“C’è un retroscena culturale di ansie, di affanni, di telefonate, di attivismo istituzionale (che mi è proprio e che mi ha fortemente coinvolto) per ottenere dal Ministero la già concessa, e poi ritirata, autorizzazione a Greenaway di elaborare la sua lettura, animata di luci e suoni, del Cenacolo di Leonardo, così come fece mirabilmente con La Ronda di Notte di Rembrandt e sta per fare con Guernica di Picasso.”

Con queste parole Vittorio Sgarbi, l’allora assessore alla cultura del comune di Milano, ha introdotto la rivisitazione dell’Ultima Cena di Leonardo ideata dal regista gallese Peter Greenaway. Un’installazione di luci e suoni inaugurata a Milano il 16 aprile in occasione del Salone del mobile attraverso la quale l’artista ha inteso ridar voce e vita al dipinto murario leonardiano.

Per non smentire le abitudini incancrenite delle istituzioni italiche, l’intervento è stato occasione per vivificare più un teatrino di polemiche che non l’opera stessa di Leonardo. Il retroscena culturale di cui parla Sgarbi è in effetti una sceneggiatura di interventi e smentite tra Soprintendenza, Assessorato, Ministero, nella quale ognuno ha recitato il suo ruolo in difesa della carica innovativa del progetto di Greenaway piuttosto che della necessità di conservare le fragili preziosità del “Patrimonio culturale italiano”!. Operazione che ha alla fine condotto ad una clonazione dell’opera originale per consentire l’intervento artistico (assolutamente non invasivo, va specificato) del regista.

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Una riproduzione più che fedele dell’Ultima Cena realizzata da Adam Lowe per Factum Arte, realizzata grazie a una registrazione fotografica panoramica ad alta risoluzione e la scannerizzazione 3D effettuata dall’Istituto Centrale del Restauro, uno schermo d’eccezione collocato nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale di Milano e diventato, insieme alla cronistoria delle polemiche e delle giustificazioni sulla tutela del dipinto leonardiano, il vero protagonista dell’evento.

Come infatti spesso accade per le diatribe che coinvolgono il marasma degli operatori culturali italiani, la vera notizia diviene la polemica e poco o nulla è lasciato alla sostanza, in questo caso l’opera di Greenaway, presentata nella brochure come spunto per parlare/sparlare dello stato di conservazione del Cenacolo e sulle problematiche di tutela.

Il catalogo edito da Charta, dal canto suo letteralmente tace: trattasi di un bel tomo di riproduzioni fotografiche del dipinto, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che nulla dice del progetto di Greenaway nè delle raffinate tecniche attraverso le quali il regista e Reiner Van Brummelen, direttore della fotografia e di effetti speciali e collaboratore stabile dell’artista gallese, hanno rielaborato la struttura del dipinto.

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Il lavoro di Greenaway sul Cenacolo davinciano fa parte di un progetto che l’artista ha inaugurato nel 2006 con una rifacimento audiovisivo del La Ronda di Notte di Rembrandt al Rijsmuseum di Amsterdam, dando il via ad un ciclo di interventi su capolavori dell’arte moderna e contemporanea internazionale tra i quali sono previsti Las Meninas di Velasquez, Le Nozze di Cana di Veronese, di Picasso, Nympheas di Monet, One: Number 31 di Pollock e il Giudizio Universale di Michelangelo.

Concept del progetto, insaturare un dialogo tra i linguaggi di pittura e cinema, tra la materia del dipinto e una scenografia di proiezioni e suoni allestita direttamente sull’opera. Da questa compenetrazione distillare quindi una creazione nuova, un’evoluzione che parte dall’originale evidenziando e sviluppando i potenziali cinematografici celati nelle pieghe dell’opera pittorica.

E di questo intento ci sarebbe piaciuto si parlasse, della sfida posta da Greenaway di interagire non solo con la pittura in quanto tecnica, medium e procedimento, ma con la pittura in quanto strumento di espressione, materia di icone dell’arte e simboli di tradizioni culturali di questi paesi. Ed in effetti il regista ha interagito con la cultura italiana, o meglio con i rappresentati del panorama culturale e con i media che di cultura dovrebbero occuparsi, e che di questa sfida hanno visto e si sono alimentati solo di un apparente minaccia alle zone rosse dei nostri simboli culturali, senza prendersi la briga di considerare nè spendere commenti sulla validità reale dell’intervento di Greenaway.

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E forse si sarebbe chiarito che, la tanto acclamata rilettura dell’opera leonardiana dell’artista, è in realtà puro sfoggio di spettacolarità tecnica, vuota suggestione percettiva che svanisce dopo pochi minuti di fruizione. Mentre io e altri perplessi visitatori, per lo più annoiati e perplessi, sorbivamo la tanto enfatizzata opera di Greenaway, mi chiedevo dove fosse la rilettura. Greenaway infatti non legge la potenza espressiva sel cenacolo, nè la tensione del racconto, utilizza la scena leonardiana come fosse uno sfondo, una superficie di forme, luci e colori, un ambiente sul quale sperimentare una sequenza di splendidi effetti speciali.

Perfezione estetica fine a sè stessa che non entra in dialogo con l’originale, resa ancor più paradossale dalla drammaticità barocca delle musiche di Marco Robino. L’intervento non distilla il dramma dal dipinto, non introduce lo spettatore nella scena e soprattuto schiaccia il brulicare del momento raccontato da Leonardo in un presepe di statuine immobili, fatta eccezione per un breve passaggio nel quale la luce vede protagonista da danza di mani dei personaggi.

Greenaway non penetra e non indaga la composizione delle figure, la gestualità pullulante e la tensione delle posture degli apostoli, una struttura di mani, teste, bocche, occhi e voci che parla da sola molto di più della multimedialità messa in scena dall’artista e che anzi viene resa schermo muto sul quale dar sfoggio di ampollosità inutili.

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Forse è questo l’unico merito della mega operazione di Greenaway, aver reso in maniera esemplare un souvenir dello spettacolo ridondante e vuoto della condizione culturale italiana.