Abbiamo avuto il piacere e l’onore di andare a trovare a casa sua José Manuel Berenguer, figura chiave della sperimentazione elettroacustica musicale in Spagna. Artista polivalente, dall’intenso curriculum ricco di esperienze in vari campi, tra le altre cose codirettore dell’Orquestra del Caos, José Manuel è un uomo affabile, aperto al dialogo e di enorme spessore culturale. A sentirlo parlare si potrebbe stare ore senza che si abbassi il livello di attenzione. Il suo percorso professionale e artistico è affascinante.

Dottore in medicina, esperto di neurofisiologia, chitarrista in gioventù, Berenguer, inizialmente sotto la guida di Gabriel Brncic e di Lluís Callejo, che lo iniziarono a nuovi percorsi di esplorazione musicale e lo introdussero alle applicazioni musicali di matematica e informatica, divenne anno dopo anno il personaggio che è oggi: un creatore interessato a dissolvere la linea che separa installazioni, esperienza acustica e robotica, generando opere di diverso tipo, da brani acustici a installazioni multimediali, da sculture cinetiche a sistemi di vita artificiale.

La densa produzione artistica di José Manuel è ben documentata e non troverebbe spazio qui. Ci limitiamo a citare due dei progetti più recenti in cui è impegnato il nostro artista. Uno è quello degli Autofotóvoros, di cui ci parlerà personalmente lui stesso nel corso dell’intervista; l’altro è Sonidos en causa, una raccolta di paesaggi sonori legati a paesi dove ultimamente lo sviluppo economico è stato particolarmente rapido.

Questo progetto ha portato per alcuni mesi José Manuel e l’Orquestra del Caos in Amazzonia, a documentare i cambiamenti del paesaggio sonoro partendo da città ad alta densità demografica e spostandosi via via verso zone più desolate, dove ci fosse solo la natura. Per evitare di influenzare i comportamenti degli animali, i nostri artisti hanno progettato e installato sugli alberi dei registratori in grado di resistere alle intemperie e di documentare la vita sonora dei luoghi in totale assenza umana.

Questo progetto, oltre ad aver generato un ricco archivio di registrazioni descritte e messe a totale disposizione di chi desideri usarle, prevede ulteriori fasi con l’obiettivo, tra l’altro, di installare microfoni che permettano la trasmissione dei suoni in streaming su Internet.

Ma torniamo alla storia di Berenguer e cerchiamo di ripercorrerla insieme a lui. Erano gli anni Settanta, le macchine e la tecnologia erano ben lungi dall’essere ciò che sono oggi e, armato delle sue basi in ambito scientifico e della sua implacabile voglia di imparare, José Manuel diede inizio al suo viaggio, che lo portò anche a incontrare personaggi di grosso calibro, come Luigi Nono.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Parlaci della tua relazione con Luigi Nono.

José Manuel Berenguer: Luigi Nono apparve a Sitges un giorno quando avevo 24 anni e avviammo una relazione di amicizia, nel corso della quale mi influenzò moltissimo il suo pensiero. Con lui più che di musica (non mi definisco un suo allievo) parlavamo di politica e di filosofia. Quando mi diedero una borsa di studio in Germania, mi misi a studiare tedesco, ma poi ne ottenni un’altra a Bourges, in Francia, e optai per quella perché parlavo già il francese.

Lì ottenni due lavori: lettore nell’università e professore di musica elettroacustica al conservatorio. Grazie ai miei guadagni andavo spesso a trovare Luigi Nono a Friburgo e da lui imparai moltissimo.

Per Luigi era molto importante la questione della mancanza di perfezione della partitura: la scrittura non può dire tutto, presenta sempre un vuoto. E questa idea si fondava sul Trattato logico-filosofico di Wittgenstein, di cui è molto nota la proposizione 7.0, che dice che di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Insomma, Nono parlava di quelle cose che il linguaggio non può trasmettere e pensava che buona parte del pensiero musicale non fosse trasferibile dal punto di vista della scrittura.

