Scanner è, sin dagli esordi, un’artista inclassificabile nel fitto panorama della creatività elettronica. Robin Rimbaud è conosciuto infatti nel mondo della musica elettronica di qualità, ammirato anche dal suo stesso padre spirituale Karlheinz Stockhausen, ma da sempre si muove nel fertile terreno di contaminazione delle nuove tecnologie e delle potenzialità offerte dai mezzi di espressione elettronica e dei media integrati.
Tutto il suo mondo Scanner lo ha costruito attorno al suo stesso nome, mantenuto sin dagli esordi nell’ormai lontano 1995. Per Robin Rimbaud lo scanner è dichiaratamente uno strumento, un mezzo per comunicare, un artificio elettronico in grado di captare voci e dialoghi di persone sconosciute, che ci circondano, che vivono dove noi stessi viviamo, che respirano, si emozionano, comunicano, amano e odiano come noi stessi facciamo. Tutto ciò ha portato Robin a collaborare con entità e mondi tra i più diversi, con una fertilità e una rigore progettuale che pochi possono vantare. Da video artisti ad architetti, da coreografi a designer, in molti hanno avuto desiderio di costruire ambientazioni sonore grazie al contributo di Robin. Alla base l’integrazione tra diverse discipline digitali e analogiche, dall’urbanistica alla musica elettronica, dal design alla video arte, dal sound design alle installazioni e ai live media.
Dal compositore Jean Paul Dessy al fashion designer Hussein Chalayan, Scanner ha elaborato lavori di Salvatore Sciarrino e ha collaborato con gli italiani Alter Ego, ha sonorizzato le immagini di Michelangelo Antonioni o di Jan Luc Godard e ha preparato la sigla della nuova Comunità Europea, ha collaborato con il video artista Edith Garcia e con altri artisti visuali per installazioni audio-video in giro per il mondo (molto noto il lavoro con il regista sperimentale Steve McQueen per l’opera Gravesend presentata alla 52ima Biennale di Venezia).
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Photo by: Diana Bier
Scanner ha inoltre lavorato al fianco di coreografi come Wayne McGregor o Daniel Larreu e ha esplorato i lavori di Andy Warhol, ha preparato diverse sonorizzazioni urbane e si è occupato di sound toys con l’amico Richard Tonne. Da molte delle sue opere sonore sono nati veri e propri dischi, da solo o in collaborazione con altri artisti, dai lavori con Stephen Vitello (con cui ha firmato la prima opera di sound-art mai commissionata dalla Tate Modern di Londra), Kim Cascone, Alva Noto e DjSpooky alle intriganti sound polaroids sempre con Richard Tonne, dove ambiguo diventa il confine tra la rappresentazione sonora delle immagini e l’intepretazione visiva dei suoni. Per concludere con le collaborazioni più recenti, da quella con il multimedia artist italianoTez (con la bellissima performance multischermo Blindscape) alle colonne sonore scritte per le coreografe Christin Bastin e Shobana Jeyasingh al più recente progetto . I suoi lavori sono stati esposti e rappresentati al Centre Pompidou di Parigi, alla Kunsthalle di Vienna, alla Royal Opera House e alla Tate Modern di Londra e al teatro Bolshoi di Mosca.
Insomma Scanner non si risparmia: ha curato la mostra Mobile presso l’Espace Landowski di Boulogne nel 2006 e ha diretto il progetto Night Jam con i bambini dell’Horizon Youth Centre di King’s Cross a Londra, per comprendere come, attraverso l’isegnamento per mezzo di una serie di workshop su musica e voce, i bambini potessero esprimere come la città di notte appare e si sente ai loro occhi e alle loro orecchie. Robin è anche membro del Free103 point9, organizzazione no-profit di media artisti con lo scopo di promuovere le innovative Arti di Trasmissione e non gli manca il tempo per collaborare alla newsletter londinese Kulture Flash.
