Nella tradizione occidentale, lo specchio è sempre stato il gemello perverso della pittura. Artefice di una mimesi perfetta, ma anche abile traditore della realtà, lo specchio è di volta in volta strumento al servizio dell’artista (da quello con cui Brunelleschi inventa la prospettiva a quello plumbeo di cui si servivano i paesaggisti dell’Ottocento); dispositivo per dipingere autoritratti, per generare illusioni e mostrarci quello che la realtà del quadro esclude (dai Coniugi Arnolfini a Las Meninas); replica del reale e apertura su altri mondi.
Come e più del quadro, lo specchio è verità e menzogna, simbolo perfetto della volontà dell’arte di renderci presenti a noi stessi: e come tale è sempre presente alla fantasia degli artisti, dal Narciso di Caravaggio al ritratto di Dorian Gray, fino alle installazioni a circuito chiuso di Dan Graham, al Buddah che si contempla in video di Paik, al Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini. Programmatore e artista, il trentenne Daniel Shiffman non lavora con la pittura, ma con il software: eppure, non c’è dubbio che la pittura rimanga il referente privilegiato di un’indagine di grande rigore sui temi eterni della rappresentazione, del punto di vista e dello sguardo. Un’indagine che non poteva evitare la possibile assimilazione dello schermo al quadro e allo specchio, affrontata da Shiffman con la consapevolezza che il processo di digitalizzazione dell’immagine, e l’intervento mediatore del software, non possono che tradire la realtà nel momento stesso in cui ce la ripropongono nella maniera apparentemente più fedele.
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Tra il 2002 e il 2004, Shiffman ha realizzato una serie di lavori che si interfacciano con l’utente attraverso degli schermi rettangolari, non troppo grandi e appesi all’altezza dello sguardo, con una piccola telecamera fissata alla cornice. Ognuno di essi manipola, in modo diverso, l’immagine live registrata dalla telecamera, e ne mostra i risultato in tempo reale. Così, in Swarm (2002), egli crea un algoritmo che traduce i movimenti dello spettatore in una sorta di pittura vorticosa che simula l’action painting, un impressionismo filamentoso e dinamico che sarebbe piaciuto a Boldini; diversamente, Mosaic (2003) la frammenta in una serie di celle multicolori, con uno sguardo alle tessere del mosaico e un altro alla grana dei pixel, mentre in Shatter (2003) il flusso di immagini viene disintegrato in una miriade di piccole piramidi, le cui sfaccettature sono colorate con un particolare colore della scala RGB.
Se il programmatore omaggia (dichiaratamente) il Karl Sims di Particle Dreams, l’artista sembra essersi ricordato dell’arte optical: ma i due approcci si fondono completamente nella ricerca di Shiffman, come dimostra la definizione di “Procedural Painting” che dà il titolo a un corso da lui tenuto alla New York University, e che funziona per buona parte della sua opera. Anche quando, anziché giocare con i vizi di forma della pittura, conferisce al mondo al di là dello specchio regole sue proprie, proponendo, in Reactive (2003), un’interfaccia i cui pixel reagiscono, ciascuno per conto suo, ai movimenti dello spettatore, togliendo all’immagine riflessa ogni riconoscibilità. O quando sposta la sua attenzione sugli studi di movimento di Eadweard Muybridge, esplodendo lo schermo in una successione di 1024 frame che registrano gli stessi movimenti riproponendoli in successione, anziché sintetizzati in un’unica immagine (Timeframe , 2004).
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Del resto, anche quando esce da questa logica il lavoro di Shiffman rimane sempre, fondamentalmente, una questione di sguardi. Il kino-glaz di Vertov ci ha insegnato a attribuire a una telecamera uno sguardo obiettivo e impersonale; Yellow (2003), una installazione pubblica in cui una telecamera riprende il flusso del traffico newyorkese, ci insegna che non c’è niente di più falso: basta un piccolo algoritmo perché il suo occhio diventi sensibile a un solo colore, il giallo dei taxi, trascurando sistematicamente il resto.
Meno strano è constatare la soggettività dello sguardo che noi gettiamo sul mondo. World View (2002) è solo formalmente un lavoro anomalo nella produzione di Shiffman. Il suo compito è rendere visibile la visione distorta che ognuno di noi, sulla base dei limiti della propria esperienza personale, ha del mondo che lo circonda. Il progetto, che trova il suo limite nell’escludere l’importanza che un luogo di cui non abbiamo esperienza diretta acquista attraverso la rappresentazione che ne danno i media cosa che fa egregiamente Infowarmation dei nostrani K-Hello trae la sua suggestione dal riferimento alle vecchie mappe del mondo, deformate dall’ignoranza e dalle convenzioni. Del resto, Limits of Landscape (2003) spiega che è tutta questione di scale e di prospettive; e che alla scala del corpo, quella che tutti condividiamo, ci sfugge tutta una serie di trasformazioni, macroscopiche o microscopiche, che diventano evidenti se solo adottiamo un altro sguardo, e una nuova prospettiva .
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Da questa indagine sull’infedeltà dello sguardo non sfugge nemmeno Live City, una recente applet java esperibile online che propone, filtrate da una griglia di pixel, immagini live riprese dalle telecamere che sorvegliano il traffico di New York. Ogni pixel interagisce localmente con quelli a lui prossimi, per cui l’immagine evolve costantemente, secondo il ritmo di vita della città. Lo spettatore può restare passivo o intervenire, vivacizzando la veduta con i colori dei neon di Time Square. Ancora una volta, Shiffman ci rivela che la fedeltà al reale, ai tempi del digitale, è solo nella mente di chi guarda; e che, essendo l’immagine che vediamo il risultato di un flusso di informazioni, basta contaminarlo con un altro flusso per passare dalla realtà di una ripresa video all’irrealtà di una visione palpitante e mutevole.