C’è da scommetterci. Non appena si diffonderà la voce, attraverso i consueti canali tipo mailing lists di riferimento, passaparola, festival internazionali, interviste da parte del critico e curatore d’arte prezzolato di turno, infinite saranno le lodi che si sprecheranno per Software Art Space (www.softwareartspace.com), seconda operazione (ma esistente già da almeno un anno e mezzo) del furbissimo Steven Sacks, fondatore della galleria Bitforms di concezione digitale ma con (micro) sede fisica e concreta a New York. La stessa città e lo stesso quartiere, Chelsea, in cui uno stuolo apparentemente infinito di gallerie e spazi espositivi di arte contemporanea sembrano fare a gara per essere parte del quel quadrilatero di 4 avenue e 5 streets che determina i destini del mercato internazionale dell’arte.

Perché è inutile prendersi in giro, inutile raccontarsi la favola che a fianco delle lodi ci saranno anche le critiche e le perplessità: le critiche, quelle vere, sono dure e dirette, non fiancheggiamenti ludici dell’ordine costituito. E allora la domanda immediatamente successiva è: perché un progetto che si prefigge l’ambizioso compito di diffondere la software art alle masse (ricordiamo che Sacks è stato definito da una rivista autorevole come Wired “colui che porta la software art alle masse”) è di par suo criticabile? Bene, cercheremo di spiegare il perché analizzando il progetto sotto diversi punti di vista.

Direi che il punto di partenza potrebbe essere la natura stessa del progetto, la sua anima portante. Se l’ambizione è quella di rendere la software art accessibile al grande pubblico, mi chiedo innanzitutto come, secondo Sacks, sia possibile ottenere un risultato simile attraverso gli strumenti tecnologici attualmente in commercio e i mezzi di fruizione dedicati a tutto ciò che è contenuto multimediale: grafica, suono, immagini e interattività.

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Analizzando il progetto, si capisce infatti immediatamente che l’ingegnosissimo device tecnologico necessari per fruire delle opere della Galleria, prevede la presenza di un pc in salotto o in camera da letto o in bagno magari, un mouse wireless ergonomico o un più pratico touch screen del tutto reperibile dal primo rivenditore sotto casa e ovviamente il cd/dvd in cui è installato l’eseguibile dell’opera di software art in questione. Forse qualcuno dovrebbe superare il mio scetticismo e convincermi del fatto che un numero elevatissimo di persone in tutto il mondo deciderà da domani di comprare online un’opera di Golan Levin, di Casey Reas o di Lia e di esporla in casa sua, giocando ogni tanto con l’interattività e la generatività del progetto. Questo tipo di fruizione ignora la generale tendenza degli addetti ai lavori per i quali i prodotti audiovisivi e interattivi in genere, garantiscono scarso coinvolgimento emotivo all’interno delle mura di casa propria, nella propria quotidianità, quando viene meno il momento dell’esperienza diretta e del rapporto interattivo con la tecnologia e l’immersività sensoriale che essa può e deve determinare.

E per tutti coloro che si facessero per caso sedurre dall’aurea mecenatista di qualsivoglia progetto che cela dietro all’utopia della diffusione orizzontale dell’arte digitale una vera e propria opera di commercializzazione della new media art stessa e poco più, ricordiamo che ciascuna di queste 10 opere messe in catalogo nel progetto Software Art Space costa una cifra esattamente pari a 150 Euro.

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Ora, si potrebbe come sempre discutere su “chi decide” quali artisti guadagnano il riconoscimento ufficiale da parte dei critici e dei curatori internazionali “che contano”: Con tutto il rispetto per i pionieri chiamati all’interno di Software Art Space, alcuni dei quali conosco di persona e stimo a livello professionale e umano, alcuni progetti sono proprio mediamente scarsi, conoscendo la qualità dei lavori in circolazione e il valore degli artisti stessi. Il livello delle opere proposte mi fa riflettere anche sulla scelta curatoriale o quanto meno sul rapporto artista-gallerista, distante economicamente e culturalmente dall’ oceano di artisti digitali e software artists che quotidianamente lavorano cercando il giusto compromesso tra arte, tecnologia, sperimentazione e comunicazione. Questa generazione di artisti alimenta e rende vivo il circuito underground. E’ questo il campo nel quale si fa oggi la vera sperimentazione, l’anima vitale e portante dell’arte elettronica a discapito di qualsiasi tentativo spasmodico di una sua “ufficializzazione” e “riconoscimento”.