Questa fu una delle idee che in quel periodo mi colpirono di più, perché ero convinto che con la scrittura si potesse fare praticamente di tutto (pensate che avevo venticinque anni e avevo studiato composizione) e perché apriva la strada a una sorta di lavoro scultorio con i mezzi elettronici. Offriva cioè la possibilità di andare oltre la mera definizione di un comportamento che doveva essere seguito con ordine, perché lo diceva la partitura, perché il compositore aveva pensato così. Ora si poteva entrare nella conformazione della materia sonora in un modo sensibile o, usando un termine moderno, in modo “interattivo”.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Come si legge anche nel tuo sito web, “interattività” è uno di quei termini sui quali esprimi dei dubbi…

José Manuel Berenguer: Sì, lo metterei tra virgolette perché l’interazione, dal punto di vista delle arti plastiche, implica che ci sia un pubblico e che quel pubblico trasformi l’opera. In questo caso dico interattivo nel senso che si aziona il dispositivo e il dispositivo risponde, in modo rapido e in “tempo reale”.

E questo fu importante anche in seguito per chi scriveva i programmi e chi realizzava hardware digitale: i dispositivi dovevano diventare capaci di una risposta in tempo reale, non tanto per la questione dell’interattività tale come la si vede oggigiorno nelle arti plastiche, quanto perché si potesse ottenere una risposta rapida di quanto si stava facendo.

Certo, fino alla metà degli anni ’90 la questione del tempo reale era realmente una chimera: dovevi scrivere un programma con un linguaggio, come per esempio il C, e dovevi passare alcune ore compilando. Nel frattempo potevi leggerti un libro e quando finalmente sentivi quello che avevi fatto ti eri già dimenticato di cosa volevi fare.

Questo quindi era uno degli obiettivi principali: che si potesse toccare un pulsante e che quel pulsante producesse un effetto che in qualche modo fosse una risposta immediata. Il pensiero dell’impossibilità di scrivere tutto con i mezzi offerti dal linguaggio è relazionato con l’infinito, perché la scrittura o qualsiasi altro linguaggio in linea di massima è una costruzione discreta, a salti, non continua e quindi l’esistenza dell’infinito con il quale lavorano i matematici per le loro dimostrazioni (più utili nel mondo della fisica, per esempio, che sono i limiti che si usano per definire traiettorie, integrali e così via) ha bisogno dell’idea di continuità, che è un’ipotesi.

Oggi ci sono addirittura matematici che sostengono che quest’ipotesi si dimostrerà falsa. Per il momento lavoriamo con questa ipotesi e poi vedremo, anche se sicuramente le cose continueranno a funzionare. Questa questione è molto importante dal punto di vista teorico e spesso sembra che le questioni teoriche non abbiano importanza in questioni pratiche, come scrivere la musica.

Però il problema è che alla lunga si producono errori, divergenze gravi tra la teoria e la pratica e alla fine risulta per esempio che stai facendo una musica con seri problemi ideologici anche se non lo vuoi accettare. Il fatto è che all’inizio provi, non ti importa se ti stai discostando dal punto di partenza, ma alla fine ti trovi a percorrere una direzione e volevi andare in un’altra. Questo succede spesso.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Tutto ciò accadde fino al 1987…

José Manuel Berenguer: Sì, prima che decidessi di tornare a Barcellona per questioni personali ed entrassi nella facoltà di informatica, o meglio al dipartimento di informatica della facoltà di scienze, perché una facoltà dedicata non esisteva ancora. Finalmente cominciai a imparare questioni più tecniche, che per me erano molto importanti perché avevo bisogno di sviluppare un discorso sulla contraddizione tra continuità e discontinuità, un discorso veramente fondato filosoficamente e matematicamente.

Lungo questo percorso ovviamente c’erano le macchine, con le loro caratteristiche e che erano molto interessanti, servivano per fare cose molto specifiche e quindi era molto importante sapere quale fosse la curva di risposta di ciascuna di esse, per sapere cosa si poteva fare concretamente con una o con l’altra.

