Il New York Times ha recentemente scritto: “Pioniere della video arte e della performance post-minimalista e scultore dalla versatilità apparentemente illimitata, Nauman è famoso e ammirato in modo controverso fin dalla prima entrata in scena […] e il suo lavoro esplica da sempre un’importante influenza sull’arte contemporanea.”

I riconoscimenti si sprecano quando si parla di lui, Bruce Nauman , l’artista vivente per eccellenza, nato il 6 dicembre 1941 a Fort Wayne in Indiana, e subito incontrastato fulcro centrale delle prime luci elettroniche, quando la sperimentazione aveva ancora fame e i vari Wolf Vostel, Nam June Paik, Allan Kaprow o Giaccari andavano a braccetto fra circuiti chiusi, portapak e nuovi broadcast.

Una rosa non ha denti: Bruce Nauman negli anni Sessanta, mostra unica nel suo genere che è stata inaugurata il 22 maggio al Museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli e che chiuderà i battenti il 9 settembre, ci proietta nella più completa retrospettiva dedicata agli esordi dell’artista, con opere mai viste prima in Italia, spesso connotate da una valenza postdadaista, sulle traccie di Duchamp e Man Ray . “Il suo primo lavoro che adotta il linguaggio verbale – spiega la curatrice della mostra Constance M. Lewallen – ispirato alla lettura delle Investigazioni filosofiche di Ludwig Wittgenstein – è una targa di piombo cilindrica che doveva essere esposta all’aperto, a contatto col tronco di un albero il quale poi crescendo l’avrebbe via via avvolta con la corteccia”.

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Non è un caso che Nauman abbia partecipato alla mostra alla Leo Castelli Gallery a New York nel 1969 dove espose l’ormai celebre Video Corridors e alla “conceptual art arte povera land art” svoltasi presso la Galleria civica d’Arte Moderna di Torino nel 1970 a cura di Germano Celant. Gli inizi sono questi, arte povera e concettuale, che ben presto lascia superando il formalismo dominante della Pop Art e del Minimalismo; si dedica alla sperimentazione con la scultura e la performance e collabora con William Allan e Robert Nelson a progetti di film. Nauman poi sarà invitato a tutte le più significative esposizioni di anti-form e arte concettuale come Eccentric Abstraction (1966), Prospect 68 (1968), When Attitudes Become Form (1969), e 9 at Castelli (1969). La conferma del successo internazionale si ha nel 1972 quando il Los Angeles County Museum of Art di Los Angeles e il Whitney Museum of American Art di New York gli dedicano una personale, la prima organizzata da musei, che viene presentata in diverse sedi negli USA e in Europa.

La mostra rievoca gli anni trascorsi da Nauman nella zona della Baia di San Francisco, ed espone più di 100 opere fra disegni, fotografie, film, video, installazioni performative e libri d’artista. In questi anni l’artista spesso usa ironia e gioco di parole, partecipazione e reazione del pubblico, iniziando plasmando creta e poliestere, calchi e sculture con tubi al neon arrivando alle prime videoinstallazioni e performance fruibili. Proprio i videoambienti, come Video Corridors del 1970 nati per stimolare reazioni sensoriali nel visitatore e fagli prendere coscienza in modo inedito della propria identità fisica e della realtà circostante, sono le opere conclusive di questo percorso ma da dove rinascerà una nuova percezione dell’arte negli anni settanta. In queste opere dove lo schermo-specchio si trasforma nel catalizzatore di un’esperienza sconcertante attraverso il circuito chiuso, il fruitore non riconosce più la sua immagine ma quella dell’altro, un’immagine di se stesso che non ha mai sperimentato in natura, e per questo la simula secondo una logica televisiva. Da qui i lavori di Dan Graham e Peter Campus, di Giaccari o Grifi. “Innestato nel circolo chiuso del ready-made, il video libera e rivitalizza le tecniche espressive dell’happening, della performance, dell’environment. Basti pensare a quanto Paik stesso fece con Charlotte Moorman […] in cui musica e desiderio, tecnologia e corpo, video e violoncello, intrecciandosi e rilanciandosi reciprocamente, comunicavano messaggi molto più che visivi, molto più che metaforici. […] Più che dalle forme, Nauman è colpito dalle proprietà degli oggetti, dalle funzioni della lingua […] cioè il suo interesse è tutto per il dispositivo.” (L.Valeriani, 1999)

