Bisognerà aspettare il 23 Novembre prossimo prima che occhi a mandorla straripanti di tradizioni popolari orientali, ma anche aperti al “nuovo” occidentale nella Pechino dei nuovi venti culturali ed artistici multietnici e multisociali, possano ammirare il lavoro forse meno “convenzionale” e più sorprendente del gruppo fiorentino Kinkaleri.

Bisognerà aspettare un evento come Anno dell’Italia in Cina ed entrare all’ Oriental Pioneer Theatre per valorizzare e confermare talenti spesso non “pesati” abbastanza in patria, per ritrovare l’unico posto dove stare: – premio UBU nel 2002 come miglior spettacolo di teatrodanza dell’anno. Fuori dagli schemi della drammaturgia dunque, dagli archetipi dei generi, fuori dall’indicibile e dall’innominabile, ci si ritrova dentro una performance in oscillazione fra comicità e caduta della stessa, fra puro sarcasmo e pura solitudine, fra coreografia coordinata ossessivamente e assenza-essenza della scena orizzontale come puro punto fermo. Siamo oltre il soggetto, oltre la parola e gli sguardi, oltre il quotidiano e il gusto per i codici e le convenzioni; oltre il teatro, cosa resta? Niente se non il già visto e il già assimilato.

Siamo oltre la Muraglia, quella scenica, quella dei particolari, quella della memoria. Oltre la Muraglia dell’estetica e della cosiddetta modernità autonoma dell’arte, oltre la Muraglia dei linguaggi formali e anche di quelli in progress dell’avanguardia multimediale; oltre la Muraglia Cinese, come metafora ridondante ma funzionale, pesante e antica nella visione collettiva, ma trasfigurabile quanto basta per capirci, per arrivarci, per oltrepassare i “confini” della messa in scena.

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Scena “riempita” per più di un’ora da entrate e uscite, da balletti ed elementi ginnici, da camminate e silenzi, da cadute immobilizzate. Lentamente, organizzato, potrei dire matematicamente sondato. Risate e fermo immagine nel pubblico che decide l’iter, moltiplicatore attivo come un registratore umano, custodendo in memoria canzoni dalle cuffie, il bere e il mangiare, lo stendere una coperta e il portare in scena una tenda da campeggio. E ancora besciamella, barattoli di miele per vomitare, pacchi di farina per esplosioni artificiali, nastri adesivi per restarci in equilibrio, e poi chissà, assomigliare a dei morti. E poi biscotti, ovomaltina, torte alla panna e lattine di birra, latte e tonno, incroci e sensi unici per segnare il percorso della nostra civiltà.

Kinkaleri nasce nel 1995 come raggruppamento di formati e mezzi in bilico nel tentativo. Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo si incontrano, unendo le loro esperienze e studi precedenti maturati in vari campi, con l’intenzione di realizzare dei progetti specifici, sollecitando quindi la volontà di operare intorno a delle idee concrete e curando sempre tutti gli aspetti necessari alle creazioni della propria attività: progettazione, ideazione, drammaturgia, distribuzione, gestione. I lavori di Kinkaleri hanno ricevuto ospitalità in numerose programmazioni ibride di genere, trovando un importante riconoscimento sulla scena della ricerca italiana e soprattutto estera.

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Ha debuttato al Teatro Studio di Scandicci , dal 16 al 23 gennaio 2003, dopo una serie di studi presentati alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nell’ambito del Festival Non Io, al Teatro Fabbricone di Prato, al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari nonché al Festival Internazionale di Polverigi e a Parigi, Batofar .

Dalle parole degli stessi Kinkaleri: ” è un vuoto: l’unico posto dove stare. Aspettare. Guardare. Alzare la testa. Vedere gli aerei, indicarli col dito. Esplodere in mondovisione. Questo non è un soggetto. Non avere nessuna parola, evitare lo sguardo smarrito del mio gatto. Piuttosto che rappresentazione della memoria fa affidamento sui meccanismi di associazione logici legati alla rappresentazione attivando in chi guarda una serie di procedimenti che devono necessariamente connettere piani diversi, altezze diverse. La memoria chiamata in causa quindi, è la memoria che lo spettatore, chiamato ad associare, riconoscere, catalogare, confondere, decide di impiegare. Immaginiamoci come una sovrapposizione di strati trasparenti dove ciò che è stato segnato in precedenza da “un’azione compiuta” può restare sulla scena visibile e in pausa.

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Successivamente gli stessi oggetti, o la memoria di azione compiute, possono essere ripresi per un nuovo uso o per riconnettere e portare a compimento un’azione lasciata in sospeso precedentemente, ribaltando ciò che prima interveniva su altri piani di comunicazione. In sostanza ogni oggetto e ogni azione ruotano vorticosamente su se stessi diventando di volta in volta segni diversi moltiplicando i meccanismi del linguaggio e della comunicazione. Lo spazio nella sua forma è diretta espressione del legame che unisce la scena e il pubblico dove si perdono i confini di chi costruisce l’evento.

Uno spazio percorso e segnato dai tratteggi di azioni indipendenti l’una dall’altra connesse strettamente fino ad essere percepite come unità, da un tempo lineare e dalle associazioni compiute. , lo spettacolo, potrebbe concludersi dopo la prima caduta, tutto il resto è nota a piè di pagina. In tutto quello che si mostra è stato già visto, assimilato, come facente parte del nostro habitat quotidiano di immaginario e di ritmo: come le canzoni che dalla cuffia forniscono la base sonora e che fanno parte di una ipotetica compilation di pezzi che tutti conoscono e riconoscono come segni del proprio tempo personale e collettivo. Niente si scopre, niente si propone come riflessione sul nuovo perché il meccanismo contemporaneo di elaborazione dei segni ha messo a nudo il fallimento delle costruzioni umane per sfuggire alla sua natura, preferisce sempre la copia all’originale, affastellamenti di memoria del soggetto che guarda, elabora, riconosce, colloca, si tranquillizza, muore, rinasce come ineluttabilità di una condizione umana di infinita solitudine che pensa di sfuggirsi soltanto nel riprodursi tale e quale.

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Non è costruito partendo dall’umorismo, quello che viene restituito come divertimento o risata è un resto paragonabile a ciò che torna in mano dopo che si è comprato qualche cosa. Se in si ride, questo avviene nel dramma di riconoscere in quei segmenti di azione che non riescono a compiersi una condizione di tutto il già visto della nostra civiltà. Il limite delle cose umane e del mondo. La presenza, l’oscenità di tale atto, la pornografia dello sguardo di chi lo abita, i percorsi tracciati, le componenti del risultato, innescano quei piccoli miracoli impronunciabili dovuti a coincidenze fortuite.

Solo nella spietata visione di un’idea si nascondono verità di una poesia miracolosa. La creazione di per sé suggerisce l’idea del crimine, sono i criminali con i loro atti senza progetto i veri artisti e, sulla scena vuota, nel galleggiare dei reperti che svelano le tracce di atti improbabili, si costruisce un concetto. Vedere un corpo che agisce se stesso è la risultanza di tale sforzo e noi crediamo che se tale gesto fosse invertito a spietata essenza sarebbe la meraviglia.”


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