A Venezia, presso Ex Cantieri Navali, sono stati esposti alcuni lavori realizzati a quattro mani degli artisti Alessandro Capozzo e Katja Noppes, in una mostra personale. La collaborazione fra i due protagonisti offre uno spunto di riflessione interessante rispetto alla possibilità di dialogo fra le nuove tecnologie e le pratiche artistiche più convenzionali. L’interdisciplinarietà che traspare dalla loro produzione, è sicuramente uno degli aspetti che li contraddistingue maggiormente.
I due artisti possiedono competenze tecniche e modalità di rappresentazione molto differenti. Alessandro Capozzo, media artist e designer, di formazione umanistica e con competenze in musicologia, utilizza il linguaggio di programmazione come medium espressivo. Egli realizza software generativi, usando il codice come materia costruttiva per creare sistemi complessi.
Katja Noppes, artista con una formazione da scenografa, ha lavorato invece sul video e sulla pittura. Nelle installazioni dell’artista traspare l’interesse per lo studio dei materiali e delle superfici, viste come supporto di archiviazione di tracce del passaggio di qualche forma di vita. Il rapporto fra tecnologia e memoria personale, e il rapporto uomo/ambiente sono punti importanti della sua poetica.
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I due cercano di creare una possibile interazione fra media analogici e digitali, attraverso un uso metaforico dei materiali. Capozzo e Noppes ipotizzano, attraverso il processo di costruzione delle loro installazioni, una sintesi che vada oltre la pura estetica e che sia di mediazione fra esperienze legate alle nuove tecnologie e sensazioni fisiche e sensoriali.
Le loro opere si muovono lungo un confine labile, dove l’inorganico si palesa sotto forma di vita dinamica e l’organico resta solo sotto forma di traccia, evocato tramite la sua stessa assenza. In questo percorso le due opposte concezioni divengono forze complementari, che dialogano in un gioco di rimandi, di pieni e di vuoti. Le installazioni dei due parlano al mondo dei sensi; nei loro oggetti compositi, ibridi, i significati si ribaltano, la materia si affranca dalla suo stato inerte, e il codice di programmazione trova una sua possibile reificazione.
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Nella mostra si può notare come le opere siano frutto di processi, innescati nel corso della creazione, che attraverso passaggi successivi hanno portato a una stratificazione di significati; e a più livelli semantici sovrapposti. L’apparente complessità di interpretazione dei lavori è risolta in una coerenza formale rigorosa ed essenziale, quasi minimalista, che unifica le loro opere.
Cronologicamente la prima installazione realizzata dal duo nell’arco della loro collaborazione è Exuvia. Il nome dell’opera deriva da un termine usato in biologia per descrivere i resti di un esoscheletro, lasciato dopo la muta di un insetto. L’installazione consiste in uno stampo del desktop di un computer, in materiale sintetico semitrasparente, e uno schermo LCD con sovrapposto uno strato di resina epossidica. Sulla resina sono stampate le ali di una libellula attraverso diversi passaggi analogici, e sullo schermo un software generativo dà vita a una visualizzazione dinamica di linee di forza che fanno vibrare le ali di vita.
L’installazione suggerisce la metafora della metamorfosi, attraverso l’assenza dell’insetto, rappresentato dalla crisalide vuota, e ritrova la pulsione vitale nei movimenti ipnotici dell’immagine creata dal software.
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Madamina, il catalogo è questo è un’opera che deve il suo titolo alla celebre aria del Don Giovanni del librettista Da Ponte. Il lavoro è un’installazione modulare, composta da più opere. Una prima parte consiste in uno stampo di gesso, diviso in due come un libro aperto, con scritte le parole dell’aria musicale; e nella parte concava reca impresse le tracce della forma di un cuore.
Nella seconda parte tredici stampi di cuori, in gomma color cemento, sono posti in righe ordinate dando l’idea di un’urbanistica essenziale, di uno skyline metropolitano. Le forme dei cuori non sono visivamente percepibile dall’esterno dei parallelepipedi siliconici, ma se ne può evocare la sagoma inserendo le dita all’interno degli stessi oggetti, attraverso un’apertura posta sul lato superiore.
Il terzo “atto” dell’opera è rappresentato da un altro stampo di cuore in gomma, nella cui parte concava è inserita una piccola videocamera, che grazie a illuminatori a infrarossi riprende dall’interno lo stampo e invia l’immagine a un monitor bianco e nero, che visualizza le pareti del cuore mentre pulsano con cadenza variabile. Il ritmo delle pulsazioni aumenta al diminuire della nostra distanza dall’oggetto, e rallenta se ci allontaniamo; un sensore di prossimità, collegato ad un microcontroller, rileva le informazioni spaziali e a seconda degli stimoli sollecita un servomotore che impartisce il ritmo di pulsazione alla telecamera stessa, che vibrando simula il battito.
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Con l’installazione interattiva Code Specific Beta, ci si trova invece di fronte a una colonnina di gomma che sembra essere di cemento sopra la quale, in posizione orizzontale, è posto uno schermo. Sul monitor è possibile vedere un’immagine che ricorda la rappresentazione spaziale di un luogo geografico, ma che in realtà è la visualizzazione creata da un programma, realizzato da Capozzo, che analizza sé stesso. È possibile interagire, con questa materializzazione architettonica del software, tramite due sensori a infrarossi, posti alle estremità di due bacchette; avvicinando o allontanando le mani da una o dall’altra bacchetta. Si può così visualizzare il codice del programma sullo schermo o modificare l’assetto dei blocchi che compongono questa essenziale urbanistica.
La collaborazione di Capozzo e la Noppes rappresenta un momento di ricerca coraggioso , ma rigoroso e coerente; è una sfida, nel tentativo di sganciarsi da banali canoni di genere. La loro produzione costringe a porsi delle domande sulla percezione e l’estetica, pur non avendo alcuna pretesa di avere già pronte delle risposte. A fine mese Alessandro Capozzo e Katja Noppes esporranno la loro opera Exuvia a Siggraph 2006, a Boston.