L’artista marchigiana Sabrina Muzi vive oramai da diversi anni a Bologna fra residenze e mostre dalla Florida alla Corea, fra vita quotidiana e piccole gioie, dove, attraverso processi e contaminazioni video-performativi, installativi e fotografici ci restituisce un’arte e identità estetiche interiori che coinvolgono tutti i sensi, trasudati e amplificati attraverso il suo piccolo corpo esplosivo.
Corpo come luogo di identità annullata, come appropriazione di spazio, come luogo della scoperta; corpo come ricerca e come strumento di comunicazione diretta e simbolica, corpo come merce di scambio e di denuncia. Corpo come altro e come rito. Corpo ricostruito. Corpo senza limite. Le sue performance riprese in video nascono da lontano, dalle sue origini, dalle sue paure e solitudini, dalla forza di una donna semplice e piena di vita, dalla voglia di farsi sentire, di amare. Sente il suo ruolo sociale, femmina capace di manifestare qualcosa, a volte senza filtri, a volte trasfigurato. Come quando in “Tortures” una mano gli impedisce la visuale ed il parlare, la annulla e la sovrasta; azione malvagia e repressa che scaturisce cattivi pensieri. Non l’immagine ma il “corpo dell’immagine” che si sgancia da ovvi significati per esplodere nel contesto che Sabrina crea e subisce, protagonista suo malgrado di un riscatto metaforico.
Ossessione di stare e di fare, come in “Accerchiamento”, vano tentativo e mera rinuncia. Paure e desideri sono guidati dalla consapevolezza dei limiti umani ed il fatto di essere legata alla natura del proprio corpo la obbliga a strategie creative che tendono quasi ad alienare la realtà della vita invadendo di fatto la rappresentazione. Sabrina è viscerale nel suo simulacro, è razionale nella sua drammatizzazione. La suggestiva videoperformance “Mending”, rievocando minuzia e gesti della scultrice Louise Bourgeois, si annovera fra le più toccanti e raffinate opere dell’artista dove accumula arance “operandole” con una cucitura da sala operatoria, intervenendo artificialmente ad aggiustare e quasi “curare” un figlio malato.
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Dopo questi primi lavori pluriapprezzati, come lo stesso “Big”, dove il vestirsi e l’ingrossarsi diventa rito e sacrificio, l’artista sente la necessità con “Ninetta” e “Uneasy Growth” di andare fra la gente ed appropriarsi di loro, di noi. Lo fa dapprima truccandosi e vendendo baci ai passanti per le vie di Bologna dietro una attenta ricerca iconografica e storica immergendosi di fatto in una “epopèa” narrativa rievocando inconsciamente una prima Sophie Calle e una Cindy Scherman fine anni settanta. Poi con naturalezza si lascia cadere fiori dal corpo come per magia, intervenendo sulla scena metropolitana scompigliando tram tram quotidiani e orari stabiliti; sinestesie allargate fra passeggiate e incomprensibili sguardi. Fino al recente “Remote Body” dove è forte il legame con l’ambiente naturale, corpo allargato che interagisce, che si fonde e si “costruisce” in questa opera ancestrale con rami e con scotch. Un pomeriggio di fine maggio ho incontrato l’artista e ho avuto l’occasione di chiacchierare e ragionare sul proprio lavoro, sul proprio viaggio iniziato oramai molti anni fa.
Massimo Schiavoni: Chi è stata Sabrina Muzi? Chi è attualmente?
Sabrina Muzi: Qualcuno sempre in cerca di qualcosa che ancora non conosceva, accompagnata da una forza di cui probabilmente non era del tutto cosciente, ma che l’ha spinta ogni volta a sfidare se stessa, a rimettersi in discussione se necessario, a cercare territori su cui sostare, ritrovarsi e anche smarrirsi. Tensione, precarietà, sentimento, passione e una certa dose di ostinazione , ho sempre voluto cercare strade nuove non preoccupandomi troppo dei rischi, perché ho sempre pensato che ogni emozione ha il suo linguaggio, e ogni momento un modo per esprimersi. Attualmente è qualcuno che ha imparato a guardarsi più da fuori, e forse anche a giocare un po’ con questo scambio di ruoli tra l’esserci e l’immaginarsi. Posso dire che ora sono un’evoluzione di quello che ero, perché in realtà non si cambia molto, si diventa soltanto più coscienti perché con il tempo aumenta la quantità di esperienze con cui dover fare i conti. Ed è attraverso questa coscienza che tutto diventa più chiaro, e sai quale strada devi prendere.
