Quella del 2009 sarà sicuramente un’edizione di Ars Electronica da ricordare. Il festival, che si svolge a Linz la prima settimana di Settembre, ha celebrato infatti il suo trentesimo anno di vita. Inoltre molti riflettori erano puntati sulla cittadina austriaca per il fatto che Linz è stata designata come Capitale Europea della Cultura per il 2009, ed ha quindi vissuto un anno molto intenso, denso di inaugurazioni ed eventi culturali di ogni genere.

Per il direttore di Ars Electronica Gerfried Stocker, deve essere stata un’impresa decisamente ardua riuscire a programmare un evento che fosse stimolante sia per chi conosce la kermesse da tempo e non è digiuno di certe tematiche, sia per un pubblico più vasto ed eterogeneo che si avvicina con curiosità alla tecnologia.

Come ogni anno, il celebre festival dedicato all’arte alla tecnologia e alla società, ha avuto un tema portante relativo ad alcuni aspetti dell’epoca in cui viviamo. Il titolo Human Nature è stato ispirato da una definizione espressa dallo scienziato Paul Crutzen, il quale attribuisce il nome di “Antropocene” all’era attuale, descritta come una fase in cui la terra è entrata in una nuova era geologica caratterizzata da cambiamenti irreversibili, causati da azioni umane che hanno rotto i delicati equilibri del pianeta.

Tali cambiamenti non sono avvenuti solo nell’ambiente in qui viviamo, ma certe evoluzioni tecnologiche hanno reso possibile l’attuazione di modifiche anche all’interno del nostro corpo, mettendoci di fronte alla necessità di una ridefinizione della stessa natura umana. Questa doppia valenza delle nuove tecnologie, di porsi allo stesso tempo come creatrici e distruttrici di mondi, è stato il leitmotiv ad Ars Electronica 2009, su cui si è discusso nel corso degli innumerevoli simposi e tavole rotonde. E nella mostra, allestita presso la Brucknerhaus, sono stati presentati una serie di lavori concettualmente collegabili a queste tematiche.

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Fra questi Genpets di Adam Brandejs è un’installazione che consiste in una serie di confezioni , esposte come merci in un negozio, contenenti alcuni curiosi esserini che inizialmente possono sembrare delle action figures. Guardando però più attentamente, ogni tanto è possibile percepire un lieve movimento delle palpebre o una contrazione muscolare minima, che ci fa capire che non si tratta di semplici oggetti inanimati. Le creature riposano in una specie di ibernazione, aspettando di essere adottate; mentre alcuni led posti sulla confezione permettono di monitorarne costantemente le funzioni vitali. I Genpets sono animatronic con le sembianze di piccoli mammiferi creati in laboratorio.

Capire se essi siano vivi o meno è secondario, è interessante invece osservare le sensazioni che suscitano nei visitatori; la vita esposta come merce e disponibile sul mercato, è evidentemente qualcosa che può ripugnare quanto attrarre. Questo lavoro non si interroga tanto sugli effetti positivi o negativi della bioingegneria, quanto sulla nostra capacità di gestirla in modo responsabile.

Dello stesso artista, è stata inoltre esposta Animatronic Flesh Shoe; una scarpa composta da diversi pezzi di gomma cuciti insieme, trattati in modo tale da sembrare strati di pelle e carne umana. Su alcuni brandelli di tessuto sono ancora osservabili dei peli; oltre che lo “Swoosh”, il celebre logo della Nike. Di quando in quando la punta della scarpa e il suo tallone si sollevano o si abbassano, o la scarpa si contorce come se fosse viva, facendo sussultare l’ignaro spettatore. L’immagine inquietante sta a rappresentare alcuni aspetti del nostro sistema economico, un mondo di consumo facile e veloce, in cui non si riflette sulla provenienza delle merci e sulla modalità con la quale esse siano state prodotte, preferendo ignorare il fatto che questo sistema prevede lo sfruttamento di alcuni esseri umani a favore del benessere di altri.

