Un fotografo cineasta, Raymond Depardon, a cavallo tra documentario e fiction, vincitore del premio Pulitzer e autore di numerosi reportage in paesi come Biafra, Ciad, Venezuela, conosciuto anche per aver trascorso un periodo nel 1976 presso l’ex ospedale psichiatrico di San Servolo, a Venezia, gira nel 1996 una sorta di docu-fiction su un viaggio in Africa durato tre anni e sul mestiere stesso di film-maker. William Kentridge: nativo del Sud Africa, un artista la cui matrice espressiva è il disegno ma che spazia dalla scultura all’animazione all’installazione video, da sempre si interroga sulla dimensione sociale dell’arte e sulla responsabilità dell’artista.

Questo breve articolo non tenta una comparazione tra due artisti i cui linguaggi espressivi sono diversi, le cui biografie non si incontrano se non per il fatto di avere in comune Lei: l’Africa.

Quel che segue è un raffronto critico, un’esplorazione di due sguardi, quello di Depardon e quello di Kentridge, due artisti accostati non tanto perché ritraggono il vasto continente Africano, ma perché l’estetica del loro sguardo è simile. Il mio incontro con essi – la mostra di Kentridge a Venezia e la visione del film di Depardon Afriques: comment ça va avec la douleur? / Africa: How about pain? (1996) – è avvenuto nell’arco temporale di poche settimane.

Innanzitutto, tra fine novembre 2008 a metà gennaio 2009 il Teatro La Fenice e la Fondazione Bevilaqua La Masa a Venezia hanno ospitato la mostra personale di William Kentridge intitolata “(Repeat) from the beginning/Da Capo”, una raccolta di opere realizzate esclusivamente per questa occasione, tra disegni, sculture, installazioni video. Poi, la visione del film di Depardon, di cui già conoscevo la ricca filmografia di cui vale la pena ricordare titoli come Ian Pallach (1970), Reporters (1980), Dix minutes de silence pour John Lennon , San Clemente (1980), Délits Flagrants (1994) e Un homme sans l’occident (2002).

Img: courtesy Raymond Depardon

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L’orizzonte, il cielo blu e arancio, la camera ruota, restando ancorata al suo punto d’appoggio, come se l’occhio che la incarna fosse al centro di questo mondo, a supporto di una visione tolemaica dell’esistenza, di una consapevolezza della solitudine e del potere di cui cameraman fa esperienza. Il regista sembra poter sostenere una visione panottica, capace di comprendere l’universo intero nel suo sguardo. Eppure, in Depardon non vi è alcuna retorica dell’immagine. Sin dall’inizio, la voce del regista spiega ciò che il film non è. Schermo nero, la “voice off” di Raymond Depardon che traccia una mappa precisa, una mappa di cui vengono date allo spettatore le coordinate spazio-temporali:

“Buon giorno, mi trovo a Capo di Buona Speranza, all’estremità del continente africano, solo, con la mia macchina da presa e il mio treppiede (…) Approfitto della luce (…) Ecco, qui comincio il mio viaggio ( voyage ) (…) Non un reportage giornalistico (…) Nessun errore di percezione o prospettiva (…) Preferisco improvvisare”

L’incipit di Afriques contiene la poetica e l’estetica di Raymond Depardon: improvvisazione, cinema come cartografia dello sguardo, cinema come esperimento con la luce, cinema come improvvisazione il più possibile libera da qualsivoglia schema prospettico e percettivo. Se sul palcoscenico africano troviamo per il momento soltanto una voce proiettata sullo schermo buio, il teatro allestito da Kentridge è formato da un’orchestra improvvisata, quasi una jam session i cui elementi – la cantante d’opera, il direttore d’orchestra, la ballerina – sfuggono al controllo di Kentridge per guadagnare, a turno, un assolo sul palco.

Improvvisazione non è caos, non è filmare ogni cosa si presenti davanti senza discernimento, non è lasciare che la materia artistica, ancora indisciplinata, assuma una forma qualsiasi, tutt’altro: per Depardon e Kentridge improvvisare significa fidarsi del proprio istinto e porsi in ascolto, in silenzio, lasciare cioè che il mondo ci venga incontro e inizi a parlarci. Così accade per i personaggi-marionette che popolano l’universo scultoreo di Kentridge e per i paesaggi e i volti dell’Africa che formano le immagini di Depardon.

