26 Gennaio 2009 . I Pathosformel ricevono il premio speciale UBU 2008 con la seguente motivazione: “giovane compagnia tesa a un teatro astratto e fisico da perseguire con un segno già distinto e stratificato, che fa della ricerca sulla materia e sul corpo un punto di partenza per restituire una teatralità visionaria,  frammentata,  decostruita,  di grande fascino,  entrata in modo dirompente nella scena nazionale e internazionale, realizzando un significativo intreccio tra arte concettuale e teatro”.

Sono in scena da poco più di quattro anni e la loro impronta innovatrice ha rivoluzionato e smosso un ambiente teatrale contemporaneo che ha bisogno di linfa vitale continua in un momento comunque sia abbastanza pieno di fermento Made in Italy. Questo per merito di compagnie come Pathosformel, che non hanno paura della sperimentazione e del confronto, in una società sempre più multimediale e, nonostante questo, attenta e critica nei confronti di opere mascherate magari da tecnologia drammaturgica. Daniel, Francesca e Paola eseguono opere d’arte funamboliche dislocate senza nessun problema sopra un palco o in una stanza, dove scena e platea, installazione e fruitore respirano insieme, in cui la vista si fa teatro e il suono si fa opera.

Nulla da invidiare alle progettazioni teatrali di un Aleksei Krucenick o ad un’opera di un Malevic, quando la timidezza delle ossa si scopre a poco a poco svelando abilità sceniche e fisiche, permettendo immaginazioni personali, training sospesi, sintonie ed “equazioni algebriche danzate”. Un rilassamento che il colore bianco ci costringe ad amare, quando l’assenza del corpo è una marcia in più e dove assistiamo ad una sorta di parto naturale; performance oculata, acrobatismo palpabile, delicatezza sfrontata. Eleganza che in Volta si fa strada e sparisce contemporaneamente con lo sciogliersi della cera, materiale nudo ed effimero, plasmabile e spiritualmente erotico. La mise en scène non è più tradizionale o per lo meno si dilegua in strade alternative assaporando ancora quella materialità tipica di un certo Joseph Beuys o di una certa Marina Abramovic. Siamo dinanzi ad una nuova estetica teatrale, nuova poetica che va a braccetto con scultura e suono, con performance e coreografia, scenografia dell’invenzione cosmopolita.

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Se l’elemento centrale del teatro è la presenza dello spettatore, in Pathosformel il quibus è caratterizzato dalla capacità forse inconsapevole di aver saputo avvicinare una generazione di fruitori dai più disparati angoli culturali e sociali del nostro Paese nonché d’Europa; un fulcro importante per migliaia di appassionati e operatori del settore che sentono il richiamo di questo collettivo nato a Venezia, capaci di “pellegrinare” per tutta Italia e di riempire Festival e teatri a volte improvvisati come fan di cantanti che si assiepano allo stadio.

“La più piccola distanza”, opera presentata a l’Alboreto – Teatro Dimora di Mondaino nell’estate del 2008 per poi “decollare” tra gli altri a Dro e a Bruxelles, è l’ultima fatica rappresentata work in progress: cambiano i materiali e le visioni, la musica dal vivo ci immerge in un bar alle Folies-Bergè ma rimangono soggettività e libero arbitrio che possiamo decifrare o semplicemente sognare dietro lo scorrere ansimante dei quadrati sospesi. Ognuno di questi quadrati su linee corrisponde ora ad una nota cantata, come segni di uno spartito gregoriano passibile di continue modifiche. Tutto ciò che sentiamo si manifesta nella presenza scorrevole delle forme sulle righe, tutto ciò che vediamo apparire è sorretto dalla propria voce corrispondente. Tra canto ed immagine si instaura una sincronia evidente e al tempo stesso ambigua. È il movimento di questo spartito mutevole a generare la melodia o è il canto ad essere guida di questi abitanti geometrici? È il comportamento delle forme a dare vita alla liturgia, o l’intreccio di voci ad imporre la coreografia a quest’opera di danza senza spessore? (Pathosformel)

Il 19 Aprile i Pathosformel saranno presenti al Teatro Palladium di Roma. A maggio prenderanno parte a due appuntamenti quali Uovo Festival di Milano e Un altro Teatro 2009 a Forlì. Nel frattempo ho cercato di approfondire alcune tematiche relative la formazione, l’ideazione e la creazione artistica di questo giovane collettivo attraverso una breve intervista.

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Massimo Schiavoni: Chi sono stati Daniel Blanga Gubbay, Francesca Bucciero e Paola Villani? Chi sono attualmente?

