Per la sua quarta edizione, la Biennale di Video di Mechelen (Belgio) Contour ha aperto le porte a un curatore ed artisti di fama internazionale.
La Biennale si è inaugurata il 15 agosto scorso con il titolo Hidden In Remembrance Is The Silent Memory Of Our Future: un concept complicato, che punta far emergere nell’immaginario collettivo la storia ed il presente, il passato come elemento chiave per capire il futuro.
La curatrice, Katerina Gregos, che stata fino al 2007 a capo delle attività espositive di Argos a Bruxelles, è riuscita nell’intento di dare una risonanza internazionale ad un evento che fino alla scorsa edizione si presentava come prettamente locale, orientato a dare spazio a progetti genericamente video e prettamente collegati alla ricerca di nuove generazioni dell’area belga/fiamminga.
La Gregos invece, che pur se con base a Bruxelles ha origini greche ed opera da anni nell’orbita delle arti visive internazionali (pur se con un occhio politico e critico che l’aveva portata a realizzare, ben prima del fallimento della Manifesta di Cipro del 2006, Leaps of Faith, un complesso progetto espositivo proprio nella Nicosia spaccata a metà tra Turchia e Grecia), ha avuto il merito di riuscire ad inserire nel contesto globale una kermesse che ha profonde radici localistiche.
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A metà strada tra Bruxelles ed Anversa, Mechelen (o Malines secondo al dicitura francofona) è una città di provincia delle Fiandre settentrionali. Ricca, prospera, borghese, benestante, calma e silenziosa: queste forse le caratteristiche principali di un centro abitato che conta meno di cento mila abitanti ed è intento a costruire intorno a sé un’aura culturale che lo faccia uscire dal torpore e dia un segnale di contemporaneità. In Belgio in fondo (o meglio ancora, nelle piccole Fiandre, l’area settentrionale in cui si parla olandese di questo piccolo paese spaccato in due), già almeno due città sono riuscite a costruire intorno a sé una credibilità che vada oltre la bellezza della piazza centrale, dei canali, degli edifici tipici dell’epoca d’oro fiamminga.
Basti pensare ad Anversa, diventata la capitale europea del fashion, che ospita il Mukha, Extracity ed una operosa Casa della fotografia. Gent (o Gand) poi, che grazie al Vooruit lavora su cinema e nuovi media (va ricordata la rassegna, di cui avevo parlato nel numero 39 di Digimag dello scorso Novembre 2008, Almost Cinema).
Se quest’area d’Europa inizia a spartire con l’Olanda un interesse per la cultura digitali at large, l’amministrazione di Mechelen sembra essersi fatta i suoi calcoli, un po’ come è successo negli ultimi due decenni a molte città del pianeta spesso misconosciute: basta fare una Biennale et voilà, come per magia la città esiste sulle carte geografiche e diventa meta di turismo culturale. Non è un caso, per concludere questa deriva sulle politiche culturali, che la caratteristica della kermesse sia quella di ospitare i video in diversi edifici storici disseminati nella città. Lo sottolinea lo stesso comunicato stampa di Contour: «Mechelen ospita un’iniziativa unica per coloro che sono interessati nel contemporaneo e nello stesso tempo alla storia architettonica».
Ed è così che un languido ed incredibilmente assolato sabato pomeriggio di tarda estate nordica si è trasformata in una piacevole passeggiata tra edifici rinascimentali e tardo gotici, strade di ciottoli, lungocanali arredati con tavolini e terrazze, visite a chiese sconsacrate, ex ospedali, ex manifatture, l’edificio comunale.
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Il titolo di questa quarta edizione di Contour 2009 allude, come si diceva, alla storia: «la prova, sostiene la sua importanza e indaga questioni di rappresentazione storica e storiografia». Non è un caso che si parla dei processi storici globali nel 2009: a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, gli artisti sembrano pronti a ridiscutere la cronaca recente, a riscriverla con occhi diversi, mettendo fuoco avvenimenti e storie che nel presente conflittuale che stiamo vivendo assumono il valore di sintomi, elementi premonitori, metafore, simboli.
L’intento riesce a farsi strada coerentemente all’interno delle scelte curatoriali operate dalla Gregos. Se qualcosa salta agli occhi dopo averi visitato Contour 2009 (oltre alle evidenti questioni di politica culturale ed autoaffermazione della città), è un senso profondo di pesantezza, spaesamento, cinismo lucido nel riflettere sui percorsi storici che ci hanno condotto a un oggi in crisi.