Attualmente le macchine cominciano a funzionare da sole, il che è meraviglioso perché puoi dimenticarti di tutto questo: non devi ricercare troppo, ma ti limiti a usare l’interfaccia utente ed è fatta. Questo è un gran vantaggio perché hai più tempo da dedicare al concetto, che è molto importante. E soprattutto uno dei problemi che abbiamo ancora nell’arte sperimentale, nell’arte elettronica, è che siamo ancora troppo vincolati alla questione macchina, all’hardware, al software.

Per questo si parla tanto di open source. La mia opinione è che non importa realmente se lo fai con open o closed, hard o soft. L’importante è avere un pensiero sulle cose e poter plasmare, approfondire questa idea.

Questa facilità offerta dalle macchine che funzionano praticamente da sole permette di andare molto più lontano di quanto non si potesse fare prima. La macchina di Luís Callejo aveva 4KB di RAM; adesso il mio Mac ha 4GB di memoria e non mi preoccupa più, forse un po’ la velocità del processore. Conosco il tipo e la quantità di istruzioni che può elaborare al secondo ma realmente l’architettura della macchina mi interessa sempre meno, perché quello che vedo è che collego i dispositivi, lancio l’applicazione e tutto va solo. Questo mi permette di dedicarmi maggiormente alla questione artistica.

Ciò non significa che non sia molto importante avere una base di come funziona il tuo strumento. Pierre Schaeffer diceva: “Conosci il tuo strumento”. Se suoni la chitarra devi conoscere la fisica delle corde, sapere di acustica e conoscere il legno.

Se lavori con l’elettronica devi conoscere i dispositivi per sapere fin dove possono arrivare e spesso molte delle opere più interessanti sono realizzate forzando le macchine perché possano andare più in là di quanto potrebbero. Qui entra in gioco la serendipity, quando stai lavorando sulla questione sensibile, perché in realtà stai lavorando con cose che sorgono, che non erano previste.

Quindi si deve avere una base e poi dimenticarsene un po’, per non rimanere attaccato a quella questione, o diventa molto difficile uscirne. È quello che succede quando si studiano per molti anni contrappunto o armonia e alla fine si sanno fare solo esercizi di contrappunto o armonia ed è drammatico. È quello che succede alla maggior parte dei compositori. La tecnica è molto importante ma non bisogna rimanervi intrappolati: sarà un topos, però la tecnica è importante soprattutto per trascenderla.

Quello che è interessante sono i percorsi che usa la gente per superarla, per acquisire il dominio di ciò che è difficile da trasmettere con il linguaggio.

Nel mio caso, come ti accennavo, cerco di trovare le catastrofi nei limiti del comportamento delle macchine. Che non è una mia invenzione: c’è molta gente che lo fa. Non so se lo esplicitano in questo modo, ma si tratta di questo. Appunto, della serendipity: ti trovi in un punto che non ha niente a che vedere con quello di partenza, perché hai fatto in modo che la macchina si comportasse in maniera caotica e quindi non prevedibile secondo la tua teoria.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: In parte quello che ci hai detto finora già risponde alla prossima domanda, ma te la poniamo ugualmente perché ci interessa molto. Il tuo lavoro presenta una base filosofica molto solida: come traduci il pensiero, il concetto che sta dietro nell’espressione artistica, qual è il processo che genera l’opera?

José Manuel Berenguer: Appunto, è un po’ quello di cui stavamo parlando. In relazione alla ricerca della caoticità della cose, ci sono diversi fattori che confluiscono nel mio lavoro. Da una parte c’è la natura, che è una sorta di modello molto interessante che offre spunti. Poi ci sono i dispositivi. E poi c’è l’artista, con le sue idee. Quello che osservo nella natura è che è ricca di cose relazionate con trame, con unità semplici che però si uniscono. Per esempio le api o le formiche: una è poco interessante, presenta un comportamento relativamente semplice, però quando si crea un gruppo cominciano a presentarsi forme.