Pathosformel Daniel Blanga Gubbay, Francesca Bucciero e Paola Villani sono stati tre studenti dell’Università IUAV di Venezia che si sono riuniti, alla fine del 2004, per costituire un progetto di lavoro denominato pathosformel, che indagasse attraverso opere proprie il limite tra teatro e performance. Proveniamo da città diverse (Milano, Bologna e Parma) e da esperienze differenti che vanno da un’impronta più teorica ad una pratica teatrale più formata, ad un background più tecnico.

Abbiamo condiviso quelle che erano le specificità di ciascuno, sapendo di voler lavorare assieme senza un’idea preconcetta di teatro o una poetica chiara di riferimento. Ogni volta si è trattato di costruire un nuovo modo di lavorare, di capire come affrontare le tecniche e confrontarsi con i linguaggi possibili. Ogni volta è necessario confrontarsi artigianalmente con una materia nuova perché questa possa farsi corpo nella rappresentazione.

Attualmente siamo persone che condividono la passione per questo lavoro e che lo portano avanti nel tentativo di riuscire a farne un’attività consolidata. Lavoriamo insieme ma facciamo al tempo stesso altro, per necessità e per interesse. Sono rimaste le differenze e le specificità di ognuno, gli aspetti che probabilmente più arricchiscono un progetto, e che creano i diversi apporti che confluiscono all’interno di ogni nuovo lavoro.

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Massimo Schiavoni: Mi piacerebbe sapere però se vi siete guardati intorno e cosa avete visto prima di far nascere questo progetto, se era già dentro di voi o è nato da altre necessità, da altri interessi in corso.

Pathosformel: L’incontro è nato da un’affinità caratteriale prima ancora che da una visione comune sulla tipologia di lavoro che avremmo voluto affrontare. Sicuramente ci siamo guardati intorno, andando a vedere molte cose assieme: abbiamo avuto – così come abbiamo oggi – l’esigenza di vedere il più possibile come, immaginiamo accada per la maggior parte delle persone che si confronta con la creazione. Ci siamo formati in comune all’università e discutendo su tutto ciò – e spesso non spettacoli teatrali – che abbiamo trovato attorno a noi.

Nel mentre c’era un progetto dentro di noi di “fare qualcosa”, ancora non troppo limpido; sono state le circostanze della vita a Venezia e gli interessi di ognuno di noi che hanno determinato poi le modalità con cui abbiamo iniziato a lavorare e i lavori stessi.

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Massimo Schiavoni: “La timidezza delle ossa”. Raccontatemi perché nasce e come. E se rispecchia secondo voi l’inizio di un percorso alternativo o comunque originale all’interno del teatro contemporaneo.

Pathosformel: La timidezza delle ossa nasce a lato di una riflessione teorica: siamo soliti considerare la performance e lo spettacolo dal vivo come arti dell’immediatezza, ovvero dell’assenza di qualsiasi medium materiale – come potrebbero essere la tela per la pittura o la pellicola per il cinema- frapposto tra l’occhio dell’osservatore e il corpo dell’attore. L’idea era da un lato riflettere su questa immediatezza, negarla per negare la scontatezza della visibilità del corpo in scena. Il corpo al contrario va indagato, scoperto, ritrovato e abbandonato. La sua presenza davanti al pubblico non era più per noi l’elemento base a partire dal quale costruire il resto, ma il nucleo stesso che va messo in discussione.

Al tempo stesso a quest’opera si legava un percorso teorico legato alla defigurazione, a quelle tecniche artistiche che rendono incerta la figura, che applicano dei segni che – cancellando l’interezza della forma – le donano una nuova potenza: la figura potrà essere completata da ogni singolo osservatore in maniera differente ed è come se possedesse già in sé la potenza di diventare tutte queste forme, L’idea dello spettacolo era quindi quella di velare il corpo non per nasconderlo ma per permettere che emergesse in maniera nuova ogni volta e che ogni volta fosse ricostruito da colui che guarda, in maniera anatomica o fantasiosa. Il progetto in questo senso è per noi l’inizio di un percorso di delega o totale fiducia nell’immaginazione dello spettatore. Si tratta di donare dei semplici indizi che possono essere presi per quello che sono o completati all’interno di una sorta di narrazione.

Se ne La timidezza delle ossa offrivamo un corpo per punti che andasse completato idealmente e ricostruito nella sua interezza, in seguito ne “La più piccola distanza” abbiamo costruito un sistema geometrico-musicale all’interno del quale ogni spettatore potesse ritrovare una propria intima struttura astratta o narrativa. Sono quadrati che scorrono in due direzioni, eppure per noi rappresentano esattamente questo strumento di delega che permette forse a ogni spettatore di ritrovare nelle solitudine o negli incontri delle forme un vissuto differente o una totale astrazione musicale in cui è lecito abbandonarsi.

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Massimo Schiavoni: Che significato ha il corpo in “Volta”? Che ruolo ha qui la metamorfosi?

