La collaborazione costituisce una delle pratiche scientifiche più consolidate. I motivi per cui si collabora nella ricerca scientifica sono da individuare nella sempre crescente specializzazione dei saperi, nella complessità dei problemi d’indagine, nella crescita dei costi degli apparati tecnologici, ma in un circolo virtuoso sul quale spesso non riflettiamo, la teoria della collaborazione presuppone che grazie all’abbattimento dei costi di ricerca si stimoli ulteriormente la collaborazione, arrivando a superare barriere politiche e finanziarie a favore della circolazione dei saperi.
A proposito di quest’ultimo punto è interessante osservare i risultati di uno studio dell’anno scorso condotto da alcuni studiosi della Lousiana State University di Baton Rouge. Nel paper Collaboration Paradox: Scientific Productivity, the Internet, and Problems of Research in Developing Areas, apparso su Social Studies of Science (October 2005), Ricardo B. Duque, Marcus Ynalvez, R. Sooryamoorthy, Paul Mbatia, Dan-Bright S. Dzorgbo e Wesley Shrum riflettono su due pratiche che possiamo definire assiomi delle moderne scienze della comunicazione:
1 – la collaborazione scientifica è direttamente associata alla produttività?
2 l’utilizzo di Internet (in particolar modo le email) comportano una riduzione dei problemi di collaborazione?
![]() |
.
Gli autori citano due ricerche simili svolte precedentemente (Lee, Bozeman (2005) ‘The Impact of Research Collaboration on Scientific Productivity’, Social Studies of Science 35(5): 673702 e Walsh, Maloney (2003) ‘Problems in Scientific Collaboration: Does Email Hinder or Help?’, manoscritto non pubblicato, University of Chicago) che confermano, quasi inequivocabilmente gli assunti; ma c’è un importante fattore da tenere in considerazione, ovvero che le due ricerche si riferiscono a gruppi collaborativi negli Stati Uniti. Gli studiosi della Lousiana, con un approccio comparatista, si sono invece rivolti a gruppi di ricerca di paesi in via di sviluppo; il campione è molto composito e va dalle università ai gruppi di ricerca privati e ONG del Ghana, del Kenya e di Kerala per l’India.
Perché i paesi in via di sviluppo? La risposta è molto semplice: bisogna verificare sistematicamente (quindi non solo nelle democrazie finanziariamente più ricche) se le nuove possibilità di comunicazione offrono possibilità di collaborazione e interazione tra paesi diversi, poiché sono proprio queste tecnologie che si presentano come adatte ad abbattere barriere geografiche, temporali e spesso politiche.
![]() |
.
Lo studio si è svolto dal 2000 al 2002, ha coinvolto circa 918 scienziati, principalmente nelle capitali di Nairobi, Accra, Thiruvananthapuram (la formazione scientifica era prevalentemente agraria, per il 31% dei casi, bioscientifica per il 28%, di ingegneria e tecnologie dell’informazione per il 16%, chimica e fisica per il 9%, di geologia per il 7% e scienze sociali per l’8%. Un 1% è stato lasciato aperto).
I ricercatori hanno utilizzato diversi metodi d’indagine: dall’intervista faccia-a-faccia all’analisi dei programmi e campioni scientifici. Per verificare i meccanismi di composizione dei gruppi, hanno inoltre verificato gli strumenti di selezione ed esclusione dei componenti. Una grande difficoltà dell’indagine si è rivelata la messa a punto del metodo di misurazione della produttività scientifica. I ricercatori hanno deciso di accantonare i classici metodi bibliometrici (un metodo quantitativo standard del mondo scientifico che comprende, ad esempio, la citation analysis) perché riflettono la predominanza dei paesi più sviluppati. Hanno utilizzato come principale indicatore di produttività le pubblicazioni nei giornali nazionali e in quelli stranieri degli ultimi 5 anni, sia verificati, sia dichiarati dagli stessi autori (per tenere in considerazione anche la divergenza tra produttività effettiva e autodichiarata). La produttività è stata misurata in due direzioni: intra e interorganizzativa.
![]() |
.
La misurazione intraorganizzativa comporta la mappatura dei rapporti stabili e frequenti tra le persone all’interno dell’organizzazione, quella interorganizzati tra diversi gruppi all’esterno, con la richiesta di una scala di misurazione per la frequenza collaborativa. I dati raccolti sono poi stati rielaborati con variabili geografiche, demografiche, biografiche (sesso, età, stato civile, grado d’istruzione).
Tra i tanti risultati emersi dall’indagine è particolarmente degno di nota il fatto che i keniani hanno il più basso livello di produttività, ma il maggiore di collaborazione a livello nazionale e regionale. Può apparire una ovvietà, ma la collaborazione è più difficoltosa e costosa in alcune regioni in via di sviluppo. In molti casi viene sovvertito l’argomento principale a favore della collaborazione, ovvero che i costi della coordinazione risultino minori rispetto ai benefici prodotti dalla coordinazione delle forze intellettuali. Le difficoltà di comunicazione sono infatti molto più grandi per gli scienziati del Terzo Mondo (e non parliamo dei risultati) e comprendono gli sforzi nel contattare i colleghi, nel coordinare i passi dei programmi, nel trasmettere aggiornamenti e soprattutto nel mantenimento della sicurezza delle informazioni.
![]() |
.
Se passiamo al secondo quesito, le possibilità di riduzione dei problemi di collaborazione che offre Internet, il mezzo risulta essere molto gradito e utilizzato, ma comunque diffuso in modo disomogeneo (86% in India, 65% in Ghana, 51% Kenya). Da un punto di vista pragmatico (potremmo definirlo “etnografico”) i comportamenti in atto denotano come nei paesi in via di sviluppo rimangono dei pesanti problemi del contesto locale che Internet e la collaborazione non possono superare: la povertà, la corruzione, le obbligazioni famigliari, il clientelismo.
Ciò che appare come un’ovvietà è invece il primo enorme passo da compiere prima di delineare qualsiasi futuro scenario tecnoscientifico: differenziare le politiche di promozione della comunicazione, comprendendo il più possibile le relazioni ambientali. Insomma, ancora una volta, smetterla di applicare una rozza concezione neoliberista di autoregolamentazione del sistema comunicativo; non promuovere le nuove tecnologie per una cieca fede nei risultati ottenuti dalle nazioni più avanzate tecnologicamente.
Se Latour sottolineava l’impossibilità di separare la tecnoscienza dalla società perché è una separazione frutto di natura e cultura, smettiamola di separare la comunicazione dalle pratiche che costituiscono la realtà ambientale, anche nell’ambito della ricerca scientifica.