Quindi la questione della collettività o del grande numero di particelle, che quando si uniscono creano cose che non sono scritte nei singoli individui, è molto presente in molti dei miei lavori. Quando sto facendo la sintesi granulare di qualche materiale, la bellezza che presenta dall’esterno è l’imprevedibilità data dal fatto che c’è molta massa d’individui. Quando sono pochi, presentano un comportamento facile da capire, ma quando cominciano a essere molti generano produzioni che agiscono su di me in modo inaspettato.

Questa azione su di me, sulla mia percezione, sulla mia coscienza, mi offre informazioni per poter scegliere i comportamenti che mi interessano di più o di meno. Ma notate che da una parte c’è questo modello di comportamento delle masse in natura e dall’altra il trattamento delle masse in un modo diciamo artificiale (per usare un termine che non mi interessa molto però ci serve per capirci).

Quindi mi metto ad ascoltare, a osservare che succede con questi algoritmi e alla fine scelgo in un modo assolutamente arbitrario. Insomma, faccio il contrario di quello che faceva Cage. Non voglio discutere il modo in cui lavorava lui, lo trovo fantastico, ammiro moltissimo tanto la sua musica quanto il suo pensiero. Ma in questo senso non uso il caso come lui.

Nel mio pensiero una componente molto forte è filosofia del caso e c’è anche molto della teoria evolutiva. Penso che una delle idee geniali del pensiero occidentale è quella della selezione naturale come motore dell’evoluzione. Da un lato la selezione naturale che si rende più evidente quando ci sono masse di individui che si comportano in un determinato modo e si relazionano a un determinato ambiente, dall’altro c’è un’altra questione che ha a che vedere con la selezione naturale è che è che lascio crescere queste specie di produzioni in un mezzo che è la mia mente ed è qui che volevo arrivare.

Io uso la mia mente come un ambiente in cui far vivere una serie di specie percettive o sensibili. Qui ci sono specie che si evolvono e altre che involvono: alcune prendono forma, altre no. A influire è la relazione che sviluppano tra di loro.

Poi un’altra cosa che vedo molto relazionata con la questione della selezione naturale è l’idea di conflitto. Questa è assolutamente presa da Luigi Nono, che era un materialista dialettico davvero convinto e diceva che il conflitto è il motore del mondo, che fa che le cose siano possibili, evoluzionino, rimangano in movimento costante. Lo sosteneva con una passione che convinceva davvero e io penso che le situazioni conflittuali davvero ci fanno evolvere. Quando ci sono due specie percettive che si scontrano per qualcosa, lì è dove succedono cose interessanti: entrambe possono continuare a svilupparsi secondo la dinamica del sistema o magari una scompare. Questo genere di cose sono fondamentali e basilari nel mio modo di fare arte.

Per esempio l’ho messo come manifesto della mia ultima opera, quella dei robot, Autofotóvoros. In questo caso si trattava di ricreare una situazione di conflitto in cui c’erano 21 elementi uguali in competizione tra loro non per ottenere una dose maggiore di qualcosa, ma per una questione puramente sistemica, perché andavano a finire tutti nello stesso posto, cercando la luce.

Questo invita a pensare che la violenza è un tema più sistemico che etico: la violenza esiste perché esistono situazioni che portano a essa e se in qualcosa siamo diversi da quei piccoli robot che litigano tra loro fino al punto di rompersi, di “uccidersi”, è nel dover saper valutare la situazione sistemica per evitare di arrivare a quei punti.

Quest’opera alla base presenta tutto questo, principalmente la questione del conflitto. Attualmente funzionano 9 robot e 12 devono essere aggiustati. Nel mio sito web si vedono video di alcuni di essi, ma volevo vedere cosa succedeva mettendone insieme un numero maggiore e per evitare le risse ho dovuto introdurre un sistema che spostasse la luce quando si rilevavano assembramenti eccessivi, ma spesso era già troppo tardi.