Fra le altre visioni inquietanti di questa mostra, la serie di sculture Unknown Creature di Shen Shaomin, sembra uscita da un atlante di criptozoologia. I resti scheletrici di creature sconosciute sono presentati come in un museo di storia naturale. I “ritrovamenti” sono costituiti da vere ossa di animale assemblate assieme a creare una serie inedita di bestie immaginarie molto affascinanti. Le loro grandi dimensioni sembrano suggerire una provenienza preistorica, anche se qualcosa nel loro aspetto richiama forme animali conosciute. I resti sembrano comunque appartenere a misteriose creature estinte, che abbiano avuto un qualche processo evolutivo sviluppatosi in modo distorto. L’opera fluttua tra la rappresentazione di una mitologia personale e la visione (previsione?) dei pericoli che può comportare un utilizzo sconsiderato della manipolazione genetica e in generale di tutte le strategie atte a modificare gli equilibri naturali.

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Nella medesima mostra, Human Nature, ha destato particolare curiosità la performance Shrink di Lawrence Malstaf nella quale tre performer, compreso l’ artista stesso, si infilano all’interno di grandi buste di plastica trasparente sospese a delle cornici. Tutta l’aria contenuta fra i due fogli di plastica viene aspirata, mentre i tre si trovano in una condizione di sospensione e di progressiva compressione, potendo continuare a respirare grazie a dei tubi che portano loro una minima quantità d’ossigeno. La visione è forte, ricorda in qualche modo l’immagine di merce (carne) impacchettata, ma è sicuramente più ieratica. Malstaf ha dichiarato di aver lavorato sul contrasto fra esterno ed interno, sui sentimenti opposti richiamati dalle due opposte condizioni di attore e di spettatore: ciò che per il secondo può sembrare claustrofobico e scomodo, per il primo diventa rasserenante e accogliente, proprio come un grande grembo materno.

Entriamo ora nel vivo del festival, parlando della mostra presso l’O.K. Centrum, il museo d’arte contemporanea di Linz; allestito con tanto di ruota panoramica posizionata sul tetto, fruibile dai temerari, e varie passerelle di legno che permettevano una visione mozzafiato di Linz. Come ogni anno presso l’O.K. sono state esposte le opere che hanno partecipato al Prix Ars ELectronica.

Tra i vincitori proprio Lawrence Malstaf, autore anche della sopracitata performance Shrink, che ha ricevuto il Golden Nika nella categoria “Interactive Art” con l’opera Nemo Observatorium. L’installazione consiste in un cilindro trasparente di grandi dimensioni, con una poltrona situata al centro sulla quale il visitatore viene invitato ad accomodarsi. Da questa postazione egli può, pigiando un bottone, azionare cinque potenti ventilatori che mettono in circolo migliaia di piccole palline di polistirolo, creando così attorno a sé una sorta di ciclone. Sia che lo spettatore si concentri sulle particelle che girano tutto intorno, sia che egli cerchi di scrutare oltre il flusso in movimento, pare che trovarsi in mezzo a questa catastrofe ambientale in scala ridotta abbia un effetto calmante sui sensi. Stare nell’occhio del ciclone è uno spettacolo che immobilizza e ipnotizza al tempo stesso.

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Nella categoria “Digital Musics”, ha vinto il Golden Nika Speeds of time di Bill Fontana. Il progetto è un’installazione site specific, e consiste in un ciclo di dodici ore di eventi sonori che riproduce il suono del Big Ben registrato da decine di microfoni posizionati a diverse distanze dal grande orologio. Fontana ha installato due microfoni all’interno delle campane del Big Ben, e un sensore sonoro sui meccanismi dell’orologio della torre; dando così vita a una composizione formata dalla registrazione delle funzioni meccaniche dell’orologio, e da una gamma di tonalità provenienti dalle campane.

Una serie di microfoni sono stati inoltre posizionati, a partire dalla torre, sui circostanti tetti e terrazze; e questi registrano, oltre che i rintocchi orari delle campane, anche i riverberi acustici e i suoni urbani che si verificano nella zona. La distanza fra tutte le location nelle quali si trovano i microfoni, in rapporto alla velocità di propagazione del suono, fa sì che si verifichino una serie di ritardi acustici naturali che creano un’immagine sonora multidimensionale del Big Ben. Speeds of Time è una scultura sonora che richiama l’attenzione sugli aspetti immateriali della composizione. L’opera può essere ascoltata sotto forma di registrazione all’interno di contesti espositivi o in streaming da web.