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Ricordiamo ora Beckett Walk o Slow Angle Walk del 1968, un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore. Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori” (V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore , in Dal vivo , 1996)

In Art Make-up , quattro proiezioni su altrettante pareti registrano l’azione dell’artista che si colora il corpo; ecco una delle prime videoinstallazioni spaziali. È una stanzina tutta bianca dove risuona in modo ossessivo questa frase: “Esci dalla mia mente. Esci da questa stanza”. Tra i lavori con scritte al neon vanno segnalati almeno il gioco alternato delle parole War/Raw (guerra rozza), di forte contenuto politico, e la famosa dichiarazione che si sviluppa a spirale, ironica e profetica, “Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche” . Nauman decostruisce il linguaggio, svelandone le fragilità. Lo spettatore è sollecitato a reagire alle sollecitazioni ambientali create dall’artista, attratto dalle potenzialità del corpo nella società tecnologica: “L’opera di Nauman – infatti – non è fatta per essere contemplata o per emozionare, ma per agire come uno strumento di comunicazione, un medium che crea contatto mentale e simbolico tra artista e pubblico, anzi tra soggetto e soggetto, tra io e tu”. (Eduardo Cicelyn)

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Sono gli anni della rivoluzione tecnologica, presa da Nauman al balzo se vogliamo, e rimodellata secondo prospettive inusuali per l’attenzione del periodo, video e scultura in un’unica sembianza, installazione ed happening in tutt’uno; e l’accento è posto sulla “registrazione” in diretta anche di fenomeni performativi. Cosi la differita sarà un’alleata da maneggiare con cura anche per Otto Piene, Allan Kaprow o Stephen Beck . Così come per Adrian Piper in Catalysis III del 1970; l’artista   crede che l’oggeto artistico ­materiale o concettuale – nel suo asunto di separazione e stailità non possa più entrare in relazione con l’inquietudine sociale. Realizza alcune performance che cercano di smembrare la loro relazione con il quotidiano. In Catalysis III dipinge i propri vestiti con una pittura bianca, e indossa una targa con scritto “vernice fresca”, cammina per strade affollate e fa acquisti, una paio di guanti e degli occhiali da sole.   Yoko Ono in Cut piece , del 1964 stava seduta impassibile sul palco mentre alcune persone dal pubblico erano invitate a tagliare dei pezzi dal suo vestito, fino a rimanere quasi nuda; Gino de Dominicis quando nel 1969 gettando sassi nell’acqua cercava di fare quadrati anziché cerchi.  

E ci sarebbero in primis anche i vari Isamu Noguchi, Alex Hay, Rauschenberg e Yvonne Rainer i quali verso la metà degli anni sessanta sposarono la teatralità performativa ottenendo una “separazione tra oggetto scultoreo da una parte e i pregiudizi che lo spettatore poteva ancora nutrire sul proprio sapere dell’oggetto e di se stesso dall’altra. […] L’essenziale era di cogliere che il tipo di teatralità che si trova in Nauman è alla base delle questioni sollevate dal loro lavoro scultoreo. […] Fried affermava che la teatralità rovina necessariamente la scultura, che confonde il suo essere specifico, che mina l’idea stessa di un significato propriamente scultoreo…[…]

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La scultura di cui sto parlando si nutre al contrario della convinzione che ciò che era non basta più, perchè poggiava su un mito idealista. Cercando di scoprire ciò che è, o almeno cosa può essere, la scultura si è servita del teatro e in particolare del suo rapporto con il contesto dello spettatore come di uno strumento per distruggere, indagare e ricostruire.” ( Rosalind Krauss, 2000)