“Comment ça va avec la douleur?” (Come va con il dolore?): come Depardon ci ricorda, questa è la formula che i francofoni Africani usano a mo’ di saluto, come il nostro “salve”, per rassicurarsi che si sta bene. Questa è tuttavia forse anche la domanda che Depardon rivolge non ai singoli Africani, non a persone specifiche, ma a un continente personificato, Africa. La risposta è uno sguardo, reciproco, sostenuto con dignità e rispetto reciproci, tra l’occhio dell’Africa e quello di Depardon.

Img: courtesy Raymond Depardon

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Centrale nel film è l’estetica del movimento di macchina. All’inizio, per esempio, lo schermo nero viene interrotto da un paesaggio con le sfumature del rosso e dell’arancio, che passano poi al blu metallico e al grigio; l’inquadratura è un campo lungo, la cinepresa, mobile su un treppiede, filma il paesaggio compiendo un movimento circolare, una lenta panoramica a 360° in cui l’inizio diventa la fine. Questo movimento di macchina viene usato ripetutamente nel film, spesso per filmare il paesaggio, protagonista insieme agli esseri umani, sempre accompagnato dalla voice-off di Depardon.

La sua voce, registrata in un momento successivo alle riprese, ma senza ritocchi, racconta come se scrivesse un diario. Questa voce insieme al movimento di macchina della panoramica mostrano un modo personale, intimo, mai invadente, di filmare. Non ci sono immagini che costituiscono la prova visibile di quel che Depardon racconta. Vi è solo una gradazione di colore e un movimento circolare, spesso senza profondità prospettica. Un movimento meccanico, continuato, asettico, impersonale e, proprio per questo, efficace nell’accompagnarsi alla voce incarnata del regista.

Ecco alcuni dei fotogrammi che compongono la panoramica girata in Somalia, a Mogadiscio. L’Oceano Indiano, i battelli nell’acqua. Depardon è accompagnato da tre guardie del corpo. La green line che separa il sud e il nord di Mogadiscio.

Il movimento è quasi sempre da destra verso sinistra. Le panoramiche sono pause che lo spettatore compie insieme al regista, pause di riflessione nel corso del viaggio, pause musicali. Se si tratta di brevi “viaggi” all’interno del lungo viaggio che ha compiuto Depardon attraverso l’Africa, si tratta di viaggi non necessariamente lineari, progressivi, ma piuttosto circolari. Il movimento circolare della macchina da presa diviene metafora del viaggio stesso, del viaggiatore: davanti ai suoi occhi entrano nella cornice fotografica del paesaggio “scansionato” dall’occhio meccanico particolari inediti, sfumature di colori che indicano il passare del tempo, volti. Poi, di nuovo al punto di partenza, pronti per un nuovo percorso dello sguardo.

Lo stesso movimento circolare si trova nelle sculture di William Kentridge, concepite più per essere filmate che come oggetti tri-dimensionali (vedi William Kentridge, Angela Vettese, Francesca Pasini e Jane Tailor, William Kentridge. Catalogo Mostra, Edizioni Charta, Milano: 2008). Incontrate nello spazio, queste sculture richiedono allo spettatore di compiere un movimento circolare attorno ad esse, per essere in grado di afferrarne i molteplici punti di vista. Queste sculture tridimensionali, composte da brandelli di carta straccia nera, tenuti assieme da fili metallici, nastri adesivi e riposti su un piedistallo girevole, risultano astratte, prive di una forma intelligibile e definita. In un attimo, grazie al movimento della piattaforma o grazie al movimento dello spettatore intorno a esse, questa miriade di frammenti si ricompone in figure compiute, in elementi scenici dalle forme riconoscibili: il cantante, il direttore d’orchestra (lo stesso Kentridge che prende in giro se stesso). Quando sono filmate e quindi visibili come installazioni video, queste sculture accompagnati dal suono dell’orchestra che intona gli strumenti. I frammenti scultorei tri-dimensionali diventano un insieme coerente, superfici bi-dimensionali la cui forma e contorni sono per un attimo chiaramente visibile.

Img: courtesy WIlliam Kentridge

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Il percorso circolare che ciascuna scultura compie per divenire forma compiuta ci permette di osservare e comprendere, di passare dal caos all’ordine, dall’entropia all’organizzazione. Ma questo sguardo, come questo movimento, è fragile, dura solo un istante, è già concluso prima che possiamo afferrarlo del tutto. In Depardon il movimento circolare e costante della macchina da presa non consente una inquadratura definitiva, ultima, ma un flusso costante di impressioni che non cattura e ferma la realtà nel fotogramma perfetto. Lo stesso vale per le sculture di Kentridge.