L’opera si presentò a Vittoria, nel Paese Basco, e davvero non so perché la gente di Krea mi abbia fatto realizzare quest’opera: sono persone fantastiche, che hanno creduto fin dal primo momento in questo progetto e hanno accettato immediatamente di produrla. Ma per me si trattava di un’esperienza.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Quindi ricapitolando, le questioni alla base del tuo lavoro sono quella evolutiva, quella della massa e quella del conflitto.

José Manuel Berenguer: Ce n’è una quarta, in relazione con queste, che è l’epifenomeno, l’idea che quando c’è una collettività di individui che fanno la stessa cosa emergono fenomeni inaspettati. Sono all’inizio, però per me è molto importante perché queste cose inaspettate creano al posto tuo. E mi interessa perché da molti anni (anche se so che è un’utopia, che non ci arriverò mai, perché non se no abbastanza e perché da un punto di vista sistemico è impossibile) cerco di ascoltare me stesso, di vedere come funziono da un punto di vista artistico e di plasmare questo funzionamento con macchine esterne.

Da qui l’idea di fare macchine, in fondo per tendere di smettere di farle, per arrivare a una specie di nirvana. Non sono buddista, ma capisco la necessità di arrivare al nirvana prima o poi.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: E cosa ci dici della luce? Nel tuo lavoro e anche nelle sculture che tieni qui in casa tua, sembra un elemento molto presente.

José Manuel Berenguer: La luce e il suono sono complementari. Io di suono so molto e di luce molto poco. Il suono quindi mi annoia un po’ e la luce per niente, perché ho molto da imparare. Per questo sto sperimentando con la luce, anche se sono cosciente delle carenze delle mie opere plastiche. Ho esperienza come fruitore, ho visto molto, ma un’altra cosa è fare in modo che l’aspetto formale di quello che faccio sia il più appropriato. Penso anche che questo generi un’altro tipo di epifenomeno, cioè le opere crescono o assumono un aspetto in funzione di quello che fanno.

E questa è l’idea che sta alla base delle mie sculture elettroniche: le forme dipendono da come sono collegati i componenti elettronici, cioè il circuito non può essere in un altro modo, i collegamenti di base richiedono una strutturazione specifica.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Come definiresti il genere di musica che fai? Prima hai usato i termini “sperimentale” o “elettronica”, ma ormai definiscono altre cose, non credi?

José Manuel Berenguer: Ti risponderò come ho risposto a un ragazzo di 13 anni che mi fece la stessa domanda un giorno dopo un concerto alla Fundació Miró: faccio la musica che mi va [ride]. Il fatto è che non lo so, come definireste questa musica? Io non la definirei in nessun modo, perché non ho la prospettiva per rispondere. Ci sono stati molti tentativi ma mi sembrava che tutti peccassero di carenza di prospettiva storica e in ogni caso era la musica che mi andava di fare, cosa che non ho inventato io (nessuno si inventa niente) ma che imparai leggendo Edgar Varèse, che in un determinato momento della sua vita nei suoi scritti disse: “Non so se faccio musica o no, però faccio quello che voglio”.

Inoltre qual è la necessità di definire in un modo o nell’altro qualcosa, quando quello che ti interessa è fare quello che fai e basta? Qual è la necessità di tante denominazioni? È una reminiscenza borghese di discendenza da qualcosa. Non può essere che tu stia facendo una sola cosa, una definizione rischia di diventare un manifesto, ma sarebbe una tautologia, perché qualunque musica tu faccia è ibridata. Un momento fa stavamo parlando di evoluzione, no? L’evoluzione fa sì che le specie, per non ridurre lo spettro di produzione, necessitino del massimo di ibridazione, di incrocio di materiale genetico.

Nella musica è uguale: tutte le discendenze non sono altro che saghe come Il signore degli anelli, cosmogonie, come la nostra stessa cristiana (In principio era il Verbo). Sembra che tutte queste genealogie non siano altro che giustificazioni del potere. Pensate alle monarchie, che dicono che il potere viene da dio, ma chi lo dice? I re stessi! Il problema è che quando dio smette di esserci si presenta un enorme problema, perché chi conferisce l’autorità ai poteri?

