[ ]L’attuale decadenza dell’aura [ ] si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggior importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione – Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000, pag. 25.
A distanza di settant’anni dalla sua pubblicazione su Zeitschrift fuer Sozialforschung, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin rimane ancora un saggio capace di fornire spunti di discussione sullo statuto del rapporto arte-tecnologia. Citato da molti dei teorici della software culture soprattutto per indagare i punti di contatto tra la rivoluzione segnata dal cinema e quella del codice digitale, merita tuttavia un ulteriore approfondimento in questa sede perché ci permette di riflettere su alcuni concetti chiave della cultura e dell’arte del software.
In primo luogo, occorre chiedersi se il concetto stesso di riproducibilità tecnica abbia ancora senso in un regime softwarizzato. Come ho già sottolineato in precedenza, la fondamentale differenza tra i media analogici e quelli digitali sta proprio nella dissoluzione del concetto stesso di riproduzione intesa come ri-presentazione di un contenuto. Si è notato ampiamente come l’ essenza del software non sia da concepire come statica testualità di un programma in quanto sequenza sensata di caratteri alfanumerici, ma vada ricercata nella sua partecipazione dinamica alla costruzione di materiale significante da parte dell’hardware. Il computer produce contenuto ad ogni esecuzione del programma, processa le istruzioni opportunamente tradotte in sequenze di codice binario. Non ricorda una precedente esecuzione, né rilegge semplicemente un messaggio salvato su un supporto. Interpreta ogni volta una serie di dati, e opera una serie di trasformazioni su stati diversi del codice. Mi si potrebbe obiettare di non tenere conto che anche i dispositivi di riproduzione analogici poggiano su complesse modalità di funzionamento: ciò è vero ma solo in parte, perché essi sono sempre impegnati in una attività di lettura di un segnale e non nella co-generazione di tale segnale tramite la determinante mediazione di un software. Inoltre, e non è questione da poco, il medium digitale, in quanto interattivo, necessita anche di una maggior partecipazione dell’utente per il completamento di alcune operazioni. Sembra dunque che il concetto di riproduzione tecnica sia quantomeno messo in crisi nell’epoca della software culture .
Pensiamo ad esempio ad una fotografia digitale. Verrebbe da pensare che il concetto di riproducibilità tecnica sia ancora perfettamente calzante per essa: in fondo, posso farne milioni di copie sul mio hard disk, passarla a qualche amico tramite una memoria removibile, distribuirla in rete, e così via. Il problema sta nel fatto che quella fotografia non sarà mai semplicemente riprodotta , ma dovrà sempre essere interpretata e dunque calcolata da un particolare software: quello presente nella fotocamera, quello installato sul mio desktop, quello posseduto dai miei amici. Finchè i software interpretano tale codice nella maniera corretta, tutto funziona. Ma posso sempre scrivere un nuovo programma che “legga” quella foto e tutte le altre secondo altri algoritmi e regole, stravolgendo dunque l’output generato. Posso costringere un software musicale ad interpretarle come fossero file sonori. Posso aprirle con un editor di testi. La rilevanza del software nella produzione del contenuto è evidente: la struttura logica composta da hardware (il computer o la fotocamera) – software applicativo (il programma della fotocamera o del computer) – dati (la fotografia stessa) rappresenta una tripartizione inedita nella storia dei media e pone nuove problematiche.
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Veniamo per un attimo al problema opera originale copia: anche tali categorie sembrano perdere parte del loro significato nel contesto dell’arte del software. Più che di un’originale , oggi, occorre piuttosto parlare di una sorta di un’origine , una matrice da cui vengono ricavate poi le singole istanze dell’opera (copie). Il codice sorgente del software, il listato della programmazione, è l’istanza attivatrice del processo di generazione significante, e dunque può a ragione essere visto come uno status a priori dell’opera. Nel caso di un linguaggio di scripting o altro linguaggio interpretato, esso è ancora in un certo modo origine del processo (tramite la mediazione, ad ogni attivazione dello stesso, di un istanza traduttrice), mentre nel caso di un linguaggio compilato, esso si stacca da quella che sarà la processualità che andrà a generare l’output. Tuttavia, il codice sorgente non può essere confuso con il concetto di originale, dato che esso rimane una pura astrazione simbolica di una serie di processi che porteranno alla generazione dell’output. Esso è piuttosto origine dell’opera, la traccia della sua progettualità, una sorta di matrice da cui ricavare la stessa. Sarebbe altresì errato considerarlo alla stregua di una lastra litografica da cui ottenere un certo numero di opere, perché anche tale codice, o listato, può essere copiato in infinite istanze e distribuito, prassi seguita da diversi artisti del software sostenitori della cultura dell’open source.
