Guardare non è più abbastanza. Nell’ultima personale di Steve McQueen alla Fondazione Prada, lo spettatore si muove in un’atmosfera che da soffusa diventa sempre più oscura, in una spirale in cui è messa in campo la sua stessa immagine. Un percorso fatto di visioni dal forte taglio memoriale e interiorizzato, segnate dal montaggio discontinuo e dall’attenzione che si sposta sui singoli particolari, in cui si compenetrano dettagli personali e riferimenti universali.
Partendo da una matrice cinematografica (in particolare i movimenti degli Anni ’60, cinéma vérité in testa), McQueen ha infatti saputo conquistare un proprio linguaggio videoartistico, in cui le riprese variano agilmente da soggetto a soggetto, passando dalle ampie vedute ai particolari insistiti, e la destrutturazione del montaggio, fatto di singoli frammenti sequenziali o bruscamente giustapposti, porta lo spettatore ad un libero “riempire gli spazi” di quella che è una narrazione solo parziale. L’organizzazione della mostra offre un percorso ideale e immersivo attraverso la variegata produzione di McQueen, seguendo un ordine quasi emozionale, che sembra ricalcarne il “manifesto” artistico: “Voglio che il pubblico si trovi in una situazione in cui ognuno diviene sensibile al massimo grado verso se stesso…”.
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Si parte dallo still frame del lightbox New Year’s Day 2002 e dalla calma rarefatta delle due proiezioni di Caribs’ Leap, un viaggio silenzioso nel presente (con le riprese di una giornata nella baia di Grenada) e nel passato dei Caraibi (l’evocazione del suicidio di massa dei Caraibici nel 1651, estremo atto di contrasto alla dominazione francese), affiancato in un’altra sala da Charlotte, film in 16 mm realizzato “sulla pelle” di Charlotte Rampling. Si passa al “cuore” della mostra, il paesaggio notturno con specchi, destabilizzante e affascinante allo stesso tempo, dell’installazione Pursuit: una sala immersa nel buio in cui lo spettatore vede rispecchiarsi sulle pareti la proiezione di un’indefinito personaggio (in realtà l’autore), di se stesso e degli altri visitatori, senza che nessuno sia davvero riconoscibile nella sua identità di persona e nel suo status fisico di corpo, riflesso o proiezione.
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Il cammino continua con Girls, Tricky, un’esperienza in sala di registrazione, e termina con Western Deep, discesa in Super8 (spesso contrassegnato dal fuori fuoco e da un forte cromatismo) in una profonda miniera d’oro in Sud Africa. In una sorta di viaggio dai risvolti iniziatici, si assiste alla sfibrante routine dei minatori: l’ascensore che li porta alla vena, in un’avvicendamento di rumore assordante e buio totale; il lavoro sottoterra (a cui si alternano immagini e suoni che richiamano scrosci d’acqua), sottolineato da silenzi ovattati che segnano un contrasto paradossale tra lo scavo – distruttivo per chi lo compie e per l’ambiente che lo subisce – e la presenza nel ventre della terra – idealmente un utero rigenerante; gli esercizi di depurazione corporale, che, ancora una volta, portano con sè l’ossimoro di una realtà disumanizzata da una parte e il richiamo, dall’altra, ad antiche danze tribali, cadenzate qui da nient’altro che da un rumore disturbante…