatoio di Testaccio.

Ad ora, la Pelanda è integrata con la sezione di Testaccio del MACRO, il museo di arte contemporanea della città di Roma di cui si aspetta l’inaugurazione del nuovo edificio per la fine di Maggio e che in questa sede decentralizzata (MACRO Future) ha puntato da sempre a coinvolgere un pubblico di giovani.

Finanziata dalla Camera di Commercio di Roma e fortemente sostenuta dall’Assessorato alla Cultura, “Digital Life” è frutto di una collaborazione del MACRO con Roma Europa Festival, che si è preso carico dell’evento dandone la curatoria a Richard Castelli. Presentata come “grande rassegna dedicata al futuro digitale e alle contaminazioni fra tecnologia, nuovi media ed espressioni artistiche contemporanee” (si veda il comunicato stampa dell’evento), “Digital Life” avrebbe come intento quello di mostrare Roma come “capitale digitale” (e qui cito l’assessore alle Politiche culturali del comune Umberto Croppi in conferenza stampa all’apertura della mostra).

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Insomma, la mostra si è ritrovata ad essere per forza di cose parte integrante di un sistema di equilibri e proclami tipici delle politiche culturali romane. Presentata in pompa magna, Digital Life ha dovuto sostenere il ruolo di punta di diamante di un progetto di innovazione culturale della capitale che passa attraverso la tecnologia come elemento di modernità, di sviluppo, di futuro.

Richard Castelli, personaggio influente dell’area new media Europea (che Digicult conosce bene: http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=660) e che già a Roma aveva curato per Roma Europa Festival la mostra Sensi Sotto Sopra, è la mente di Epidemic, organizzazione francese che dagli anni Novanta produce e porta nei maggiori festival internazionali i lavori di artisti come Jefrey Shaw, Ulf Langheinrich, Jean Michel Bruyère e sostiene i lavori di altri artisti come Julian Maire (tutti non a caso invitati anche in “Digital Life”).

“Digital life” è una bella mostra, che si incastra perfettamente con gli spazi della Pelanda. Più che concentrarsi sul digitale tout court, l’elemento che veramente emerge dai lavori presenti è quello della spazialità, del coinvolgimento fisico dell’osservatore, del concetto di “cinematico” applicato nelle sue possibilità astratte e sensoriali (piuttosto che narrative-oggettive e lineari) all’installazione.

La prima sala, da fruire con gli occhiali 3D, ospita lo schermo a 360 gradi AVIE (Advanced Visualization and Interaction Environment) disegnato da Jeffrey Shaw. AVIE era il territorio di visione dei lavori di Jean Michel Bruyère e di Ulf Langheinrich. Il primo, La dispersion du fils, (2008-10), è una lunga animazione 3D: un serpentone formato dalle still di 500 film centrati sul mito classico della metamorfosi di Atteone (da Ovidio) si muove vorticosamente sullo schermo, costruengo gorghi, spirali, flussi.

Spazio e movimento catturano lo spettatore in un processo quasi fisico. Il lavoro di Ulf Langheinrich, Alluvium (2010), è un’esperienza cinematica di tutt’altro tipo ma decisamente in tono con le opere dell’artista (metà del duo Granular Syntesis): una partecipazione puramente visiva, psichedelica, in bianco e nero, che fa navigare la mente in spazi immateriali.

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Raffinati, concettuali e densi i lavori di Julien Maire, già incontrato a Transmediale e Sonic Acts negli anni passati. Al momento della visita Memory cone non funzionava “per problemi tecnici”, mentre erano attive le già famose Exploding Camera (2007) e Low resolution cinema (2008). La prima è una narrazione filmica non oggettiva che prende spunto dall’uccisione del Comandante Massud (principale oppositore dei Talebani in Afghanistan) alla vigilia dell 11 Settembre 2001 per parlare della saturazione di immagini operata dalla pervasione dei mezzi di informazione.

Una macchina fotografica “è esplosa” e poggiata su un tavolo. I suoi meccanismi, un monitor ed un computer che regola i funzionamenti di ogni singolo elemento (compreso l’audio e una luce poggiata sul tavolo) sono gli elementi che permettono la costruzione dal vivo di un film astratto sulla guerra.

Tecnologia analogica e digitale si intrecciano anche in Low resolution cinema, una proiezione in bianco e nero di pixels a bassissima risoluzione (384×32 pixels) fatta attraverso vecchi proiettori analogici e cristalli liquidi a bassa risoluzione. Il risultato è un film astratto le cui variazioni visive minime sono realizzate attraverso il movimento dei due LCD all’interno del fascio di luce dei proiettori.

Già incontrato (al DEAF di Rotterdam nel 2007) l’installazione di Thomas Mcintosh (realizzata in collaborazione con Emmanuel Madan e Mikko Hynninen) Ondulation, un lavoro del 2000 che basa la sua potenza sulla qualità totalmente low tech dei componenti. Una vasca riempita d’aqua che si muove in sinestesia con il suono diffuso dagli speakers diventa (a seconda del colore, dell’inclinazione e della forma dell’illuminazione che lo tocca) un proiettore di immagini astratte. La sinestesia tra suono e immagine non è generata da un software ma dagli elementi analogici che occupano lo spazio. L’esperienza cinematica è totale e minimale nello stesso tempo.