Il movimento circolare in Depardon è compiuto dalla camera e dall’occhio dello spettatore, mentre in Kentridge è spesso compiuto da tutto il corpo dello spettatore. In entrambi i casi, tuttavia, non vi è una immagine fissa, delimitata da una cornice (frame) precisa, l’istantanea che rivela e spiega. L’immagine è inafferrabile così come la realtà che essa presenta (non rappresenta ). La panoramica a 360° di Depardon e il movimento circolare dello spettatore o delle sculture stesse mostrano la connessione tra le cose, la prossimità di ogni cosa in contrasto con la arroganza dell’atto fotografico (e dell’occhio stesso) che cerca di “inquadrare” cose e sensazioni creando l’illusione di profondità e superficie, di ciò che sta in primo piano e ciò che sta sullo sfondo, di una separazione tra le cose. Al contrario, il colore rosso arancio del cielo di Depardon non è lontano ma contiguo al blu della notte. Il caos dei pezzetti di carta straccia di Kentridge è contiguo all’ordine dei personaggi ricomposti a formare un’orchestra.

Ma torniamo un attimo a Depardon: siamo nell’Angola. Il privilegio qui è riuscire a diventare adulti, racconta la voce del regista. Le immagini non ci mostrano alcuna violenza, ma soltanto bambini che cercano di prendere quel poco d’acqua che sgocciola da un camion. A volte i loro sguardi incontrano la telecamera, ma non si fermano, continuano la loro lotta per la sopravvivenza. Questa scena rientra nella quotidianità, non nell’eccezione. Depardon non è interessato alla rappresentazione visiva dell’orrore, dell’evento fuori dall’ordinario. Ad Addis Abeba, Depardon dice “lo sguardo è il talismano e farmaco” e ancora: “l’immagine mi viene incontro, mi accoglie affettuosamente e mi abbraccia e io le vado incontro”. Ciò accade ed è possibile proprio perché vi è la distanza necessaria a far sì che l’immagine si metta in movimento, entri nel mio campo visuale e mi sfiori per poi ritirarsi di nuovo: l’etica dello sguardo, di chi guarda e di chi è guardato, come la moltitudine di uomini nei campi profughi in Rwanda and Burundi che restituiscono lo sguardo del regista e il nostro. È un invito a ripensare il nostro approccio all’Africa, soprattutto a guardarla in modo diverso.

Qual è la distanza necessaria per fotografare un soggetto? Quando la distanza diventa baratro incolmabile? In un’intervista, Depardon ricorda come la video camera spinga inevitabilmente a filmare quanto più possibile, per poi decidere cosa tenere e cosa scartare in fase di montaggio. Il procedimento che lui adotta è l’opposto: filma il meno possibile, attenendosi alla lunghezza della pellicola. Nel caso di Afriques, aveva a disposizione poco più di quindici minuti per ciascuno dei quindici paesi africani visitati. Questa poetica della distanza è affermata forse in polemica con l’immediatezza e la vicinanza che il digitale rende possibili – il Depardon fotografo più volte ha espresso la sua preferenza per il nitrato d’argento. Allora la domanda su cui varrà la pena continuare a interrogarci è proprio quella sulla distanza e sulla possibilità che il digitale continui a ripensare questo concetto trasformandone l’estetica.

Img: courtesy WIlliam Kentridge

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La stessa distanza è necessaria per guardare le sculture di Kentridge. In conclusione, il segreto dello sguardo di Depardon e di Kentridge sta forse nella capacità di mantenere una distanza dal soggetto che si guarda. Di più: il loro segreto sta in fondo nella capacità di vedere senza scrutare. La camera di Depardon si muove come fosse una scansione asettica, un occhio puramente meccanico. Ripetuto, asettico è anche il meccanismo della ricomposizione e disintegrazione delle sculture di Kentridge: il movimento che lo spettatore compie è traccia di un percorso preciso, grazie al quale il caos diventa ordine e significato. In entrambi gli sguardi, si torna al punto di partenza, all’immagine iniziale, ma sempre con la consapevolezza che in mezzo c’è stato un viaggio, un movimento, uno sguardo.