Ricordare tutte le collaborazioni e i progetto in corsi di Robin Rimbaud è impresa realmente impossibile, le mostre a cui ha partecipato un lavoro di ore e ore di intervista che nessuno forse farà mai. Il consiglio in fondo è quello di seguire da vicino la sua continua attività in Rete, attraverso il suo sito/blog e la sua newsletter. Altro indizio ineluttabile della necessità di Robin di comunicare con le persone che lo amano e lo seguono, in ogni angolo del pianeta da casa propria: io ho il piacere di essere suo amico e francamente la sua ironia e la sua visione ironica e mai banale del mondo dell’arte contemporanea e della musica elettronica moderna sono per me un elemento di confronto sempre importante.
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Marco Mancuso: Robin, incominciamo a capire da dove arriva il tuo nome d’arte. Più che altro vorrei sapere dalla tua voce perché hai iniziato a usarlo all’inizio della tua carriera e in che modo lo scanner rappresenta per te uno strumento per comunicare in un’era in cui la Rete sembra aver soppiantato fagocitato ogni altra forma di comunicazione digitale
Beh, sicuramente è curioso il fatto che quando si fa musica bisogna avere necessariamente un’altra identità, sia che si chiami Franz Ferdinand, che Oasis o Autheche o Aphex Twin. C’è sicuramente qualcosa di curioso nella necessità di usare un’altra identità e questo è qualcosa che esiste non solo nella musica ma anche nella letteratura, succede da centinaia di anni. In Inghilterra per esempio, George Eliott è un esempio classico, di cui non si è mai saputo se fosse maschio o femmina. Io personalmente ho usato molti nomi nel corso degli anni e inoltre ho un nome francese che spesso per le persone è piuttosto difficile da assimilare: io mi chiamo Rimbaud capisci? Per cui in francese “je m’appelle Robin Rimbaud” suona anche bene, ma in inglese spesso la gente sbaglierebbe il nome, non saprebbe come pronunciarlo, quindi Scanner è sicuramente perfetto. Ho iniziato quindi questa parte della mia carriera utilizzando per l’appunto uno scanner telefonico: cioè che mi piace e mi affascina di questa macchina è l’abilità di catturare i suono che ci circondano, la capacità di raccogliere suono in un raggio di 1 Km come un ricevitore radio. Ho trovato questa idea molto eccitante sia psicologicamente che creativamente, la capacità cioè di entrare improvvisamente negli spazi in un modo che normalmente non è possibile agli esseri umani, entrare nella conversazione privata tra due persone. Per me lo scanner è lo strumento perfetto perché mi consente di disegnare delle narrazioni, suoni e storie dalle città nelle quali mi capita di lavorare. Questo mi consente di far sì che i miei live e i miei lavori siano diversi sempre gli uni dagli altri, nel momento in cui il materiale di partenza proviene da luoghi e momenti completamente differenti
Marco Mancuso: Quindi lo scanner è per te quasi uno strumento per creare un ponte di comunicazione tra il materiale da te registrato e rielaborato per l’ascolto di un pubblico di volta in volta diverso.
Sì, per me è essenziale comunicare idee, storie, emozioni e narrazioni.
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Marco Mancuso: Ti chiedo questo perchè purtroppo non è molto frequente, nel mondo della musica elettronica, trovare artisti anche molto conosciuti e considerati, che abbiano realmente qualcosa da dire non solo sulla loro musica ma sulle loro emozioni e idee.
Sì, come ti dicevo è importante per me avere delle idee e condividerle, un processo che potrebbe facilmente essere definito come “intellettuale”: mi piace fare progetto che siano pubblici, coinvolgere il pubblico e avere un dialogo con esso. Lavoro da quasi 15 anni come Scanner e il modo di lavorare è piuttosto semplice: lavoro con le persone che mi piacciono, in situazioni che mi piacciono, non lavoro in posti in cui non mi sento felice con le persone, e nemmeno su progetti commerciali. Non mi interessano. Effettivamente nel mondo dell’elettronica troppo spesso ci si sofferma a parlare su quale è il prossimo disco o il prossimo progetto, mentre effettivamente a me piace parlare di idee e concetti, soprattutto quelli che attraversano i confini tra musica, cinema, architettura e moda.
