Gli studi sociologici, e il mondo del giornalismo per derivazione, utilizzano spesso alcuni concetti chiave associati alla parola “società” per cogliere cause alla base dei processi universali di mutamento della nostra vita comunitaria.
In questo senso, pochi di noi non conoscono la definizione di Società dell’ informazione. Tale formula ebbe molteplici origini culturali e politiche: in Giappone l’antropologo Tadao Umesao già negli anni Sessanta, negli Stati Uniti il sociologo Daniel Bell con l’opera The Coming of Post-Industrial Society del 1973. Tale concetto ebbe un’influenza enorme sul dibattito pubblico a partire dagli anni Ottanta, sebbene nella sfera politica già a partire dagli anni Settanta sorse la necessità di confrontarsi con il passaggio in atto da una società basata sulla produzione materiale ad una basata sulla conoscenza, dove le “tecnologie intellettuali” provocavano, secondo i lavori pionieristici in questa direzione, la rottura della classica tripartizione concettuale economica di economia agricola, industriale e dei servizi grazie all’emergere di un quarto settore denominato “Knowledge Industry” e dei correlati “Knowledge Workers” (concetti elaborati da Machlup – The Production and Distribution of Knowledge in the United States nel 1962, ma ripresi solo negli anni Ottanta).
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Con “tecnologie intellettuali” Daniel Bell intendeva una serie di nuove tecnologie che applicate ai settori medici, della formazione, della ricerca e dello sviluppo avrebbero investito, rivoluzionandoli, il mondo industriale e dei servizi. Second Bell grazie a questo mutamento, l’asse centrale dell’evoluzione sociale si sarebbe spostato dal Capitale a quello appunto del Sapere e dell’Informazione.
A partire dagli anni Novanta ma certamente a livello scientifico la dinamica è da retrodatare – questa relazione tra tecnologia e mutamento sociale sembra acquisire una nuova connotazione. Sono innumerevoli le analisi in ambito sociologico, politico, economico e scientifico (Rifkin, Fukuyama, Castells per citare gli autori più conosciuti, oppure, in Italia, il recente ed ottimo volume di Roberto Marchesini dedicato al Post-human) che sottolineano il passaggio da una “società dell’ informazione” ad una “biosocietà” o Società biotecnologica.
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Questo cambio paradigmatico fonderebbe le sue motivazioni sul fatto che le biotecnologie comportano una sfida biologica finora sconosciuta, ovvero il dover fare i conti con un potenziale tecnologico di manipolazione, ma per assumere una posizione neutrale sarebbe preferibile il termine “emulazione”, di forme di vita. Tale novità implica naturalmente problemi etici, filosofici, religiosi e per quel che ci riguarda, sociologici, che concernono la necessità di nuove competenze per nuove professioni e l’insorgere di nuove possibilità di rischi sociali.
Uno studio continuativo condotto dal 2001-2003 dal Lahti Center della Helsinki University of Technology e pubblicato recentemente dalla rivista “Technological Forecasting & Social Change” ha voluto indagare l’impatto della possibile transizione da società dell’ informazione a società biotecnologica sui settori professionali ed educazionali.
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Da molte analisi effettuate è quindi interessante osservare come nei future studies serpeggi già la nuova definizione di fusion-society (si veda il lavoro Biosociety and Human Being – Mika Mannermaa per la National Technology Agency of Finland (Tekes), contraddistinta da una pervasività sistematica delle biotecnologie in molte sfere della vita quotidiana e da una elevata convergenza delle competenze professionali. Questo mutamento comporterà l’avvento dei cosiddetti fusion-workers e professioni quali i designer di organi artificiali e di componenti bioelettroniche, il consulente di intelligenza artificiale, di terapie genetiche, di nanotecnologie o lo specialista di medicina virtuale.
Il problema pedagogico maggiore sarà quello di riuscire a conciliare il libero scambio ed incontro dei saperi con un sufficiente livello di commensurabilità dei risultati formativi. Si accentuerà quella necessità, già percepita e promossa attualmente, di una connettività tra prospettive scientifiche, sociali e tecnologiche in un network di istituzioni, associazioni e comitati sociotecnici che riflettano continuamente sui rapporti quotidiani personali e comunitari che intratteniamo con le tecnologie, ma anche sulle possibilità di sviluppo (e distruzione) che esse riservano alla società.