In musica succede lo stesso: i creatori hanno bisogno di affiliarsi a una determinata discendenza e in realtà non accettano la loro libertà. Quindi succedono cose come quando si dice che Karlheinz Stockhausen o Pierre Henry sono i padri della musica elettronica. Va bene, ma bisogna vedere che relazione c’è tra la loro musica e quella che oggi si definisce elettronica. È vero che negli anni 50 la musica di Stockhausen fu definita elettronica, ma poi il termine si è spostato su un altro significato, cosa che va benissimo, perché i termini si spostano, ma non può essere che solo per un problema di definizione si consideri una musica discendente di un’altra quando ci sono moltissime differenze.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: C’è una definizione che ci piace di più: “musica di ricerca”.

José Manuel Berenguer: Sì, mi piace molto, ma io non direi solo musica di ricerca, ma direi arte di ricerca, perché penso che è un modo di fare arte. Musica di ricerca, sì, gente che sta cercando cose, che si preoccupa più di cercare che di ottenere un risultato che sia quello di sempre. Luigi Nono era molto radicale, in merito a questo. Diceva che se tu volevi essere un artista, dovevi smettere di fare partiture dove tutto fosse previsto, dovevi sorprenderti di quello che avevi scritto. Se non ti sorprendevi non era arte. Joan Albert Amargós, che in quell’epoca era mio professore ed è un compositore superdotato, non era assolutamente d’accordo. Ma Nono diceva: “Se sai perfettamente come suonerà, di cosa stiamo parlando? Di avanguardia? Quale avanguardia?”.

Non si tratta tanto di andare più lontano quanto di andare da un’altra parte, non di crescere (l’evoluzione non è una linea che punta perennemente verso l’alto, ma presenta un andamento composto da salite e discese, senza controllo), ma di esplorare luoghi nuovi. Non si tratta di progresso, ma di fare in modo che le cose siano sempre fresche.

Secondo me esiste un’arte (e una musica) che può rientrare nell’idea delle industrie culturali e un’altra che non può, perché si tratta di un’arte per “perdere il tempo”, per impiegare tutta la tua capacità creativa cercando di “fare ricerca” in modo rigoroso. E questo è molto relazionato con la necessità di un supporto economico da parte dei dipartimenti di cultura dei vari paesi.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: E qui in Catalunya viene offerto?

José Manuel Berenguer: Per niente. Qui c’è il CONCA (Consell Nacional de la Cultura i de les Art), che vorrebbe essere proprio un organismo di supporto, ma dispone di pochissimi fondi. Secondo me i politici l’hanno creato per liberarsi della pressione da parte delle associazioni di artisti, per la questione della democratizzazione dell’arte. Dove c’è vero interesse è nelle industrie culturali, l’ICIC (Institut Català d’Indústries Culturals). Attualmente tutta la questione musicale è trasferita all’ICIC. In Francia finora c’erano 5 gruppi di ricerca musicale importanti, ma dato che adesso la Francia è diventato un paese che sta entrano del neoliberalismo più esacerbato stanno scomparendo.

A dicembre abbiamo assistito al festival di arte sonora Zeppelin, i cui temi quest’anno erano la paura e il potere, e abbiamo avuto modo di ascoltare le opere dei partecipanti in ottofonia in due spazi del CCCB, l’auditorio e la hall. Tutti gli autori per produrre le loro opere disponevano di tutti gli elementi necessari (come otto casse e matrici per la distribuzione del segnale)?

Alcuni sì e altri no. Per esempio Ignasi Álvarez di Telenoika ha lavorato in stereo, immaginando come sarebbe stata l’opera riprodotta con otto casse, e ha ottenuto un risultato interessante.