Massimo Schiavoni: Come ti definisci?
Sabrina Muzi: Definire significa sempre tracciare dei confini, fissare un inizio e una fine. E’ una grossa responsabilità perché bisogna portarla avanti, senza ripensamenti, non credo ne valga la pena, potrebbe anche essere frustrante attaccarsi a un’idea che si ha di se stessi. Io preferisco, se proprio vogliamo usare questo termine, lasciarmi “definire” da quello che faccio. Ogni volta che lavoro a un nuovo progetto, vedo un’immagine di me che prende forma, a volte può essere una sorpresa. Voglio dire che in realtà nel mio lavoro non parto mai da un’idea che ho di me, o da quello che sono o che vorrei mostrare di essere, seguo un flusso, un’intuizione, poi comincia a costruirsi un immaginario fatto di forme, immagini, azioni, suoni che man mano mi “definiscono”, ma in quel particolare momento.
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Massimo Schiavoni: Dove e come ti sei formata culturalmente e artisticamente? Cosa “porti” sempre con te?
Sabrina Muzi: Sono marchigiana ed è lì che ho vissuto una prima parte della mia vita, ho frequentato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Macerata, ma poi in seguito mi sono trasferita a Bologna, quindi il clima culturale che ho vissuto di più è stato quello bolognese pur non avendo studiato lì. Forse può sembrare banale ma alla tua domanda mi viene di risponderti che sono i sogni quello che porto sempre con me.
Massimo Schiavoni: Cosa rappresenta per te il video? E il corpo?
Sabrina Muzi: Il video è un mezzo e un linguaggio con cui da quando ho iniziato a utilizzarlo, un bel pò di anni fa, c’è stata subito una forte empatia e disinvoltura. Nel senso che l’ho sentito in grado di farmi esprimere in maniera calzante quello che volevo. In particolare c’è stato un periodo in cui ho quasi utilizzato soltanto il video per i miei lavori, come una necessità di voler andare fino in fondo a scoprire quello che sarebbe stato possibile trasmettere con un mezzo etereo e completo allo stesso tempo. Ogni idea, emozione, intuizione, ha il suo mezzo giusto per venire fuori, se faccio una fotografia, oppure un video, o una performance, anche se tutti ruotano intorno a uno stesso discorso, ognuno ha un valore diverso a secondo del mezzo che utilizzo. Utilizzare l’uno o l’altro è una scelta precisa.
Il corpo invece più che un mezzo/linguaggio è una sorta di filo conduttore, un trait d’union, presente anche quando è assente. Mi ricorda i giochi d’infanzia, quando ci si inventava a trasformarsi o a nascondersi, è sempre una scoperta insomma. E’ interessante il manifestarsi dell’imprevedibilità da parte di ciò che dovrebbe esserci familiare e che per questo diamo per scontato. Lo scopriamo tristemente nella malattia, ed è proprio attraverso la rappresentazione simbolica di noi stessi che esorcizziamo questo limite fisico. Come nelle culture primitive era possibile ritrovare attraverso l’offerta rituale una corrispondenza tra il corpo e lo spirito, così penso che l’arte relazionandosi con l’estremo tangibile, il corpo, taumaturgicamente ci riconcilia con noi stessi.
Massimo Schiavoni: Nella serie “Tortures” del 2001 si passa dall’annullamento della propria identità e del proprio spazio “privato” dall’esterno ad una impossibilità simbolica di “costruire” e quindi di essere. Quanto e cosa c’è di te come donna in tutto questo?
