Ho avuto modo di assistere alla performance audiovideo di Bruce Mc Clure due volte: la prima a Roma nel 2006 per Dissonanze (dove ero coinvolto anche come curatore) e la seconda l’anno quest’anno al Sonic Acts ad Amsterdam (in cui invece Digicult era presente perchè presentava il live “Circo Ipnotico” di Otolab).
Nonostante due live molto diversi per intensità, in entrambi i casi la senzazione è stata la medesima: il lavoro dell’artista newyorkese è forse troppo colto e raffinato per essere apprezzato dal pubblico spesso cafone dei festival, nonchè troppo smaccatamente sperimentale e naif per vederlo bene all’interno di una galleria o nelle stanze di un museo. Un ibrido insomma, ciò che in genere mi affascina da morire…
Del resto le sue film performances, o sessioni di cinema espanso, basate sul fenomeno della sintesi ottica del suono, sono state riprodotte all’interno di festival di arte elettronica, di festivals di cinema sperimentale, ma anche all’interno di gallerie d’arte o di vere e proprie sale cinematografiche. Pare del resto che il suo sogno sia quello di essere incluso nella collezione permanente del Whitney Museum (in cui alcuni suoi colleghi più altolocati come Sandra Gibson e Luis Recoder sono presenti), anche se forse la sua natura autarchica e quasi anarchica gli ha sempre reso la vita difficile in termini di relazioni con il mondo dell’Arte e delle Gallerie. Come dargli torto…
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Il background da architetto di Bruce Mc Clure, costituisce a mio avviso un elemento molto importante per comprendere il suo lavoro e la natura delle sue performance. Affascinato dali fenomeni di alternanza tra oscurità e luce, capaci di enfatizzare l’ambiente performativo e altresì in grado di coinvolgere e annebbiare lo spettatore, Mc Clure è dal vivo un proiezionista ossessivo nel suo costante lavorare sulla meccanica del suo proiettore modificato, vero e proprio strumento reso quasi vitale dal tocco delle sue mani. E la quasi natura scultorea della sua composizione audiovisuale, il rapporto fisico con l’oggetto/strumento, con la pellicola, il manierisimo con cui utilizza i suoi dischi metallici, i pigmenti di inchiostro, pedali sonori e oggetti di varia natura, la fisicità del suono spesso potente e ossessivo, non assomiglia molto al frutto di un cineasta, o di un fotografo o di un video artista, quanto forse ai lavori di arte in movimento di “scultori” come Bruce Nauman o Paul Sharrits.
Mi sono dilungato un po’ perchè penso che il lavoro di Bruce Mc Clure sia assolutamente unico nel panorama internazionale dell’Arte Audiovisiva, anche se a volte di difficile digestione (i suoi live hanno forse il piccolo difetto di essere un po’ troppo lunghi, per lo meno per l’ambiente frenetico dei festival appunto). Altri spunti di riflessione arrivano dall’intervista che Bertram Niessen ha realizzato con Bruce…
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Bertram Niessen: Quando hai iniziato a lavorare con le performance dal vivo?
Bruce McClure: La prima casa che ricordo era nei sobborghi di Washington DC. Aveva un seminterrato molto buio e interessante ed è li che ho iniziato a intrattenere gli amici accendendo e spegnendo rapidamente la luce. Muoversi rapidamente dalla luce al buio faceva apparire dentro ai nostri occhi immagini notturne. Mi dissero che era dannoso per il bulbo oculare e che non avrei dovuto farlo, ma la tentazione era forte e le insorgenze chimiche erano difficili da dimenticare.
Bertram Niessen: Il tuo background è abbastanza insolito e variegato. Puoi dirci qualcosa dei tuoi lavori precedenti?
Bruce McClure: Quando mi sono laureato alla scuola di architettura mi sono spostato a New York; cercando situazioni divertenti ho iniziato a lavorare su progetti al di fuori dei miei doveri vocazionali come architetto. All’inizio degli anni ’90 decisi di tracciare una linea lunga 40.075 chilometri, l’equivalente del diametro della terra all’equatore. Naturalmente avrebbe dovuta essere composta di segmenti: iniziai quindi a usare un metronomo per misurare il tempo impiegato e a tenere traccia delle distanze coperte. Disegnai un determinato numero di segmenti, dalla fine all’inizio della pagina ad un determinato ritmo, andante per esempio, ed ero in grado di calcolare la distanza percorsa in un giorno. Il metronomo ed il tic-tic del suo pendolo erano dei buoni compagni. Apprezzavo particolarmente la bacchetta graduata, ed il fatto che spostando il peso relativo al fulcro puoi cambiare il tempo del suo movimento.
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A quell’epoca mi trovai ad una festa, guardando l’influenza di una luce stroboscopica sulle pale di un ventilatore. Così iniziai a lavorare con ventilatori, luci strobo e dischi sagomati di una quarantina di centimetri di diametro che potevo far girare ad alta velocità. La velocità dei flash delle strobo variava da 50 a 30.000 per minuto e potevo realizzare dei disegni dal vivo semplicemente cambiando la velocità del disco rotante.
Le pile di carta, 47 centimetri per 62, coperte di linee di matita, sembravano un qualche tipo di indulgenza in una città nella quale è difficile trovare spazi amichevoli. I bar e i dance party divennero i miei nuovi luoghi di lavoro e mi ritrovai a esplorare nuovi territori di natura performativa, nei quali il tempo era l’asse della rotazione e lo spazio della galleria sembrava irrilevante.
Bertram Niessen: E quando hai iniziato a rapportarti con il mondo del cinema sperimentale?
Bruce McClure: Nonostante queste illuminazioni, la mia ambizione era di portare il mio lavoro pre-cinematografico dentro la casa del cinema. Cercavo una un pubblico sobrio, seduto comodamente e la consapevolezza che quello che stavo facendo con i dischi rotanti potesse essere definito “sperimentale”.
L’Anthology Film Archives era un luogo con dei teatri e aveva una buona reputazione sulla sperimentazione dei possibili confini del cinema. Performare lì con le mie luci a intervalli sembrava perfettamente appropriato, ma quando vennero fuori le luci mi fu detto che i miei dischi stroboscopici appartenevano al mondo delle gallerie e non a quello del cinema. Dopo di ciò, decisi di allargare le mie opportunità lavorando sul proiettore 16 millimetri come uno strumento teporale addizionale, in grado di condizionare lo spazio. Ero pronto a erompere con il proiettore sopra i fari del vaudeville e nell’arco del pubblico. Questo non sarebe stato un esperimento, niente sarebbe stato guardato come un’anomalia o un dato errante, e tutte le scoperte che si possono fare sarebbero state “in propria persona”.
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Bertram Niessen: Come sviluppi il rapporto tra audio e video?
Bruce McClure: Una delle cose interessanti dei proiettori che uso è che hanno un suono ottico: con questo sistema una forma di energia può essere convertita in un’altra. Una forma d’onda rappresentata come un valore cangiante di luce e buio sulla pellicola è convertito da un fascio di luce e da un catodo in un output elettrico amplificato e reso udibile attraverso degli altoparlanti. Il proiettore ha un’anatomia integrata di design in grado quindi di soddisfare sia gli occhi che le orecchie. La pellicola nelle mie performace manda alla lampada delle immagini e al sensore del suono dei segnali audio che possono quindi essere tirati e spinti dal proiezionista/performer.
Quello che cerco di fare è di far suonare quindi l’oscurità, godendone ogni momento prima che qualcuno accenda la luce.