Marco Mancuso: Riguardo alla tua musica, mi ricordo una volta di aver letto da qualche parte che tu dicevi che la tua musica vorrebbe comunicare soprattutto solitudine. Contrasta molto questo concetto con l’immagine di te e il tuo modo aperto e sincero di relazionarti alle persone
Penso che ci siamo molte idee diverse che mi piace comunicare con la mia musica: il concetto di comunicazione tra le persone, il dialogo tra il bene e il male delle nuove tecnologie, cosa ci offrono e cosa ci tolgono, come consentono una connessione tra le persone in diverse parti del mondo e come però questo ci disconnette a volte dalla realtà. Voglio lavorare in modo tale da colpire emozionalmente le persone e colpire al cuore, essere quanto più emotivo possibile. Quello che realmente mi interessa è di agganciare le persone e scuoterle in un certo modo, per dare loro un responso emotivo con la mia musica. Voglio costantemente creare musica allo scopo che le persone possano dire “Dio, questa cosa mi ha veramente colpito, mi ha fatto immergere nel suo mondo per un momento. Voglio fare qualcosa che sia bello, elegante e bello .
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Marco Mancuso: Secondo te quindi perchè molti ti considerano un po’ un’intellettuale nel mondo della musica elettronica moderna?
Proprio perchè parlo di idée e, tralasciando ogni commento sul mio talento come musicista o artista, ho penso l’abilità di parlare e condividere concetti e progetti, ed è per questo che collaboro piuttosto frequentemente con altri artisti. Ho lavorato con musicisti, video artisti ma anche con fashion designers, compagnie di danza, compagnie di teatro, gallerie e musei. Tutte queste persone non mi hanno mai visto come un musicista che arrivi ad illustrare qualcosa, ma come qualcuno che fa parte di un team di persone; questo è la modalità con cui gran parte del mio lavoro funziona
Marco Mancuso: Ti consideri più un musicista elettronica o un compositore contemporaneo? Penso che al giorno d’oggi sia una distinzione che vale la pena di fare in maniera sempre più chiara, anche per non perdere di vista un percorso preciso fatto da alcuni artisti come te nell’epoca della sovrapproduzione e distribuzione di musica elettronica e digitale
Beh, penso che attualmente io non sia nessuno dei due. Ho lavorato con gli italiani Alter Ego piuttosto spesso e sulle musiche del compositore Salvatore Sciarrino, così come con altri musicisti contemporanei. Ma ad essere sincero tendo a rifiutare la chiusura in parametri definiti: io uso l’elettronica, uso strumenti reali, suono la chitarra, il pianoforte, so leggere la musica. Sin dai miei esordi i critici musicali trovavano tutto questo piuttosto problematico, proprio perché non erano troppo sicuri di dove collocarmi. Ma per me non fa molta differenza, io cerco comunque di fare il mio lavoro in modo che abbia senso per me e di convogliare le mie passioni verso il pubblico, sia che si tratti di musica elettronica, classica, contemporanea o come la vogliamo chiamare. La difficoltà con e categorizzazioni è che sono molto utili quando si va in un negozio di dischi, ma altrimenti annoiano.