Sabrina Muzi: In questo lavoro la relazione tra il maschile e il femminile è una componente evidente, con una definizione di ruoli e l’esigenza di scardinarli, tornerà in seguito anche in altri lavori (“Accerchiamento”, “Zona Sospesa”, “Ninetta”). Ma il discorso va oltre una questione di genere, e quello che risalta è un gioco di relazioni in cui le parti interpretano la propria differenza provocando una reazione reciproca, una tensione in cui emerge la questione identitaria. Per una donna è stato sempre difficile socialmente costruirsi uno spazio pubblico, è una verità storica, ma questo non le ha impedito di costruirsi un luogo privato che col tempo ha rafforzato la propria identità. Per quanto mi riguarda credo di aver messo in atto da tempo un processo di “costruzione” ancora in corso, in cui la necessità di “essere” non può bloccarsi di fronte a una forza contrapposta, ma è in grado di provocare reazioni che inevitabilmente contribuiscono alla formazione di un sé.
Voglio dire che visto sotto questi termini anche la distinzione tra vittoria o sconfitta non ha più senso: quando si tratta di non poter rinunciare ad “essere” vale anche il solo atto di resistenza, preservare se stessi dalla forza dell’antagonismo dell’altro. In un libro letto qualche tempo fa, Miguel Benasayag, filosofo e militante argentino, racconta l’esperienza della tortura subita da lui stesso e dai suoi compagni di prigione, e parla del valore dato alla morte quando sei arrivato al limite e sai che qualsiasi cosa può succederti, ma questo non ha nulla di eroico, trionfalistico o ideologico, serve semplicemente a dar valore alla tua vita, a quello che sei e che sei stato. Penso che la “costruzione” di uno spazio vitale può essere messa in atto sempre, anche in esperienze al limite che tendono ad annullare qualsiasi possibilità di affermazione di se stessi.
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Massimo Schiavoni: Cosa rappresenta l’operazione minuziosa del cucire arance come fossero carne umana o comunque qualcosa da “curare” nell’opera “Mending”?
Sabrina Muzi: “Mending” si propone come un gesto di riparazione; è un’azione che potrebbe durare all’infinito, indica l’urgenza di un momento, una possibilità in cui l’attenzione è rivolta a un oggetto, un elemento organico, che diventando soggetto principale del lavoro si apre alla figurazione simbolica. L’azione può caricarsi di significati diversi: sociali, culturali, ecologici. Oppure può anche non avere senso, aprirsi all’immaginario e diventare un contenitore di umori ed emozioni. Penso che questa seconda ipotesi sia la prima reazione davanti a questo lavoro. Di seguito si schiudono tutte le altre possibilità di senso, ma di solito viene recepito in prima istanza attraverso la chiave emotiva psicologica. E’ la naturale deriva di tutto il mio lavoro: gettare degli spunti che abbiano un forte impatto comunicativo ma al tempo stesso pretendere di relazionarsi con la parte più intima di noi stessi. In un altro lavoro Rosso di sera l’operazione è simile e contraria al tempo stesso: là dove la”cura” si manifestava nella chiusura di una spaccatura, in una sorta di “riconciliazione” qui si risolve con dei tagli, una nuova dolorosa apertura ma probabilmente piena di speranza. Aprirsi e chiudersi, proporsi e ritrarsi, come il battito pulsante che sostiene il nostro respiro.
Massimo Schiavoni: In “Big” , come in “Accerchiamento” o “Rimozioni”, è evidente la costante dello sforzo, della ripetizione come rito, azioni semplici ma di grande empatia e comunicatività sia sociale che culturale. Poi nel 2004 in “Ninetta” ti vediamo passeggiare nel marciapiede a vendere baci ai clienti o in “Uneasy Growth” perdere fiori fra la gente. Parlami di questo passaggio verso l’interazione-happening con il fruitore.