Per quanto riguarda il concetto di copia, mi sembra che anch’esso vada ripensato in un simile contesto. Innanzitutto, è questo è già evidente, perché non vi è alcuna differenza tra copia e copia, con la tecnologia digitale. Ma soprattutto perché il concetto stesso di copia è alla base del funzionamento dei nostri computer: ogni volta che consultiamo un sito sulla rete, in realtà il browser ne fa una copia intera sul nostro disco, ogni volta che apriamo un’immagine essa viene copiata tra i file temporanei del sistema, ogni volta che scarichiamo un file dal web, ne facciamo in realtà una copia, e così anche ogni volta che spostiamo un file da una cartella all’altra del nostro computer. Il computer scrive e copia codice in continuazione, durante qualsiasi sessione di lavoro, anche senza che ce ne rendiamo necessariamente conto. La copia non è dunque un elemento altro rispetto alla produzione di un contenuto, ma ne fa parte in maniera intrinseca, ed è indistinguibile e inseparabile dal processo stesso.
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Resta da affrontare la questione più problematica, quella relativa alla perdita dell’aura dell’opera d’arte. Anche in questo caso, verrebbe da pensare che l’opera d’arte fatta di software rappresenti semplicemente un’ulteriore allontanamento da una concezione di hic et nunc dell’originale (concetto che abbiamo sostituito con quello di origine ) e di “testimonianza della cosa”. Un’ulteriore conferma della perdita dell’aura nell’era della tecnologizzazione dell’arte.
L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa .
Il concetto di aura espresso da Benjamin (non soltanto nell’ Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica , ma anche nei saggi Piccola storia della fotografia del 1931 e Di alcuni motivi in Baudelaire del 1939) è tuttavia più complesso e multiforme di quanto sembri; in una loro analisi del concetto di aura applicato ai nuovi media, Jay David Bolter, Blair MacIntyre, Maribeth Gandy e Petra Schweitzer dichiarano che: “Benjamin sometimes writes as if aura were a quality (almost an emanation) of an object, such as a painting. The ambiguity is apparent in the key phrase: aura is the “unique phenomenon of a distance, no matter how near.” We will argue that this tension between far and near-between the unapproachable and the approachable both at the psychological level and at the cultural and economic level – in fact insures that aura as our collective or individual reaction to art can never simply disappear, as Benjamin seems to have expected”.
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La loro analisi, rifacendosi esplicitamente in più punti ai concetti di rimediazione, trasparenza e ipermediazione introdotti da Bolter e Grusin , mira prevalentemente a rilevare la capacità di alcuni nuovi media “ibridi” come l’ augmented reality e la mixed reality di affermare ancora la resistenza del concetto di aura benjaminiana.
Secondo tale impostazione, l’aura, intesa principalmente come unicità esperienziale dell’opera d’arte, non scompare del tutto nell’era della riproducibilità tecnica, ma entra piuttosto in crisi, per ricomparire nuovamente in alcune forme di realtà mediata dal computer, che fanno avvertire al contempo la presenza e la distanza dell’oggetto rappresentato: “A media technology’s capacity to generate aura depends on the degree to which it convince the user that she is in the presence of the authentic; presence and authenticity therefore depend on assumptions that the user has about the technology. Presence is not simply a question of visual fidelity”.
La concezione di aura che emerge dalla loro analisi lega strettamente il concetto di autenticità (dell’esperienza dell’opera, oltre che dell’opera stessa) con quello di non-mediazione , o, per utilizzare il termine caro a Bolter e Grusin, di “immediatezza“. L’aura benjaminiana è vista sia come un approccio nostalgico nei confronti dell’esperienza non mediata dell’oggetto, sia, in più punti, come il senso di distanza (psicologica, culturale, economica) nella presenza, che un oggetto, non importa quanto vicino, riesce a comunicare all’osservatore. Ogni nuovo medium può allora letteralmente progettare l’hic et nunc dell’opera, la presenza dell’aura costruendo un senso di “distanza nella prossimità”, obiettivo più semplice da raggiungere, appunto, in sistemi di realtà “mista”.
