Muoversi con passo da storico e critico dell’arte nella giungla del vjing attuale presuppone l’utilizzo di armi affilate: conoscenza quanto meno teorica delle strumentazioni e delle tecnologie più utilizzate, fiuto allenato a distinguere le personalità realmente originali in un panorama che vede spuntare artisti come funghi, non ultima, la capacità di ricollocare gli entusiasmi per le meraviglie e le sperimentazioni permesse dalle odierne tecnologie in una prospettiva storica. Quest’ultimo aspetto rappresenta molto spesso il tallone d’achille di molti teorici che si occupano di arte e nuove tecnologie: concentrare la propria analisi all’hic et nunc della scena.

La studiosa olandese Annett Dekker rappresenta un’eccezione alla consueta miopia teorica. La Dekker fa parte dello staff del Montevideo e negli ultimi anni ha pubblicato numerosi articoli sul vjing che si contraddistinguono per l’intento evidente di costruire una storia del movimento, tessendo allo stesso tempo una rete di collegamenti tra le sperimentazioni nel campo video e gli ambienti underground degli anni 80′ e 90′ , l’estetica imposta da MTV e la scena club.

Tra il 2004 ed il 2005 ha raccolto il materiale delle sue ricerche nel sito vjcultuur.nl, il quale, oltre a fornire link di crew e software, contiene articoli e video interviste di pionieri Micha Klein, Arno Coenen, Gerald van der Kaap, Geert Mul chiamati a definire la pratica del vj’ing e raccontarne la storia.

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Claudia D’Alonzo: Com’è nato vjcultuur.nl? Nel realizzare il sito su quali aspetti vi siete concentrati maggiormente?

Annett Dekker: Il sito vjcultuur.nl è principalmente una pagina di riferimento. E’ frutto di una ricerca che io ho portato avanti negli ultimi anni. Avevo voglia di dare una collocazione alle novità nel campo del Vjing, ho creato un portale per dar modo di reperire tutti i tipi di informazioni inerenti la Vj culture. Sfortunatamente non ho avuto fondi nè tempo a disposizione per poter tradurre tutto in inglese, alcune parti lo sono, ma le inteviste sono ancora unicamente in olandese.

Claudia D’Alonzo: Chi lavora al progetto e qual è il ruolo del Montevideo?

Annett Dekker: Ho inizIato a strutturare il progetto mentre lavoravo al Montevideo ma in seguito è stato sviluppato in gran parte grazie all’aiuto del Dutch Funding Body_ fondo bkvb. Si era iniziato a discutere tempo prima, all’interno del Montevideo, sulla possibilità di elaborare un progetto riguardante la vj culture. Dopo aver fatto qualche ricerca su questo fenomeno, dal punto di vista estetico e storico, abbiamo deciso che fosse meglio presentarlo semplicemente per ciò che è, cioè una live performances di suono ed immagine.

Non confinarlo nello spazio di una galleria ma cercare uno spazio nel quale gli sviluppi interessanti fossero facilmente accessibili. Inizalmente abbiamo provato a organizzare un grande festival dislocato in vari club dell’Olanda che avessero da sempre fornito supporto alla scena vj (Mazzo, Off_Corso, Paradiso ect). Ma la carenza di finanziamenti non ha permesso la realizzaione di questo progetto. Nel frattempo ho scoperto parecchie cose essenziali di questo ambito, ne ho parlato con molte persone che lavorano in questo contesto e ho voluto dare una collocazione a queste informazioni, e contemporaneamente mostrare alle nuove generazioni di vjs che possono contare su una stabile storia, presentare una prospettiva storica del fenomeno.

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Claudia D’Alonzo: Attualmente ritiene che il mondo dell’arte istituzionale (gallerie, musei, biennali) si stia interessando in maniera adeguata alla scena del vjing o pensa che questa forma di espressione, fatta eccezione per alcune manifestazioni come Documenta o Ars Elettronica, fatichino ancora ad essere riconosciute come forme d’arte negli ambienti più accademici?

Annett Dekker: Questo in realtà dipende da ciò che intendi per adeguato. Io penso che alcuni anni fa la performance di vjing era in molti casi usata come decorazione con la quale attrarre il pubblico giovane o come mezzo per gallerie e musei di essere ‘hip’. Ma ora questa tendenza sta svanendo: io penso che ci siano molte organizzazioni, incluse gallerie, nelle quail si intende promuovere le performance di vjing e dove vengono proposte le novità più interessanti, le evoluzioni e soprattutto vengono incoraggiate le sperimentazioni.

Anche se inizalmente i musei erano più che altro curiosi, questa curiosità si è evoluta nel tempo in un interesse più profondo nei confronti del fenomeno, il che ha aperto delle nuove possibilità. Temo però che si tratti di un percorso lungo se lo scopo è di finire in un museo: ma d’altra parte vuoi che qualcuno sia ancora interessato a questo? Personalmente ritengo che questa nuova forma d’arte richieda modalità differenti di presentazione e di distribuzione, spazi che non siano necessariamente dei musei.