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Il lavoro forse che ha forse toccato di più il grande pubblico è l’installazione Life – Fluid, Invisible, Inaudible del compositore giapponese Ryuichi Sakamoto insieme a Shiro Takatani. 9 schermi sospesi geometricamente in un black box proiettano immagini di vite marine e microcellulari. Gli schermi altro non sono che contenitori trasparenti riempiti d’acqua e di fumo, sui quali sono proiettate sequenze di immagini prese dalla natura.

L’effetto è spaesante, lo spettatore è parte delle proiezioni, immerso nel flusso di immagini o può osservare la vita che si muove sopra la sua testa, sdraiandosi sul pavimento di questa sala completamente priva di luce e lasciandosi andare all’esperienza della vita protocellulare.

Di notevole effetto, ed ancora una volta totalmente low tech, l’installazione di Erwin Redl Matrix II, altro lavoro che risale al 2000 e che riesce a costruire uno spazio totalmente immersivo facendo ricorso a un escamotage da prestigiatore. Il black box in cui si entra è interamente riempito di pixel luminosi: camminando in questo spazio ci si sente parte di questa misteriosa matrice digitale (la Matrix della trilogia cinematografica dei fratelli Wachowksi) della quale il mondo del prossimo futuro sarebbe costituita.

La passegiata nella matrice è però un inganno: i pixel verdi non sono elementi di calcolo di un enorme mente robotica ma led luminosi che giacciono su una fitta foresta di cavi sottili che cadono perpendicolari dal soffitto al pavimento. La matrice non è altro che illusione, come il mito del digitale che non è altro che estetica e che può essere ricostruito e rappresentato con un’installazione che si può trasportare in valigia.

I lavori dello svedese Christian Partos M.O.M – Multi oriented mirror (2003) e dell’italiano Martux_M X-scape 08 concludono la mostra, la cui vocazione politica, che mira a presentare l’evento come manifestazione di una missione innovatrice della giunta comunale romana, rende “Digital Life” un evento un po’ troppo ufficiale (ma che punta a un target giovanile) e che nello stesso tempo fa un uso naif e ridondante di termini come “digitale”, “tecnologie”, “futuro”, “real time”, “contemporaneità”.

Insomma, nonostante alcuni lavori potenti, l’impressione che ho avuto varcando la soglia della Pelanda e vagando nei suoi bei spazi appena restaurati (nei quali sono rimasti in bella mostra gli strumenti che venivano usati per spellare gli animali) è che la sovrastruttura comunicativa messa a punto per richiamare masse di spettatori a caccia di “futuro digitale” abbia usato strumentalmente le opere ed i loro autori internazionali, il cui nome esotico facesse da cornice al concetto di “novità”.

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Della serie: se è straniero vende meglio, un po’ come George Clooney che fa la pubblicità a una famosa marca di spumante Made in Italy e a un marchio di caffè espresso. Qui quello che si vende non è il caffè o lo spumante ma la “nuova via” del Comune di Roma. Il mezzo per vendere non è il sorriso sornione di Clooney ma lavori che talvolta hanno anche un decennio ed artisti che altrove avrebbero oramai raggiunto una collocazione concettuale più raffinata (quella dell’esperienza a cavallo tra cinema e installazione o della sinestesia avrebbero calzato in questo caso), ma qui a Roma sono raccolti intorno a un concetto oramai un po’ debole (ma facilmente vendibile) come “digitale”.

Del resto, in Italia la riflessione e la pratica dell’avanguardia digitale è sempre stata una vocazione quasi militante di alcuni soggetti, che nei decenni si sono ritagliati spazi di agibilità anche grazie alla costruzione di reti internazionali in cui crescere e condividere. Dagli Hackmeetings a festival come Dissonanze, Netmage, Peam o Share (e faccio pochissimi nomi) a riviste come “Digicult” stessa e “Neural”.

Questa valenza militante, dovuta a una formalizzazione piramidale delle istituzioni culturali del Paese, nelle quali l’accesso agli spazi ed ai fondi è sempre stata riserva di pochi vertici e di istituzioni “pesanti”, ha fatto sì che spesso si trattasse di progetti autogestiti o supportati da capacità economiche minimali e quindi incapaci di poter puntare ad invitare progetti il cui apparato tecnologico fosse troppo costoso da supportare.

In altre situazioni le installazioni di Ulf Langheinrich o Juliane Maire possono rientrare in un discorso più complesso come ad esempio quello dell’arte e gli spazi cinematici (mi riferisco alla mostra “The Cinematic Experience” http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1068, organizzata per la XII edizione del festival Sonic Acts di Amsterdam al Nederland Media Art Institute – Nimk e accompagnata da un potente apparato concettuale di lectures e workshops) e far parte di una ricerca organica portata avanti da un collettivo di persone che lavorano dal punto di vista concettuale e pratico sull’avanguardia dei nuovi media dagli anni Novanta.

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Qui a Roma invece, per vedere questi lavori bisogna entrare in un contesto super ufficiale, piramidale, costruito dall’alto, non permeabile, il cui concetto di “novità” fa a pugni con l’idea dell’avanguardia che si fa in contesti di ricerca e condivisione per lasciare spazio a questioni di pura affermazione del potere in carica.


http://romaeuropa.net/digitallife