Il video di Herman Asselberghs Black Box, commissionato appositamente dalla Biennale (così come altri lavori presenti tra cui quello vippissimo di Eija-Liisa Ahtila), è forse uno dei lavori più riusciti, pur nella sua apparentemente semplicità installativa e la sua breve durata. Il video dichiara che l’inizio del nostro presente, del millennio nel quale viviamo, non è segnato dall’inizio del 2000 nel calendario, ma dalle manifestazioni internazionali contro la seconda guerra in Iraq, del 15 febbraio 2003. Il mondo che va alla deriva come lo conosciamo oggi, inizia con le proteste contro la decisione del governo di Washington di attaccare Baghdad. Prima ancora delle immagini di morte e quelle dei giornalisti embedded, l’artista/videomaker e critico cinematografico nato a Mechelen ma di base a Bruxelles, ci fa vedere l’inizio del XXI secolo attraverso le immagini delle manifestazioni girate da mani diverse in tutto il mondo e caricate su You Tube. Quello che abbiamo davanti sono i riflessi di quei momenti: le immagini sono sfocate, virate in grigio e nero, rese astratte. Quelli che si muovono davanti a noi sembrano fantasmi. La narrazione è portata avanti da una voce che bisbiglia (e poi dichiara sempre più ad alta voce) che è solo a partire dal presente che siamo in grado di dare un valore agli avvenimenti del passato. Il video è anche uno dei pochi lavori presentati che cercano di rimediare e riflettere lo stesso mezzo del video ed il suo uso nell’ambito di una mostra. Questo già a partire dal titolo.
Uno dei limiti fondamentali della messa in mostra dei video nel contesto dell’Arte Contemporanea, è infatti spesso quello di non tenere in conto i fattori temporali del video e quelli ambientali. Mentre sarebbe forse meglio mettere in mostra i video non all’interno di sale espositive ma in una sala cinematografica, con audio appropriato e poltrone, per predisporre il pubblico a seguire l’evoluzione narrativa (oggettiva od astratta che sia) del video, nel contesto dell’arte contemporanea si continuano ad esibire i video nei black box, dove lo spettatore medio passa qualche decina di secondi per poi andarsene. Black Box gioca anche sullo spazio in cui è proiettato. I toni bassi ed il bianco e nero rendono il video quasi invisibile, lasciando lo spettatore al buio e spaesato nella sala nera in cui è proiettato. La voce che sussurra sempre la stessa frase ti mette in uno stato di allerta e di tensione; le immagini in grigio e nero rese astratte alzano tensione e curiosità verso qualcosa che sembra in procinto di succedere. E’ proprio a questo punto che lo spettatore capisce il senso del video ed è proprio allora che questo ricomincia da capo, in un loop senza soluzione di continuità.
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L’attesissimo video di Eija-Liisa Ahtila Where is where? sembra invece la riproposizione di un’estetica già adottata dall’artista finlandese in tutti i suoi lavori precedenti: una proiezione multicanale su cinque enormi schermi installati nel black box. La narrazione è così dissociata in cinque punti di vista diversi ma simultanei. La storia narrata è la riproposizione di un avvenimento di sangue che ha avuto luogo in Algeria negli anni Cinquanta. Una storia che ha avuto luogo nell’Algeria allora occupata dalla Francia e che riporta furbamente alla mente un vago passato coloniale; il confronto e conflitto tra mondo musulmano e quello occidentale; scene di guerra, di violenza e di fuga che sembrano quelle generiche che le tv mondiali portano sullo schermo di casa ogni giorno; la prospettiva personale dell’artista ed i suoi sogni ad occhi aperti. 57 minuti di video impossibili da sostenere: un pamphlet post-moderno perfettamente girato, sonorizzato, installato, orchestrato che gioca con l’immaginario comune del musulmano che è forse buono e forse cattivo, la mala coscienza dell’Occidente, la morte, la paura, il conflitto. Manca uno statemente, un punto di vista, una partecipazione epica: tutto è troppo bello, perfetto, politicamente corretto e lungo perché possa veramente catturare.
Da ricordare infine (ma il lavori presentati alla Biennale sono ben 18 realizzati da 12 diversi artisti), la partecipazione del collettivo russo Chto Delat, il cui lavoro consiste in due video ed un giornale autoprodotto e distribuito al pubblico. Perestroika Songspiel: The victory over the Coup e Chronicles of Perestroika, entrambi del 2008, sono due video che vanno fruiti in sequenza. Il primo è la narrazione della costruzione della “democrazia” in Russia dopo la messa a fine del tentativo di colpo di stato restauratore del 1991; il secondo è un assemblaggio di video sulle proteste per le strade di San Pietroburgo tra il 1987 ed il 1991. Entrambi insieme narrano di fatto la fine definitiva dell’Unione sovietica e del mondo bipolare post Guerra fredda. Mentre il secondo consiste nell’editing di materiale documentario, il primo è pura fiction ed è realizzato come una tragedia greca, nella quale uno coriforo narra gli avvenimenti accompagnato da un coro che canta o commenta la cronaca di quei giorni, mixando la tradizione canora russa con battute e giochi di parole sull’instaurazione di una democrazia basata sul commercio, le multinazionali ed il capitalismo. Il progetto di Chto Delat è stato censurato nella Russia post sovietica.