Vorrei iniziare questo testo con un’ipotesi, affiancando due elementi che ci aiuteranno a scandagliare alcune importanti opere del video artista inglese Tacita Dean, nato a Canterbury nel 1965, da sempre così in bilico tra rappresentazione e documentazione, tra contemplazione e atto di vedere.
La prima domanda che vorrei pormi è: a che livello coincidono identità e tempo. Da una parte un lavoro filmico ci offre l’espressione del tempo, in maniera così chiara che nessuna delle mie parole sarebbero motivo di vanto in questo ambito. Possiamo, però riuscire ad arginare una questione che indaga le possibilità del film in rapporto al tempo, con un piglio più diretto all’atto di vedere. Per far ciò il nostro sguardo deve essere ossessivo, deve circoscrivere l’oggetto isolandolo dal contesto a cui appartiene. L’altro livello che vogliamo sovrapporre, è come detto quello dell’identità, quello cioè che si muove sulla riconoscibilità dell’oggetto.
L’identità contiene già una nota temporale ben precisa: essa si basa sulla riconoscibilità dell’oggetto in funzione del contesto. Il nostro sguardo ossessivo raccoglie l’oggetto nel suo contesto, scoprendone una forma del tutto nuova, un’identità non data dall’immediato ma che si dispiega alla contemplazione più mite, e restia a muoversi nel tempo.
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Nei films di Tacita Dean, tutti in pellicola 16mm anamorfica, siamo effettivamente dentro uno spazio in cui è il tempo a scandirne il volume, a determinarne il vero perno dell’osservazione. Anche se nell’inquadratura vediamo che ad essere isolato è un elemento ben preciso, come accade nel video Bobble House (1999), dove viene rappresentata un’abitazione a forma sferica in mezzo al deserto, la sensazione data dal suono e dall’immagine in pellicola ci porta subito a considerare la durata di quell’immagine, piuttosto che la sua consistenza in termini di spazio e di volume.
Il suo isolamento è un isolamento nel tempo della sua esistenza, che raccoglie l’identità di appartenenza, il suo essere un’abitazione, elevandola a ruina, a reperto portato alla luce dalla ciclicità del tempo, oltre qualunque tipo di confine.
Nel lavoro Disappearance at Sea (1996) , l’oggetto dell’osservazione è l’interno di un faro in riva al mare. In questo film in 16mm, la macchina da presa è posizionata esattamente dove il fascio di luce delle lampade viene emanato in corrispondenza del mare. La luce del faro è l’ultimo limite dell’uomo della terra ferma, una coda che cerca di disperdersi dentro gli indeterminati confini del mare. Noi osserviamo questo tentativo dal di dentro, come se facessimo parte di questo tentativo dell’uomo di allungarsi dall’isolamento della terra ferma verso una superficie infinitamente estesa come quella del mare, dove i confini esauriscono il loro ruolo.
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Anche in questo caso il tempo è parte di un processo in cui l’identità dell’oggetto davanti ai nostri occhi assume una validità completamente diversa. L’interno del faro è il fulcro di questo disperato tentativo di allungarsi oltre la terra e il suo ruotare su se stesso diventa l’emblema di un prometico attributo alla scoperta e alla vertigine della maturazione. Come l’abitazione diventata ruina e simbolo dell’affermazione umana in Bobble House, il faro di Disappearance at Sea assume un’identità nuova proprio in rapporto al tempo con cui lo percepiamo. Nel suo ruotare su se stesso per dirigere lo spettro di luce verso il mare, nella sua rappresentazione così rarefatta e ben isolata da accorgimenti stilistici ( la distensione dell’anamorfico ben raccoglie la tensione retrostante un’azione di questo tipo ), percepiamo l’universalità di questo tentativo così profondamente umano.
Il mare è un tema ripercorso più volte da Tacita Dean, i cui lavori sono rappresentati dalla Frith Street Gallery di Londra e dalla Marian Goodman Gallery di New York. Il suo mito si confronta con l’idea di appartenza e di isolomento dell’uomo dentro la sua geografia. I limiti si confondono con l’appropriazione di un’identità, di un riconoscimento che si determina nel tempo, o fuori da esso. The Sea, with a Ship; afterwards an Island del (1999), è un lavoro, questa volta di matrice pittorica, anche se sarebbe più corretto dire progettuale, che ci racconta quindi di un evento chiuso nella tensione di un’impresa umana: l’impresa di Donald Crowhurst, alla stregua di quelle narrate da un altro grande artista del dramma dei limiti umani, William Herzog, che attravera il mondo con la sua nave, per poi saltare in acqua e morire stringendo il suo cronometro.
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Tacita Dean ci racconta dei limti di questa impresa, della tensione all’interno di essa, della sua follia, della sua eccezionalità. Ce lo racconta attraverso il segno, con la classicità di un tratto che forse più di altri può meglio definire la sicurezza di un progetto, più che l’impresa in sé, nel pieno della sua realizzazione. Un’azione così incredibile nasconde dentro di se il dramma del suo fallimento e l’impossibilità di perseguire il suo corso: il mare diviene mito dell’impresa, generatore della follia, che spinge oltre i limiti della mente, dentro il superamento delle resistenze dell’individuo.