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Rifacendosi ancora alla concezione bolteriana di “immediatezza”, gli autori proseguono affermando che: “Aura has not definitively decayed in the age of mechanical and now electronic reproduction. Popular film and television indicate that our culture’s desire for immediacy and therefore for auratic art remains strong. However, we can say that media forms throughout the 20 th century seem to be predicated on the possibility (the opportunity and the danger) of the decay of aura. Media forms oscillate between offering a non-auratic, reflective experience and reasserting the importance of immediacy and aura. The moment of decay never ends because each media form is constantly comparing itself with other older and newer forms. Media forms are constantly calling into question each other’s ability to represent the authentic, and these remediations raise the possibility of the decay of aura, the loss of authenticity of experience”.
Il concetto di aura coniato da Benjamin negli anni Trenta, dunque, non avrebbe perso alcuna importanza nell’era dei media digitali, ancora capaci di farci esperire una sorta di hic et nunc : esso si troverebbe invece in uno stato di continua oscillazione, e dunque di crisi. E questa stessa crisi, secondo gli autori, sarebbe una delle chiavi di comprensione dei nuovi media.
Al saggio di Bolter, MacIntyre, Gandy e Schweitzer va indubbiamente riconosciuto il merito di aver tentato di ricontestualizzare coraggiosamente la nozione di aura benjaminiana nell’ambito dell’universo mediatico contemporaneo, conferendo allo stesso termine un valore nostalgico (nei confronti di un’esperienza non mediata dell’oggetto) e dunque riattualizzabile secondo la teoria della rimediazione e la sua concezione di immediatezza. Ma L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica può portarci ancora oltre nell’analisi del particolare statuto dell’opera d’arte fatta di software.
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Ripartiamo da quello che Benjamin scrive a proposito dell’unicità dell’arte in rapporto al contesto della tradizione: “Le opere d’arte più antiche sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale”.
L’autore distingue tra valore cultuale e valore espositivo dell’opera d’arte, e segnala come la produzione artistica delle origini sia intrinsecamente legata al concetto di culto. Le prime raffigurazioni che l’uomo dipingeva sulle pareti delle caverne non erano fatte per essere viste da altri uomini, ma erano importanti in quanto semplicemente presenti. Esse erano dedicate agli spiriti, e avevano dunque qualcosa che trascendeva nella sfera del magico. La storia dell’arte viene interpretata in questo senso anche come la storia di un passaggio sempre più marcato da un’arte dal valore cultuale ad un’arte prettamente espositiva, realizzata per essere mostrata, condivisa, riprodotta. L’arte cultuale, altamente auratica , fa dell’inaccessibilità la sua caratteristica principale, dato che ad esempio «certe immagini della Madonna rimangono invisibili per quasi tutto l’anno, certe sculture dei duomi medievali non sono visibili per il visitatore che stia in basso» : è l’arte che si rivolge prevalentemente verso un altrove , che porta con se sempre qualcosa di magico, che «in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto come opera d’arte» ; al contrario, l’arte espositiva, nell’era della riproducibilità tecnica, «diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale» .
Potremmo a questo punto chiederci a che cosa possono portarci tali riflessioni se applicate alla concezione di software come arte: ad una prima lettura, verrebbe da ritenere con sicurezza che quella del software sia un’arte prettamente dotata di valore espositivo e che invece rinunci totalmente a quello cultuale. Software artistici, installazioni interattive, opere della net art, si rivolgono sempre ad un utente e anzi ne richiedono una partecipazione attiva inedita. Vengono certamente esposte, sia che si tratti di un museo che di un sito web.
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Eppure, qualcosa mi fa ritenere che oltre all’indubbio fattore espositivo vi sia una particolare forma di residualità cultuale nella prassi artistica legata al software: “Ever since computer programmers referred to written algorithmic machine instructions as “code” and programming as “coding”, “code” not only refers to cryptographic codes, but to what makes up software, either as a source code in a high-level programming language or as compiled binary code, but in either case as a sequence of executable instructions. With its seeming opacity and the boundless, viral multiplication of its output in the execution, algorithmic code opens up a vast potential for cultural imagination, phantasms and phantasmagorias. The word made flesh, writing taking up a life of its own by self-execution, has been a utopia and dystopia in religion, metaphysics, art and technology alike” .
In Words Made Flesh, Florian Cramer, da sempre interessato all’utilizzo estetico del codice come materia d’espressione, traccia un’affascinante storia del codice eseguibile e dei sistemi di computazione, analizzando i punti di contatto che il codice algoritmico dei computer mantiene con altri codici computazionali (basati su algoritmi) della storia umana, dai geroglifici egizi, ai codici magici che mirano alla trasformazione del simbolico in fisico, all’idea pitagorica di un codice matematico soggiacente al mondo sensibile, alla Cabala, alla poesia combinatoria, all’ Oulipo di Raymond Queneau.
