Arrivato al suo quarto compleanno, anche quest’anno Almost Cinema ha accompagnato il Film Festival di GentLa mostra, organizzata da Eva de Groote, la curatrice dell’area media del centro per le arti e spettacolo Vooruit, è ospitata come le ultime edizioni (che ho visitato e presentato in un testo critico pubblicato giusto un anno fa, http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1324) nei fantastici spazi art Nouveau dello stesso Vooruit.
Ancora una volta il Festival nel festival si è dimostrato un progetto che merita la visita da Bruxelles. Una scommessa difficile per un progetto curatoriale che punta a raccogliere lavori che giocano con il cinema e con la possibilità di isolarne alcune caratteristiche peculiari e trasportarle fuori dallo schermo. Ambiente, immersione, movimento, suono, luci, immagini, narrazione sono i principi di base dell’illusione cinematografica. E’ possibile trasporre ognuno di questi elementi in un’installazione che produca un effetto cinematico sullo spettatore?
La scommessa sembra vinta anche quest’anno, pur nella sua essenzialità, costruendo un percorso secondo me non facile da colmare di progetti che funzionino. La riflessione sull’espansione del concetto di cinema e sulla trasposizione dell’esperienza cinematica in una proposta estetica che eluda la narratività del linguaggio del film è una ricerca che si sta definendo negli ultimi anni in maniera più organica e consapevole, grazie anche al lavoro di artisti provenienti da approcci e formazioni molto diverse (dal live cinema al design). Il passaggio dalla teoria alla pratica di un lavoro che funzioni e che riesca a costituire un esperienza cinematica è un fatto per niente scontato.
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Almost Cinema si è svolto, come nelle precedenti edizioni, sotto forma di mostra ed programma di presentazioni. L’evento teorico/performatico ha avuto come serata di punta una presentazione a cura di Baltan Lab (il nuovo medialab finanziato dallo stato olandese e organizzato e fondato ad nell’ex laboratorio di ricerca della Philips ad Eindhoven dalla crew di Sonic Acts). Qui le live performances Lsp di Edwin van der Heide, Synchronator di Bas van Koolwijk e Gert Jan Prins e PV868 di TeZ, hanno seguito tre presentazioni pomeridiane da parte degli stessi artisti. Focus: la possibilità di operare nell’ambiente, dal vivo, usando tecnologie e softwares autoprodotti.
La parte espositiva si è sviluppata attraverso un percorso tra sette artisti, Hans Op de Beeck, Felix Hess, Aernoudt Jacobs, Bram Verven, Pablo Valbuena, Juliana Borinski, Kurt D’Haeseleer & Bérengère Bodin, Jean-Noel Montagné, i cui lavori sono stati installati nelle sale Art deco dell’edificio. Celebration di Hans Op De Beeck è il lavoro che ha certamente attratto la maggior parte degli spettatori. Belga di nascita e con una carriera internazionale alle spalle più che mainstream, costellata di mostre personali nelle principali istituzioni del Belgio (dov’è nato nato e vive), Op de Beeck ha una classica formazione da Fine Arts: Accademia a Bruxelles, ricerca alla Rijskacademie di Amsterdam, residency al MoMA.
Negli anni ha esposto i suoi lavori (oggetti, fotografie, video, installazioni) da Argos di Bruxelles al Mukha di Anversa, nelle fiere e nelle gallerie internazionali più à la page. Ed è proprio una di queste, la Galleria Continua di San Giminiano e Pechino che ha prodotto nel 2008 proprio Celebration: un tableau vivant proiettato nell’ambiente scuro del black box. Un sontuoso banchetto carico di cibi e decorazioni di ogni sorta attende immobile in mezzo al paesaggio arido di un deserto montagnoso. Osservando la proiezione ci accorgiamo che non si tratta di una still ma di una sequenza, il cui soggetto è fisso e immobile. Solo il suono e i movimenti minimi della tovaglia mossa dal vento e dei personaggi che popolano il quadro tradiscono che si tratta di un video. Camerieri, tavola imbandita, cuochi, aspettano in silenzio ed osservano la platea. L’attesa instaura una relazione con l’osservatore che prende quasi parte a questa situazione costruita dall’artista.
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Interattivo ma in forma completamente diversa il lavoro di Felix Hess, artista con tutt’altra storia rispetto al percorso di De Beeck. Hess è uno scienziato, nato negli anni Quaranta all’Aja e diventato sound artist dopo un dottorato in fisica nucleare. Un personaggio come solo in Olanda se ne possono essere (e penso qui a un altro gigante della ricerca tra arte, scienza e tecnologia, nato e vissuto a L’Aja di cui ci siamo occupati qualche numero fa, Dick Raaimakers – http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1396), di quelli la cui ricerca scientifica convertita in ricerca artistica ha certamente influito sulla nascita di istituzioni come spazi di ricerca e medialab in giro per tutto il paese.
Noto per le sue macchine del suono (Moving Sound Creatures e How light is changed into music sono i lavori più famosi in questo senso), Hess ha dopo un lungo corteggiamento da parte della curatrice, ha accettato di portare la sua installazione In the Air, del 1995. L’installazione è di una semplicità disarmante: decine e decine di bandierine di carta e legno sono fissate sul pavimento. La presenza ed il movimento degli osservatori fanno sì che queste si muovano e sembrino far fluttuare l’intero pavimento. L’interattività è qui primitiva e basilare: le onde prodotte dal movimento degli spettatori producono invisibili cambi di pressione che fanno muovere l’opera. I cambi di pressione sono “nell’aria” come dice il titolo del lavoro, e l’esperienza cinematica è qui cinetica nel senso storico del termine: dal cinetismo dei Mobiles di Calder in poi.
Altro lavoro che merita una diversione è l’installazione di Pablo Valbuena, architetto ed artista spagnolo che lavora sulla costruzione di spazi attraverso l’illusione percettiva. Al V2_ di Rotterdam lo hanno inquadrato nel progetto di ricerca sull’augmented reality. Valbuena lavora sulla percezione dello spettatore e sul suo coinvolgimento fisico all’interno di spazi che si generano attraverso l’uso di contenuti proiettati (o aggiunti dall’artista).
L’installazione pensata per Almost Cinema fa parte delle sue Extension series: la sua disarmante semplicità aggiunta al fatto che il lavoro funziona completamente e totalmente facendo vedere allo spettatore forme e tridimensionalità che non esistono, ne fanno uno dei lavori più riusciti di questa edizione del festival. Una sala buia è illuminata in un angolo dal fascio di luce bianca di un video proiettore. Il fascio di luce è in movimento: un gioco di ombre e luci che aggiungono o sottraggono luce a una semplice e sottile struttura angolare di polistirolo bianco, fanno intravedere delle strutture geometriche che esistono solo nel cervello dell’osservatore.
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Da ricordare anche i lavori di Jean Noel Montagné e Aernoudt Jacobs. Il primo, un’installazione fatta di specchi e luci (alla vecchia maniera dell’arte cinetica e programmata) che reagiscono al comportamento dello spettatore, Je te parlerai dans un reflet de lumière. Il secondo, Permafrost, un’installazione fatta di ghiaccio in scioglimento il cui rumore produce un soundscape minimale nel quale immergersi.