Claudia D’Alonzo: In un articolo del 2004 lei parla dello sviluppo del vjing, individuando una old school appartenente alla controcultura fino a giungere a un parziale assorbimento nei circuiti commerciali dalla metà degli anni 90′. Indica come causa di questo processo la massificazione degli strumenti tecnologici. Pensa vi siano altre motivazioni, penso alla diffusione commerciale di alcuni generi, come la house music, da sempre associati ai set video?

Annett Dekker: Sicuramente si può individuare un cambiamento di approccio da parte degli artisti, che si sono gradualmente stancati della politica e degli sgomberi da parte delle autorità. Inoltre, più o meno nello stesso periodo, i club hanno iniziato ad interessarsi al vjing concedendo, soprattutto all’inizio, molta libertà ai suoi sviluppi. I club avrebbero incoraggiato gli artisti ad animare i propri spazi, lasciandoli lavorare e sperimentare con le proprie attrezzature. A ciò fece inevitabilmente seguito l’aspetto commerciale: gli artisti si resero conto per la prima volta del loro valore economico. I club hanno reso famosi i dj’s, di conseguenza anche i vj’s hanno voluto la loro parte di successo commerciale.

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Claudia D’Alonzo: Come pensa sia cambiato l’approccio dei performer rispetto alla tecnologia nell’ultimo decennio? Negli artisti più giovani si nota una spiccata concentrazione sui procedimenti tecnici a volte fine a se stessa. Si rischia a suo avviso di perdere di vista quello che dovrebbe essere il fine, cioè la stimolazione sinestetica ed emozionale del pubblico?

Annett Dekker: Si sono d’accordo. L’intera commercializzazione della scena club ha causato una differente struttura di potere, ma ha anche portato a una standardizzazione del set up. Questo ha portato a una struttura standard dei set utilizzati nei locali che non lascia molto spazio alla creatività del singolo artista. Quando non si ha un controllo sull’allestimento delle proiezioni nello spazio e sul set, ciò non solo limita la tua creatività ma sottrae anche la possibilità di realizzare una stimolazione sinestetica organica. Ma vorrei sottolineare una cosa: non mi riferisco a quegli artisti che esplorano l’immagine generata dal computer o astratta come parte di un processo tecnologico, sperimentandola come un nuovo linguaggio. La maggior parte di questi progettiinfatti non rientra nella scena commerciale ed è presentata in ambito artistico, in festivals come Sonic Acts o alcune performance al Club Transmediale.

Claudia D’Alonzo: Come interpreta il fatto che molti artisti contemporanei stiano tornando ad usare strumenti analogici, super8, tecnologie low-fi?

Annett Dekker: Non ne sono sorpresa, non è il mezzo che produce l’esperienza e penso che gli artisti se ne stiano rendendo conto. Non è sempre necessario far uso della massima risoluzione o della più sofisticata periferica di controllo per creare atmosfere speciali. Paradossalmente, nella maggior parte dei casi la tecnologia ti limita. Sei limitato a un set di regole predeterminate e io penso che molti artisti aspirino a una maggiore possibilità di controllo: penso che questo sia il motivo che spinge molti artisti a creare da soli i propri software. Un altro aspetto del problema è che il computer ha promesso per molto tempo meraviglie, ma per ora è ancora molto difficile generare immagini in tempo reale, così molti artisti finiscono per usare gli stessi loop grafici ancora ed ancora, pompandoli con sempe nuovi effetti. La tecnologia è affascinante all’inizio, questo è ciò che pensa la maggior parte dei principianti, ci smanettano, si divertono, provano gli effetti, ma poi si annoiano e vanno alla ricerca di immagini e strumenti nuovi.

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Claudia D’Alonzo: Una delle problematiche che emergono dai suoi studi sulla Vj culture è quella delle modalità di conservazione e documentazione di questo tipo di performance. Quali possono essere le soluzioni, per esempio nel campo dell’allestimento museale, come riprodurre l’esperienza del live set?

Annett Dekker: Questo è ancora un grande problema e non è semplice trovare una soluzione. E’ una problematica comune ad altre forme d’arte, per esempio la performance, le installazioni e le opere di computer art. Attualmente stiamo studiando le modalità più adatte a documentare gli eventi live, non solo con il video ma anche attraverso testi. Ma come descrivere un’esperienza? La forma testuale è sicuramente la più complicata ma allo stesso tempo la più urgente. Non sono sicura che la soluzione possa venire dai musei, perché non sono preparati a questo modo di utilizzare lo spazio ed il medium.

Claudia D’Alonzo: Negli ultimi anni molte crew di vj stanno pubblicando DVD e raccolte video. Cosa pensa di questa modalità di diffusione del loro lavoro?

Annett Dekker: E’ solo un modo di presentare il proprio lavoro e in alcuni casi può funzionare. Ma spesso le immagini diventano troppo simili a un video clip (nella migliore delle ipotesi). Personalmente non credo ci possa essere molta longevità per questo tipo di performance, ma dipende anche dal tipo di lavoro dell’artista. In generale però vedo questi prodotti più come un mezzo di promozione per gli artisti e di documentazione, che però in nessun caso, può sostituire la performance.


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