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Marco Mancuso: Quali direzioni sta prendendo la musica elettronica oggi, dall’alto della tua esperienza e della tua frequentazione di festival e artisti in tutto il mondo? Senza cadere in facili luoghi comuni, è oggettivamente vero che la musica elettronica e digitale vivono un momento in cui è sempre più raro individuare lavori che si differenziano qualitativamente dalla massa dell’iper-produttività attuale
Beh, penso che la cosa più eccitante in assoluto sia di non sapere cosa accadrà innanzitutto a me. Qualcosa per esempio che trovo vibrante è la pop musica, sempre capace di reinventarsi: è qualcosa di cui non mi capita di parlare spesso perché io sono coinvolto in tutte quelle forme più serie di arte e musica. Ma trovo che la pop music, nel suo uso di strumenti tradizionali come le chitarre o la batteria, sia sempre capace di trovare strade nuove e originali anche quando pensi che sia ormai esaurita. Per quanto riguarda la musica elettronica sono d’accordo con te: al momento si è un po’ chiusa in un angolo, forse dovrebbe fermarsi un secondo e ripensare i suoi processi. Penso che uno dei principali problemi è la facile disponibilità di softwares che consentono di fare musica, che per l’appunto non vuol dire sempre buona musica. Il software spesso lavoro nell’ottica di creare o prendere un suono o un loop che si pensa possa funzionare, a cui segue un secondo suono e quindi un terzo suono, fino ad avere in mano 3 suoni da modulare e montare fino a quando si è convinti che il pezzo sia finito con essi. Ma alla fine cosa si è fatto? Si sono scelti 3 suoni, come un curatore da una palette di strumenti e opzioni.
Marco Mancuso: Cosa puoi dirmi invece della tua sterminata produzione discografica?
Sì, ci sono sempre troppi nuovi dischi in lavorazione. Realizzo effettivamente molti dischi in un anno, è molto stupido. Ogni anno produco 6 o 8 albums che sono effettivamente più una sorta di documentazione di ciò che sono i miei lavori e le mie collaborazioni. Non penso di ricordarmi nemmeno tutto quello che ho prodotto e che è stato pubblicato come disco: pensa che una volta sono stato invitato a un matrimonio in Olanda e ho creato la colonna sonora per il matrimonio, una cosa molto romantica per un amico. Ecco, anche quella colonna sonora è diventata un disco con un titolo lungo e ridicolo non me lo ricordo nemmeno, ah sì The Radiance Of A Thousand Suns Burst Forth At Once.
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Marco Mancuso: A fianco di tutta la tua sterminata produzione musicale ci sono anche molti progetti che coinvolgono la compenetrazione di suono e immagine, così come anche dei progetti in rete
Sì, ho lavorato a questo progetto chiamato Double Fold a Lubiana: il progetto prende forma da un archivio che alimenta un film su internet della durata di 10 minuti, che si può vedere online ma a cui si può contribuire con materiale che si può inserire all’interno dell’archivio stesso. Il progetto tratta della cancellazione della storia ad opera della tecnologia digitale e si completa attraverso una performance audiovideo in cui la parte audio è composta da me. L’idea è molto semplice ed è appunto collegata a come sono cambiate le biblioteche e gli archivi negli ultimi anni. Dappertutto si stanno digitalizzando tutte le biblioteche e le si stanno portando online, non si comprano più libri, si gettano via i giornali e quindi in un certo qual modo stiamo perdendo la nostra storia. Stiamo perdendo il vero feeling che ti può dare un giornale o un libro, considerando che la carta esiste da secoli, da molto prima che la tecnologia digitale fosse solo immaginata.
Marco Mancuso: E’ da poco morto Karl Heinz Stochausen, so che per te è sempre stato un punto di riferimento importante. Ci puoi raccontare come eri entrato in contatto con lui?
Beh, avevo registrato una trasmissione per la BBC radio e avevo fatto un’intervista con lui in cui parlava della musica contemporanea, citando artisti come Aphex Twin, Plastic Man e qualcun altro di cui non ricordo, circa 10 anni fa, e me. Mi mandò un cd in cui c’era scritto che gli piaceva il mio lavoro, che era veramente dolce, e mi faceva molti complimenti: mi diceva che capiva la direzione nella quale stavo lavorando, che avevo bisogno di sentire le sue cose per rilevare delle affinità. E’ stato per me come una specie di padre, una figura sicuramente eccentrica. Non ho mai collaborato con lui purtroppo, ma è stato un momento molto importante per me, sia quando facemmo l’intervista che la sua successiva lettera.