Una della cinque sezioni della novella mostra periodica sull’arte e l’universo elettronico Direct Digital curata da Gilberto Caleffi, il Simposio andato in scena lo scorso giovedì 28 Maggio presso la Sala Delfini della Galleria Civica di Modena, ha proposto un’analisi della compenetrazione tra i linguaggi dell’arte, dell’architettura e dei media nella progettazione e immaginazione dello spazio.

Con un titolo un po’ anglofono, “From Art to Design and back”, il Simposio puntava a scandagliare un territorio vasto, nel quale quattro figure completamente diverse per formazione e obiettivi si sono confrontate per dare un punto di vista sui media e sull’immaginazione dell’ambiente: Golan Levin, Paolo Rigamonti, Boris Debackere e Lucrezia Cippitelli (io stessa quindi).

Invitati a parlare, alla vigilia dell’inaugurazione della mostra Direct Digital, tra artisti importanti ed internazionali, ed una storica dell’arte, io stessa, che ho ricoperto il ruolo un po’ scomodo di quella che presenta le cose del passato per poi chiedere agli artisti ed al pubblico: “Ed ora, che succede?”.

Golan Levin (designer & teorico), il nome certamente più conosciuto anche per i non addetti ai lavori, aveva il task di dedicarsi all’interaction design e interfacce uomo-macchina. Marco Mancuso, curatore del simposio, lo aveva invitato per praticare un’azione critica e teorica proprio sull’interazione nel quadro generale del simposio, cioè negli ambienti progettati e in cui l’intervento si fonda sull’uso dei media. E’ stato certo interessante ascoltare uno degli artisti più noti dell’interaction design internazionale e vedere uno dopo l’altra la presentazione dei suoi progetti più famosi. Nello stesso tempo, come spesso succede assistendo alle conferenze dei grossi nomi, un certo amaro in bocca è restato, pensando che dopo tutto sul suo sito internet Golan Levin si sofferma molto sul lato teorico del suo lavoro, mentre la lecture sembrava piuttosto un’elenco informale ed anche non troppo coinvolgente del suo lavoro.

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Boris Debackere, direttore del laboratorio del V2 Centre for Unstable Media di Rotterdam, uno dei pilastri del corso Transmedia all’Accademia Sint Lukas di Bruxelles ed artista a sua volta, ha parlato in nome del V2 dei progetti che il suo laboratorio realizza in materia di quella che viene definita “augmented reality”. Nelle ricerche proposte, e tra queste due lavoratori dell’artista olandese Marnix De Nijs “Exercise in immersion” presentata al Deaf nel 2007 e la più recente “Exploding Views – Remapping Firenze” (2008), l’attenzione è puntata su macchine e software indossabili, che permettono all’utente/osservatore di interagire con uno spazio che viene modellato e disegnato da computers o cinema interattivo.

E se la ricerca tecnologica sembra fare passi da gigante (nell’industria si sta ora lavorando alla produzione di lenti a contatto in grado di far esperire a chi le indossa una “realtà aumentata”), nel campo della ricerca in laboratori come il V2, i prototipi messi a punto e programmati dallo staff sembrano certo essere meno tecnologicamente appetibili, ma diventano certo strumenti interessanti dei quali gli artisti possono fare uso (e questo è il fine del V2 in sostanza, realizzare prototipi di strumenti che possano soddisfare le idee e le ricerche degli artisti).

La domanda rimane però presente: l’artista alle prese con l’augmented reality rimane sempre in bilico tra il divertimento da hacker (nella concezione di Pekka Himanem, l’hacker è colui che si diverte mettendo le mani dentro a un computer e vedendo come funziona e come potrebbe essere implementato lo strumento) e produzione di tool che spesso sono più giochi interattivi (per il quali certamente il pubblico va pazzo) che vere opere d’arte. Dove sta il progetto artistico in tuto ciò? Boris Debackere prova a parlarne introducendo la sua ricerca sulla Cinematic Experience, che lo ha portato anche a produrre “Probe”, un lavoro di cui Digimag si è occupato nei numeri passati e che si presenta come una forma di narrazione cinematografica interattiva con il comportamento dello spettatore che entra nella sala.

Il concetto di “Probe” era analizzare il cinema e far capire come tutta l’esperienza cinematica non sia dovuta ad altro che alla partecipazione diretta dell’immaginazione (quella kantiana) dello spettatore. Certo il discorso è interessante, anche se rimane il fatto che “Probe” sia stato un successo di pubblico in ogni mostra in cui è stata esposta (da Sonic Acts nel 2008 all’ultimo Strip Festival) perché tutti (e soprattutto i bambini) impazziscono nel vedere che quello che succede sullo schermo e nell’ambiente audiovisivo che cambia a seconda dei loro movimenti: insomma il rischio gioco interattivo rimane sempre di sottofondo.

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Paolo Rigamonti, designer, architetto e cofondatore dello studio milanese Limireazero, ha invece impostato la sua lecture sulla discussione e definizione del termine “medium” in quella che è forse stata la lecture più densa ed interessante del simposio. Come aveva preannunciato poco prima di prendere la parola, “sarò cattivo e vecchio stile”, Paolo Rigamonti ha prima di tutto enucleato un punto importante che riguarda la letteratura che si occupa di media-architecture: la tecnologia non c’entra niente, le chiacchere stanno a zero, le definizioni sono solo pubblicita. Quello che conta è che l’architettura è un medium di per sé, e lo è sempre stata.

Aggiungo io, lo è da dalle piramidi egiziane, alla Neue Wache di Schinkel passando per Gropius e Botta. Ma allora, che cos’è la “media architecture”? Rigamonti ci dice che di fatto, per ora, è solo una parola e che l’uso delle tecnologie addizionate all’architettura hanno senso solamente se realmente parte della costruzione di senso dell’architettura stessa. Per fare un esempio decostruente: Times Square a New York è un simbolo e basta, ma l’addizione di LED colorati ed in movimento su cui scorrono continuamente i dati delle borse mondiali non aggiungono nulla agli edifici dell’incrocio più famoso di New York. Sono solo immagine che non da altra informazione se non quella dell’affermazione della propria esistenza.

Esistono però numerosi esempi di uso della tecnologia nel contesto della ricerca architettonica contemporanea in cui la tecnologia punta a dare un senso proprio all’edificio o alla costruzione su cui è montata. Un esempio le ricerche del collettivo di designers/architetti LabAu di Bruxelles, ed in particolare “Binary Waves“, i pannelli muniti di LED colorati che si muovono ed interagiscono con l’ambiente urbano in cui si trovano a seconda delle informazioni che lo stesso ambiente produce (rumore, inquinamento, movimento, ecc).

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Ultima ma in realtà prima nell’ordine immaginato dal curatore del simposio, la mia lecture sugli ambienti nell’arte contemporanea (quella storica), sul cinema e sulle possibilità di mostrare il cinema all’interno degli spazi per l’arte. Una lettura che ha escluso di proposito, come anche gli ascoltatori si sono accorti, il discorso sul suono ed anche sulla videoarte, per dedicarsi invece all’idea che l’esperienza cinematica si basa su elementi spaziali ed ambientali che forzano lo spettatore ad esperire il cinema.

Tali elementi sono diventati una costante dell’arte Moderna dalle Avanguardie storiche in poi (dal Total Theatre di Gropiusiana memoria a Lucio Fontana). Cosa succede però quando gli artisti presentano i video a una biennale d’arte senza preoccuparsi dell’effetto cinematico? Quanti artisti oggi si occupano veramente di quest’aspetto?.


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