L’ottofonia è uno standard negli studi dove si crea musica di ricerca, ma non è l’unico: esistono anche sistemi in cui si usano un numero maggiore di casse (da 16 a 400 o più). La questione è la multifocalità: nella realtà i suoni non provengono frontalmente, ma ci circondano. Jonh Cage nel Roaratorio diceva che dobbiamo tendere all’ascolto della foresta, dove non hai idea di cos’hai davanti e cos’hai dietro e tutto si produce intorno a te. Per riprodurre questa situazione esistono diverse soluzioni: per esempio i canadesi, gli americani e i tedeschi tendono a optare per ambienti quadrati con casse che circondano completamente l’ascoltatore, che era l’idea che ebbe Stockhausen per l’Esposizione Universale di Osaka.

Un concetto importante è il fatto che non dobbiamo considerare le casse come fonti sonore ma come strumenti musicali, come dispositivi che ci permettono di sfruttare le riflessioni degli spazi dove si presenta la musica, perché gli spazi non sono mai neutri e vibrano in modi molto diversi. E un altro concetto che mi sembra interessante è la necessità di privare il musicista del ruolo di “officiante” sulla scena per offrire al pubblico una zona d’ascolto dove possa godere di assoluta libertà di movimento.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: A proposito di ascolto e di spazi, come è possibile che i musicisti lavorino su un palcoscenico con un sistema di monitoraggio e non al centro della sala dove si offre il concerto, dove di solito succedono cose molto diverse da quelle che si odono sul palco, per via dell’acustica dello spazio e del sistema di amplificazione diretto al pubblico?

José Manuel Berenguer: Me lo chiedo anch’io e suppongo che sia dovuto alla mancanza di educazione all’ascolto. Un’opera realizzata a casa con un paio di casse non sarà mai uguale a come la si riproduce in un sistema grande e in uno spazio acusticamente determinato e questo equivale a una perdita di dati di ciò che si offre al pubblico. Con il tempo e diversi “fallimenti” acustici si impara che è importante che l’opera non suoni bene solo a casa propria, ma anche nel luogo dove la si riprodurrà e in merito a questo in genere si ha ancora poca esperienza.

Il musicista deve imparare ad allontanarsi dal monitor e a considerare parte del suo strumento anche lo spazio in cui si esibisce, il sistema di amplificazione che usa e il tecnico del suono. Il tecnico del suono non è rivestito di un ruolo puramente tecnico, come a volte si suole pensare, ma è colui che si occupa di rispettare la fedeltà dell’opera e che prende decisioni estetiche nello spazio dove la si riproduce.

Barbara Sansone e Jordi Salvadò: Esatto: questo accade anche nell’ambito delle arti plastiche. Uno scultore per esempio non si limita a creare l’opera, ma si deve proccupare anche di come proporla al pubblico, del contesto e delle condizioni in cui mostrarla. Ma ti abbiamo interrotto.

José Manuel Berenguer: Sì, dicevo che in generale si ascolta poco. E non in modo globale, perché cerchiamo significati, siamo convinti che i suoni puntino a una determinata fonte e in parte è così, ma non importa da dove provengano. L’importante è l’esperienza di questi suoni. Si tratta di un salto estetico che non è facile spiccare nella società e meno che mai nel mondo politico.

Siamo abituati a un sistema di distribuzione frontale dai tempi dell’oratorio, dove c’è una persona che ci parla davanti. Oggi gli spettacoli perpetuano la stessa filosofia, con un palcoscenico davanti, e per l’industria musicale è inconcepibile proporre un formato diverso. Il che è un freno per nuove forme di ascolto. Prendi un politico, situalo al centro di uno spazio sonoro che lo avvolga, chiedigli che ascolti: se riesci a trattenerlo abbastanza a lungo è possibile che cominci a rendersi conto di cosa succede intorno a lui e sicuramente ne rimarrà sorpreso.

Ma all’inizio, senza una coscienza di questo tipo d’ascolto, per lo più non si accorgerà di niente e quindi sarà difficile che comprenda e appoggi questa nuova modalità. I politici normalmente si muovono per discorsi quantificabili e la musica non lo è: per questo non ne sono molto interessati. La musica e l’arte sono caratterizzate da altre cose che non si possono dire né leggere e quindi si devono trasmettere per empatia. E qui torna la proposizione di Wittgenstein che ho citato prima.


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