Sabrina Muzi: La componente della ripetizione come una sorta di rituale ritorna spesso in molti miei lavori. E’ come un tempo dilatato che nella sua durata potenzialmente indefinita enfatizza e da valore a quel gesto. Mi piace, come tu stesso dici, lavorare con delle azioni semplici, ma per spostarle su un diverso piano simbolico di intelligibilità che le renda in un certo senso uniche. Non mi interessa tanto l’idea concettuale ma il processo vitale che in quell’azione si crea istante per istante. Questo significa che qualsiasi “tentativo” di trasformazione del reale, sovraccaricarsi di vestiti, o rendersi prigioniera all’interno di un muro di persone, ha valore proprio nella processualità di un gesto apparentemente “normale” che nel suo farsi evidenzia anche una fatica fisica, e quindi un rapporto diretto con il proprio corpo.
E’ molto importante per me trasmettere questa vitalità più che l’idea sottesa, che comunque arriva già in maniera diretta e infatti per questo scelgo elementi semplici su cui lavorare. Questa immediatezza che contiene in sè i semi dell’interpretazione necessita di un’elaborazione temporale che la renda viva, da qui l’esigenza della performance e del video. Il fatto di passare all’interazione a questo punto va da sé, non più soltanto l’azione che si svolge davanti alla videocamera in cui il prodotto finale è il video, ma la performance che si sviluppa in strada e coinvolge il pubblico. Subentra un elemento in più la reazione delle persone a volte coinvolte attivamente come nel caso della performance Ninetta o solo psicologicamente come in Uneasy growth , in cui anche solo lo sguardo che incrocia il tuo gesto contribuisce a caratterizzare l’operazione.
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Massimo Schiavoni: Nel tuo ultimo lavoro “Remote Body”, ti leghi con lo scotch di carta a dei rami diventando una cosa sola con la natura. Cosa hai riscoperto con questa azione e dove sta andando la tua poetica artistica?
Considero questo lavoro una sorta di valvola che mette in contatto una fase precisa della mia ricerca con un’altra che si va delineando. Già in alcuni lavori precedenti era presente l’elemento organico-naturale, ma ultimamente questo rapporto corpo-natura sta diventando più stretto, e in questo senso anche l’interesse per il concetto di corpo si allarga e diventa non più soltanto qualcosa legato necessariamente all’essere umano. Questo è venuto fuori inizialmente con una serie di lavori fotografici, immagini di elementi vegetali che si fondevano con figure umane e poi anche con fotografie in cui era presente soltanto il mondo naturale-vegetale. “Remote Body” è la ricerca di uno stato di empatia con l’elemento naturale ma vuole suggerire anche una visione apocalittica, passata o futuribile del mondo. Pur stabilendo un legame in realtà definisce anche un limite, il fatto di essere legati è un tentativo di fusione e di costrizione al tempo stesso. I suoni elettronici che utilizzo nel video alimentano questa dicotomia, creano una distanza-attrazione tra un immaginario arcaico che rimanda al rito primordiale del rapporto umanità-natura e la visione di un potenziale umano sempre più drasticamente lontano dal paesaggio naturale.
Nella performance-installazione “Corpo variabile” la situazione è simile ma si manifesta attraverso la costruzione di una struttura-albero con la quale interagisco diventando parte di essa. In questi ultimi anni, molto più che in passato, sto lavorando contemporaneamente con più media, la stessa idea si risolve con un video, con una performance, con una serie di disegni e fotografie o con un’installazione. Ognuna di queste forme è autonoma, ma come fossero strade parallele prospetticamente tese all’infinito ad un certo punto si incontrano, mi allontano e osservo il punto di fuga in cui tutto, convergendo, si fonde. Non posso dire precisamente dove sto andando, ma sento sempre di più la necessità di non partire dall’astrazione di un’idea o dalla figurazione di un concetto. Proseguo nella ricerca di un territorio dove il pensiero sia parte sensibile di una più vasta sfera di relazioni, culturali e naturali, che nella loro interazione determinano in maniera suscettibile il nostro rapporto con il reale: un mondo sensibile che si fonda sulla nostra storia personale e collettiva e che attraverso il nostro immaginario sia ogni volta in grado di creare uno stato emozionale.