L’opera vincitrice nella categoria “Hybrid Art”, è invece Natural History of the Enigma di Eduardo Kac; un progetto che cerca di far dialogare biotecnologia e ricerca estetica, in un’epoca caratterizzata da un intrusione sempre maggiore della scienza nella vita quotidiana. L’artista, in una ricerca durata anni in collaborazione con diversi scienziati, è riuscito ad estrarre un gene dal suo DNA e a sostituirlo col gene corrispondente del DNA di una petunia, così da realizzare un ibrido di sé stesso e di una petunia appunto, attraverso la manipolazione genetica del fiore originale. La nuova forma di vita, risultato di questo trapianto di gene, è stata chiamata Edunia, un fiore caratterizzato da venature rosse su petali rosa chiaro. Lo scopo di questa operazione di ingegneria genetica vuole essere quello di farci riflettere sul fatto che esistono già metodologie in grado di “rimescolare” forme di vita diverse, e che questi metodi determinano la nascita di nuove questioni sull’identità di genere.

Fra gli altri progetti presenti in mostra, EarthStar di David Hines e Joyce Hinterding, ha ottenuto un Award of Distinction nella categoria “Hybrid Art”. L’installazione offre al visitatore la possibilità di apprezzare alcuni fenomeni riguardanti il sole, non altrimenti fruibili in un comune contesto di quotidianità. Con EarthStar si ha la possibilità di osservare, di ascoltare e di odorare il corpo celeste che domina il nostro sistema solare. L’allestimento consiste in una proiezione che mostra le meravigliose immagini della cromosfera del sole, riprese da un telescopio solare H-Alpha; allo stesso tempo un’antenna VLF raccoglie i dati relativi alla radiazione della stella, che vengono poi convertiti in suoni percepibili all’orecchio. Come ultimo livello di rappresentazione, lo spazio espositivo che ospita l’opera è circonfuso di un profumo particolare, dato dalla mescolanza di due diversi aromi sintetici, che dovrebbero ricordare olfattivamente alcuni dei componenti chimici presenti nel sole.

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Ritornando ora agli altri appuntamenti del festival, un certa curiosità ha suscitato il nuovo Ars Electronica Center, il museo dedicato alle nuove tecnologie, che a Gennaio di quest’anno ha riaperto dopo una lunga ristrutturazione ad opera degli architetti Andreas Treusch e Nadja Sailer. Oltre ad un ampliamento della struttura già esistente, il museo è stato reso ancora più altamente tecnologico rispetto alla sua precedente versione, tanto da essere descritto da Gerfried Stocker come: “Un modello di museo del futuro“.

Nelle intenzioni ci sarebbe di non proporsi come mero spazio espositivo, bensì come una struttura strettamente connessa a un’attività di ricerca sperimentale, in grado di sondare le contaminazioni fra arte e scienza, prendendo in considerazione anche le tecnologie applicate alla biologia e alla medicina. Il museo presenta una facciata di oltre cinquemila metri quadrati di rivestimenti in vetro, che di notte si illuminano grazie a 40.000 led (a consumo energetico ridotto). Durante Ars Electronica la facciata è stata ‘animata’ da alcuni artisti che hanno mostrato i loro visual sull’enorme superficie, e dal pubblico che in determinati momenti poteva tramite sms inviare messaggi che venivano visualizzati a caratteri cubitali.

Fra le opere allestite presso AEC, c’erano i progetti più disparati: “giocattoloni” interattivi per grandi e piccini, macchine celibi con meccanismi poetici, robot e automi di vario tipo per gli utilizzi più disparati, sfarzo di arti meccanici e protesi varie, visualizzazioni dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente lontano. E oltre a questo due laboratori, un Bio Lab e un Fab Lab, ipertecnologici dove cimentarsi per ore e ore in attività da geek.

Citando qualche progetto, l’installazione Absolut Quartet di Jeff Lieberman e Dan Paluska, è un quartetto musicale che prevede un ensemble di tre robot più un essere umano. Tramite un computer presente nella sala espositiva, ma anche via Internet, il fruitore può comporre un motivo semplice che servirà da struttura base della composizione suonata dal gruppo. Tale motivo sarà esteso in una composizione di tre minuti, suonata da un dispositivo piuttosto complesso che consta di tre elementi: un set di 35 calici da vino che vengono suonati da dita robotiche, un marimba “balistico” (il marimba, strumento musicale a percussione simile allo xilofono, è qui suonato da 42 cannoni che sparano una serie di palline di gomma a circa sei metri di distanza, facendole atterrare su 42 tavolette in legno) , e uno strumento a percussione suonato elettronicamente che completa la formazione musicale.