Il fenomeno dalla computazione e l’immaginario che esso evoca è strettamente legato, dalle sue origini, ad una speculazione densa di significati metafisici e, spesso, magici. Gli algoritmi possono essere semplici strumenti computazionali, oppure possono diventare materiali di gioco e speculazione estetica, magia e trasformazione del simbolico in fisico. È computazionale sia il lavoro misterioso della natura secondo il pensiero pitagorico (“codice sorgente” del mondo basato su principi matematici), che l’opera di Dio secondo la Cabala (nella teoria della creazione divina secondo la combinazione delle lettere del nome di Dio) . È computazionale la formula magica (Cramer nota come le parole hocus pocus derivino dalla formula cattolica hoc est corpus meum). Sono computazionali i metodi di generazione semantica del Lullismo e dell’intelligenza artificiale, sono computazionali (e fortemente basati su una concezione “magica” del linguaggio) gli esperimenti poetici di Brion Grysin e William Burroughs.
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L’idea alla base del pensiero di Florian Cramer è che il codice informatico, e dunque il software dei computer, sia erede di una tradizione che mescola razionalismo e speculazione, calcolo e magia, e che dunque la sua percezione non può essere slegata da questi fattori, che fanno parte della sua natura di codice algoritmico. A proposito della “Parola fatta carne”, riferendosi esplicitamente ai primi versetti del Vangelo di Giovanni, Cramer ricorda che: “This figure of thought, of a speech act that affects physical matter instantly and directly, is magical in its root. Material creation from the word is an idea central to magic in all cultures. It is precisely what magic spells perform. Magic therefore is, at its core, a technology, servine the rational end of achieving an effect, and being judged by its efficacy. [ ] The technical principle of magic, controlling matter through manipulation of symbols, is the technical principle of computer software as well”.
Così come l’esecuzione orale della formula magica trasforma il simbolico in fisico, e lo pone dunque in atto, allo stesso modo l’esecuzione del codice macchina da parte del processore trasforma la formula algoritmica (programma) e la attualizza (output). In entrambi risiede la potenza creativa del codice, che la computazione trasforma in qualcosa di diverso.
La programmazione potrebbe dunque essere interpretata (e spesso, nella vulgata comune, lo è davvero) come scrittura di una formula magica. In fondo, la scrittura stessa è legata al concetto di magia, come ricorda Walter J. Ong:
“Writing is often regarded at first as an instrument of secret and magic power. Traces of this early attitude toward writing can still show etymologically: the Middle English ‘grammarye’ or grammar, referring to book-learning, came to mean occult or magical lore, and through one Scottish dialectical form has emerged in our present English vocabulary as ‘glamor’ (spell-casting power)”.
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Se dunque il lato visibile del software, l’output che ne viene generato (la “carne” secondo Cramer), è indubbiamente legato a quello che Benjamin definisce il valore espositivo dell’opera d’arte, gli aspetti nascosti, legati alla programmazione (scrittura) e alla computazione (esecuzione) del codice, mi sembrano innegabilmente dotati di un particolare valore cultuale , e dunque portatori di una forte aura.
La prassi della programmazione, dopotutto, è sempre stata profondamente auratica e associata a forti simbologie cultuali: contro la concezione di quella che veniva definita computer priesthood (la tendenza a tenere oscuri i lati della programmazione e del funzionamento delle macchine) si schierò ad esempio Theodor H. Nelson nel 1974, con il seminale Computer Lib/Dream Machines, che si proponeva di democratizzare l’accesso alla tecnologia e di liberare il rapporto uomo-computer da tale oscurantismo: Man has created the myth of “the computer” in his own image, or one of them: cold, immaculate, sterile, “sceintific”, oppressive. Some people flee this image. Others, drawn toward it, have joined the cold-sterile-oppressive cult, and propagate it like a faith . Anche in questo caso, il ricorso alla parola “fede” è indicativo del forte valore auratico (connotato da Nelson in maniera univocamente negativa, e dunque da combattere per “liberare” il medium) associato alla tecnologia; sembra a questo punto evidente che il computer come macchina computazionale performativa in grado di mettere in atto il simbolico, ricolloca con forza la teoria benjaminiana all’interno della dialettica codice/output, macchinico/umano, magico/razionale.