Altra cosa che francamente sorprende è la scelta del “costo” commerciale dell’opera. 150 Euro non sono niente al giorno d’oggi nel ricco e consumista mondo occidentale; quale nobile valore viene quindi mai dato all’opera digitale in questione? E’ da anni che una certa parte di coloro che lavorano nel circuito dell’arte contemporanea cerca un compromesso e un dialogo tra questo mondo e quello dell’arte elettronica di generazione underground. O viceversa. A questo scopo si decide di mutuare una delle pratiche basilari del mercato dell’arte e di applicarle alla sperimentazione digitale: si stabilisce il prezzo di un’opera e il valore culturale di un artista viene tradotto in valore monetario .

Il dubbio fondamentale su un’operazione del genere è però: far entrare la software art nei circuiti dell’arte mainstream significa necessariamente tradurre in cifre e quotazioni il lavoro dei suoi artisti, a discapito dell’identità di questa forma d’arte? L’equivalenza opera=denaro è davvero un procedimento al quale non si può rinunciare nell’avvicinare la software art (come altre forme di arte elettronica naturalmente) al grande pubblico?

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Ma dando anche per scontato che questo sia un procedimento irrinunciabile e che il grande pubblico drizzi le antenne solo davanti a un’opera che abbia un prezzo, ci si chiede: come mai i lavori potenzialmente migliori dei più conosciuti artisti a livello internazionale di una delle branchie più attive dell’arte digitale, vengono valutati a cifre assolutamente irrisorie? Mi sembra che l’operazione di Sacks dovesse e potesse avere ben altre prospettive e ambizioni. O forse, mi deve nascere il sospetto che produrre 5000 pezzi di un’opera e venderla a 150 Euro, per 10 opere presenti, costituisca una mera forma di guadagno a discapito di un discorso molto più ampio e generale che riguarda la commercializzazione, l’esposizione, la diffusione e la conseguente sopravvivenza di artisti, curatori e professionisti che lavorando nel mondo della new media art oggi, senza grandi disponibilità economiche, per usare un eufemismo?

Stabilire un prezzo di 150 euro per opere che dovrebbero permettere l’ingresso della software art all’interno di un circuito, quello del mercato dell’arte e delle gallerie, abituato a ben altre cifre, non mi sembra proponga al grande pubblico una percezione delle opere come esempi rappresentivi e selezionati di un processo culturale in atto, quello della creazione digitale nel campo dell’arte contemporanea. Il rischio probabile è che il mercante d’arte o il gallerista che decideranno di acquistare una delle opere proposte da Software Art Space, non avrà la sensazione di aver acquistato un lavoro rappresentativo di un settore dell’arte contemporanea, software art, bensì un buon prodotto (forse) ad un prezzo conveniente.

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Si tratta di una mera legge di mercato: un prezzo mediocre come quello proposto da Steven Sacks non rappresenta una quotazione e quindi non si inserisce nel mercato dell’arte contemporanea, non attribuisce ai lavori l’identità di opera d’arte, bensì di prodotto di consumo. L’operazione di Sacks risulta estremamente ambigua: se da una parte il fatto stesso di dare un prezzo pone una distanza tra Software Art Space e i circuiti underground, allo stesso tempo il valore economico attribuito alle opere non è sufficiente a decretarne l’ingresso nel mondo dell’arte contemporanea. Se il processo di attribuzione di valore culturale non sembra riuscito, o comunque poco leggibile, rimane il dato oggettivo: ogni opera è un prodotto in vendita su un sito, da comprare e consumare sul vostro pc.

Chiaramente è immediato pensare che molti altri software artists a livello internazionale si lasceranno affascinare dal progetto di Sacks, che la chimera del guadagno su larga scala è ben chiara e luminosa, soprattutto per una generazione di pionieri che ha fatto precise scelte anche economiche nella propria vita, affidandosi a una forma d’arte e di comunicazione che si sta affermando proprio in questi anni e all’interno di un contesto senza un mercato e una distribuzione strutturata. E da questo punto di vista, capisco e accetto il progetto Software Art Space di Steven Sacks.

Dall’altro mi chiedo quale futuro possa avere un’operazione di questo tipo, quale senso possa assumere nel contesto più ampio della distribuzione e commercializzazione della new media art, quale il suo valore culturale.

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Pongo a me stesso queste domande avendo forse già una risposta, pongo a chi è arrivato fino a qui a leggere gli stessi quesiti. Mi chiedo cosa ne pensano le centinaia di artisti che lavorano con il codice in tutto il mondo, che sperimentano, che si sporcano le mani, che tentano di capire come fare della loro arte una fonte di vita e di minimo guadagno. Mi pongo queste domande e spero con tutto il cuore che qualcuno abbia delle risposte per me. Forse lo stesso Steven Sacks, mi riprometto di contattarlo. Ma risposte so che non ce ne sono, solo opinioni diverse e differenti territori artistici e professionali, differenti interessi e modi di vedere le cose.

Però forse vale sempre la pena aprire gli occhi e dare spazio al dubbio, rimanendo aperti e solleciti a un cambio di opinione…o alla sua estrema radicalizzazione.


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