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Forse meno complesse tecnicamente, ma sicuramente poetiche ed evocative come giocattoli senza tempo, le sculture cinetiche di Arthur Ganson, come per esempio Machine with Eggshells. Il dispositivo consiste in una serie di meccanismi, in fil di ferro, che possono essere azionati tramite una manovella, dando così il via a delicate collisioni fra cinque coppie di gusci d’uovo. L’installazione ricorda una sorta di carillon visionario ed è nata dall’impulso dell’artista ad interpretare le potenzialità sonore del guscio d’uovo. L’opera può rappresentare una riflessione ironica sulla complessità dei rapporti fra gli oggetti, come essere una misteriosa macchina, che invia un messaggio in codice a ignoti.

Di tutt’altro respiro il progetto Geminoid HI 1 di Hiroshi Ishiguro, un robot in tutto simile al suo creatore, che si muove e parla come lui. Il robot può essere comandato a distanza tramite un sistema di motion-capture, che riprende la postura di Ishiguro e la fa assumere al robot, e con un microfono che ne riproduce la voce. Lo scopo dell’inventore era quello di creare un ‘doppio’ di sé stesso, che potesse sostituire la sua presenza fisica in svariate occasioni, poiché era stanco di fare il pendolare. Ishiguro inoltre afferma di essere interessato a come le persone percepiscano la sua presenza attraverso Geminoid, e ai comportamenti indotti da tale telepresenza; in questo progetto egli combina ingegneria e scienze cognitive, poiché vede nelle macchine uno strumento per poter imparare di più sulla natura umana.

Sulle rive opposte del Danubio, in posizione quasi speculare rispetto all’ Ars Electronica Center, si trova il Lentos Museum: il museo dedicato all’arte moderna e contemporanea, che di notte crea quasi un doppio dell’immagine dell’AEC, essendo anch’esso una struttura luminescente in grado di variare la propria tonalità cromatica. Il Lentos Museum ospita la mostra See this sound curata da Cosima Rainer, ed aperta al pubblico fino a gennaio 2010, che in otto sezioni cerca di mappare una serie di punti di riferimento nella ricerca artistica che indaga il rapporto fra suono e immagine, secondo prospettive e approcci diversi.

Oggi è cosa comune fruire di prodotti culturali composti da più livelli, che prevedono la commistione di materiale audio e materiale video; ma in passato la cosa era meno banale, e in certi ambiti c’era una netta predominanza di lavori solo visivi. All’interno di contesti espositivi prevale ancora oggi la funzione contemplativa, ma il suono ha sicuramente guadagnato terreno.

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See this Sound documenta questo sviluppo, appunto dalla prospettiva delle arti visive. Fra le opere in mostra Random Access di Nam June Paik, è un’installazione del 1963. Essa prevede una serie di nastri magnetici audio registrati, e incollati al muro in una composizione visiva astratta, che lo spettatore ha la possibilità di ‘suonare’, facendoci passare sopra una testina da registratore messa a disposizione dall’artista, dando così vita ad inedite e uniche composizioni personali.

Tramite il dispositivo The Handphone Table creato nel 1978 da Laurie Anderson, è possibile invece esperire un fenomeno particolare: quello della conduzione sonora ossea. Il visitatore è invitato ad appoggiare i gomiti su due punti precisi di un tavolo di legno, e allo stesso tempo a tapparsi le orecchie con le mani. In questa posizione gli sarà possibile percepire i suoni e le voci che partendo dal tavolo, implementato con alcuni conduttori di suono, giungeranno alle sue orecchie tramite le ossa delle braccia.

Optofonica Capsule del 2007, curata dall’artista Italiano TeZ (Maurizio Martinucci), è un dispositivo che permette una fruizione sinestetica di prodotti audiovisivi all’interno di un ambiente immersivo. L’oggetto consiste in una capsula a forma di bolla, che avvolge la metà superiore del corpo del visitatore isolandolo dall’esterno. L’utente, dall’interno, può selezionare tramite un touch screen un brano a scelta fra una serie di composizioni audiovisive di vari artisti che lavorano su supporti multimediali. I pannelli che compongono il ‘guscio’ sono progettati in un materiale particolare, tale da riprodurre i suoni senza l’uso di altoparlanti tradizionali. Una pedana posta sotto i piedi del fruitore, vibrando trasmette le basse frequenze direttamente nel sistema osseo del corpo umano. E infine lo schermo, posto a distanza ravvicinata, e che copre quasi totalmente il campo visivo, immerge lo spettatore nella visione. Tutti questi elementi concorrono assieme a creare una nuova dimensione sensoriale per la fruizione di arte audiovisiva, ed espandono così le possibilità di creazione da parte degli artisti.