Pathosformel: Volta nasce parallelamente a La timidezza delle ossa , sempre all’interno di questa riflessione che stavamo portando avanti sul rapporto tra immagine del corpo e supporto della rappresentazione. Se ne La timidezza delle ossa la tela era il supporto – quasi classico – che permetteva la presentazione dell’immagine del corpo, qua abbiamo scelto di portare avanti la problematica.

Lo spazio è completamente buio e i corpi sono completamente coperti di nero e quindi invisibili o visibili unicamente negli arti ricoperti da una strato di cera bianca. Il gioco è ambiguo: da un lato la cera è il supporto che rende visibile il corpo, dall’altro è il corpo stesso ad essere supporto per la cera. Sono corpi di cera, forzatamente provvisori e fragili, che si uniscono e si separano creando figure umane non per forza riconoscibili.

La metamorfosì è inevitabile in questo lavoro: c’è una componente volontaria ed una propria del materiale. La cera è un materiale organico e per forza di cose, dal principio, comincia a sciogliersi e frantumarsi annullando progressivamente la percentuale di visibilità del corpo. È uno sparire per frammenti; scaglie che ritroviamo alla fine in terra, come una costellazione nata all’evaporazione del corpo.

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Massimo Schiavoni: Siete stati scelti per la prima trance del progetto Fies Factory One, insieme ad altre quattro giovai realtà artistiche quali Sonia Brunelli, Teodora Castellucci, Francesca Grilli e Teatro Sotterraneo. Come vivete e quali benefici ha portato questa esperienza creativa a stretto contatto con altre modalità di lavoro ed altre cifre stilistiche nella residenza di Dro?

Pathosformel: Fies Factory One rappresenta sicuramente un’opportunità ed un sostegno che mai avremmo immaginato prima. Innanzitutto ha previsto un finanziamento triennale e non relativo ad un singolo progetto, il che ha permesso di pianificare in maniera più completa i tempi a disposizione per una produzione: permette all’oggi di sviluppare un progetto in maniera articolata e prendersi il tempo di ricerca necessario alla produzione successiva.

Inoltre il rapporto con gli altri artisti selezionati è stato per noi particolarmente interessante. Partendo da analogie e differenze evidenti alla base (c’è chi viene dal teatro e chi dalla danza o dalle arti visive e al tempo stesso nessuno è forse iscritto in un unico luogo), il confronto nei periodi di residenza comune e le sporadiche ma importantissime collaborazioni – ad esempio in occasione dell’evento di Ottobre 2008 in occasione del primo anno di nascita della Factory – hanno permesso al lavoro stesso di arricchirsi di una visione che altrimenti difficilmente avremmo trovato.

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Massimo Schiavoni: I vostri lavori si sono imposti nel panorama artistico anche per la loro personalissima ed originale presenza scenica e per l’uso di soluzioni tecniche e spaziali alquanto innovative. Come è avvenuto il passaggio creativo dai lavori precedenti verso “La più piccola distanza” e perché ora una sorta di “concerto senza corpo” ci fa immaginare altro che dei quadrati in movimento?

Pathosformel: Il passaggio verso La più piccola distanza è stato per noi abbastanza immediato: eravamo interessati a proseguire nel segno della ricerca precedente, pur distaccandoci dal tipo di immagine che avevamo messo in scena con i primi lavori. Volevamo continuare a creare un sistema che mettesse in gioco l’immaginazione stessa dello spettatore, che permettesse di completare in infinite maniere un sistema di segni astratti carico di un vissuto umano.

Nel caso di questo lavoro, non eravamo tuttavia interessati a lavorare su una ricostruzione anatomica del corpo, quanto invece ad uno studio sul movimento che potesse essere tradotto nelle intenzioni e nelle relazioni che guidano gli spostamenti umani. Per questa ragione abbiamo ragionato sull’idea di un pentagramma in movimento, un sistema di segni in cui ogni elemento si muove secondo una propria velocità e che, attraverso questi scarti e rallentamenti, entra forzatamente in un qualche tipo di relazione con le forme contigue.

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Il “Concerto per harmonium e città”, nasce sulla scia di questa ricerca e come costola di questo primo spettacolo. Avevamo ancora bisogno di indagare il rapporto tra musica e geometrie comportamentali e in questo caso abbiamo deciso di mettere in relazione la lettura della musica ad una vera e propria mappa geografica di una città ideale. Una cartografia in movimento che viene suonata dal vivo nel mentre del suo formarsi e disfarsi: è come se ogni percorso urbano tracciasse sulla carta una linea e al tempo stesso fosse accompagnato da una nota che – insieme alle centinaia di percorsi che incontriamo ogni giorno – creasse la musica.

La scelta della carta geografica è diventata così per noi molto significativa, quasi un manifesto, perchè in essa abbiamo trovato quel sistema ibrido, in equilibrio tra il segno astratto e il riferimento al mondo reale, che costantemente abbiamo ricercato.


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