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Come di consueto, anche quest’anno presso la Kunstuniversität di Linz, sono stati esposti i progetti di studenti provenienti da scuole di media art e istituti per le nuove tecnologie, sparsi nel mondo. Nello specifico, la mostra IMPETUS, curata da Hiroshi Ishii & Amanda Parkes, ha presentato i lavori di studenti del MIT Media Lab di Cambridge (MA), laboratorio interdisciplinare che si interessa in particolare all’impatto delle nuove tecnologie sulla vita quotidiana.

Chameleon Guitar di Amit Zoran, Marco Coppiardi, e Pattie Maes è una chitarra che combina i vantaggi dell’utilizzo di un materiale naturale come il legno, che dà agli strumenti tradizionali acustici dei particolari suoni caldi, alla potenza della moderna elaborazione elettronica che permette di controllare e modificare le caratteristiche del suono di uno strumento. Chameleon Guitar, così chiamata per la sua capacità di imitare diversi strumenti – è una chitarra elettrica il cui corpo ha una sezione centrale rimovibile. Questa sezione può essere sostituita a seconda del tipo di legno, o altro materiale, che si intende utilizzare per il proprio strumento. E anche il suono può essere manipolato in modo da produrre l’effetto di una diversa dimensione o forma della cassa di risonanza.

Siftables di David Merrill e Jeevan Kalanithi, è invece un progetto il cui obiettivo è creare un supporto hardware che consenta alle persone di interagire in modo ludico e spontaneo con alcune informazioni, in un contesto quotidiano. I Siftables sono dispositivi indipendenti dotati di sensori, display grafico, e capacità di comunicazione wireless; e si presentano come delle tesserine quadrate di dimensioni ridotte. Il progetto applica la tecnologia dei sensori wireless a delle interfacce fisiche, tangibili, che possono essere utilizzate in modo intuitivo semplicemente accostandone una all’altra.

Fra gli altri eventi del festival, ho apprezzato in maniera particolare la performance eseguita con uno dei primi sintetizzatori mai creati, progettato da Robert Moog per Max Brand. Robert Moog iniziò a progettare circuiti elettronici per il compositore austriaco nel 1957, il sintetizzatore però fu completato circa un decennio più tardi. Lo strumento, impressionante, costituito da diverse tastiere, una serie di pedali, e tavole piene zeppe di manopole e cavi, è stato esposto durante il festival come oggetto d’arte presso la Brucknerhaus , fino alla grande notte dei concerti di Ars Eletronica. Quella notte, all’interno della rassegna musicale dal titolo Pursuit of the Unheard, è stato trasferito in un’altra sala, ed è stato possibile ascoltare i suoni che tale strumento complesso produce.

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La composizione di Elisabeth Schimana (che si riconferma sempre come una garanzia di spessore), eseguita da Manon Liu Winter e Gregor Ladenhauf, è stata composta appositamente per questo tipo di sintetizzatore. E si è rivelata un’esperienza unica. Il primo movimento è stato un’esplosione: muri di suono potentissimo e un ritmo ossessivo e ripetitivo, seguito da altre sezioni più tranquille, ma che hanno sicuramente contribuito nell’insieme a completare un’esecuzione sconvolgente, da ricordare.

Ci sono, come dicevo all’inizio dell’articolo, edizioni del Festival più o meno interessanti, ma in ogni caso, ogni volta, a mio dire, quando si ritorna a casa si ha comunque la sensazione di aver vissuto un’esperienza. Anche per quest’anno si è dunque conclusa Ars Electronica, probabilmente con gran sollievo degli organizzatori che devono aver temuto quest’edizione così impegnativa, la trentesima edizione del festival, nell’anno in cui Linz, incoronata Capitale Europea della Cultura, cerca forse di riscattarsi da un passato scomodo, che l’ha vista culla di un bambino che sarebbe stato un giorno chiamato Führer.


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