Quest’inverno al Media Design Program (MDP) dell’Art Center College of Design in Pasadina (Califonia) è stato organizzato “Made Up”, una mostra e una serie di incontri devoti alle ultime produzioni alla frontiere tra science fiction, design speculativo and fictional story-telling, pratiche che i promotori hanno riunito sotto il termine chiave di design’s fiction.
Allestita presso il Wind Tunnel Gallery del Media Design Program (un gigantesco ex-hangar della Jet Propulsion Lab in cui venivano testati jet supersonici), “MADE-UP”, come i sui curatori Tim Durfee e Haelim Paek reclamano, è una mostra che riunisce artisti che usano pratiche speculative e l’uso della finzione tanto per progettare scenari alternativi che per provocare. Tali artisti mescolano sapientemente ricerca scientifica e vari modelli narrativi, creando oggetti critici o “filosofici”, progettando per (in)possibili scenari tecnologici futuri, abbracciando le misteriose corrispondenze tra reale ed immaginario.
Design’s fiction in verità è oggigiorno un termine molto di moda nel mondo delle accademie e della media art, grazie soprattutto ai lavori usciti negli ultimi anni dal dipartimento di “Design Interaction” del londinese Royal College of Art (RCA) guidato dai pioneri del genere Antony Dunne and Fiona Raby. Quest’ultima era anche presente all’incontro inaugurale dell’evento, insieme con Bruce Sterling.
Anche se il dibattito in realtà non ha rivelato nulla di nuovo sotto il sole del genere, e l’allestimento in sé dava l’idea di essere stato gestito un pò troppo fretta, un bel numero di lavori erano di fatto davvero interessanti. Gran parte degli artisti presenti era legata in un modo o nell’altro all’MDP o all’RCA, e circa meta’ di loro erano architetti o urbanisti di professione, mentre l’altra meta’ era legata al mondo del design/arte. Vediamo quelli che mi hanno colpito di più.
Gli architetti e/o urbanisti presenti erano quasi tutti di base nella California del Sud: Juan Azulay ( http://www.ma77er.com ), The Planning Center (http://www.planningcenter.com), Hernan Diaz Alonso (http://www.xefirotarch.com/) e AGENCY (http://agencyarchitecture.blogspot.com/), uno studio di ricerca e design di base a New York .
Tra questi proprio il lavoro presentato da quest ultimo studio mi ha colpito maggiormente: Super Levee Urban Farm (2010) è un progetto di “urbanismo speculativo”, se cosi si vuol chiamare, che dipinge uno scenario futuro in cui, per salvaguardarci dall’avanzata del livello del mare, le città del mondo tentano di progettare nuove forme di sviluppo infrastrutturale. AGENCY propone un sistema globale di argini che funziona anche come un “nuovo stile” di fattorie urbane ai bordi della città che conservano le loro ecologie locali e le proteggono dai pericoli futuri e promuovono una vita urbana e personale più produttiva.
Sempre con un background architettonico, ma più poetica nella sua espressione, è l’opera del “visionar-chitetto” Thomas Hillier (http://www.thomashillier.co.uk/ ) che, attraverso illustrazioni, design, racconti e installazioni, cerca di capire come la letteratura può essere direttamente tradotta in spazio urbano e architettonico. Hillier guarda allo spazio architettonico usando narrazioni non ortodosse e visioni personali, utilizzando materiali innovativi con una paziente ed elaborata tecnica artigianale.
Per “MADE-UP” Hillier ha presentato l’ultima iterazione de The Emperor Castle (2010), un’opera in tre capitoli ispirato ad una fiaba mitologica giapponese che rappresenta la storia di due amanti, la Principessa e il Mandriano, che sono stati separati dall’imperatore padre di lei.
Hillier trasforma questi personaggi in metafore architettoniche creando un complesso collage tridimensionale, un “teatro urbano” inspirato agli interni del Palazzo Imperiale nel centro di Tokyo: la principessa è rappresentata da una membrana a maglia flessibile che avvolge gli spazi sottostanti per raggiungere il perimetro di erba del parco, rappresentato dal Mandriano. Collegati all’interno di questa membrana vi sono una serie di enormi strutture polmonari fatte ad origami, dispiegati tutte intorno, quasi come barriere fisiche che manipolano la maglia nel momento che si estende verso il parco.
Leggo dal sito di Hillier: “Quest’opera di architettura narrativa è un modo per esaminare risvolti culturali correnti in Giappone, come la pietà incondizionata, il lavoro instancabile, l’etica, e gli atteggiamenti conservatori verso l’amore (…) Tokyo è considerata come la città delle “luci brillanti” e della tecnologia super-veloce, ma nel suo ventre esiste ancora quell’idea di “arte squisita” che ha definito il Giappone nel corso dei secoli. Volevo che il Castello dell’Imperatore pagasse omaggio a questi ideali”.
Non sono completamente sicuro che dall’opera si riescano a decifrare tali aspetti culturali e storici di una cultura cosi complessa come quella giapponese, ma sicuramente Il Castello dell’Imperatore è riuscitissimo nel tentativo di bilanciare elementi visionari e una tecnica artigianale raffinata.
L’approccio di Hillier, che usa elementi di narrazione mitiche o storico come occasioni per costruire mondi fittizi, è simile a quello di Noam Toran (http://www.noamtoran.com), altro artista inglese, attualmente docente presso l’RCA. L’opera di Toran spazia molteplici discipline e medium, e comprende oggetti e film che risiedono alle intersezioni tra cinema, cultura di massa e psicologia.
I suoi lavori, sia sotto forma di film che di installazioni, sono come dei commentari sui desideri, le fantasie e patologie della vita moderna. Il suo I Cling to Virtue (2010), presentato la prima volta al V&A Museum di Londra, è un immaginario archivio del clan Lovy Singh, una famiglia del ventesimo secolo dell’east london di discendenti Punjab e lituani. Questa collezione di oggetti e opere video, che risiedono al confine tra artefatti e artifici, storia e mito, rendono più complicato lo sforzo che si prova ad archiviare il proprio passato, in quanto oggetti non tanto destinati a catturare un quadro completo del secolo attraverso il quale la famiglia ha vissuto, ma, più semplicemente, cercano di rendere manifeste una serie di emblematiche impressioni.
Altro artista ed ex studente al RCA è Andrew Friend (http://www.andrewfriend.co.uk), che condivide un interesse simile nel fascino per la progettazione di esperienze tra persone, tecnologie ed ambiente, ma con un twist personale ed ironico. Con un atteggiamento che mi ricorda quello di Bas Jan Ader (http://www.basjanader.com/), miscela un’iconografia eroica ad un approccio quasi surreale. Il suo progetto Fantastic (2010), consiste in una serie di opere che hanno a che fare con tutto ciò che sembra straordinario, indesiderabile, confusionale, o perturbante: “Sono interessato all’esperienza del fantastico. (…) Il fantastico ha il potere di eccitare l’immaginazione, attivare sogni e desideri, eccitare, manipolare e confondere.”
Fantastic è un lavoro costituito da una serie di quelli che Friend chiama “dispositivi di finzione”, come ad esempio la Device for Experiencing Lightning Strike, una sorta di enorme parafulmine che aumenta la possibilità di essere colpiti da un fulmine, un piatto parabolico indossabile che dovrebbe aumentare gli effetti di attivita’ radio, paranormali, o elettrica, e la Device for Disappearing (at the Sea) (“dispositivo per disperdersi (in mare)”) che offre l’opportunità di una sicura, temporanea scomparsa in mare.
Un approccio sicuramente meno poetico e più “tecnologico” al genere emerge dalla sezione di artisti statunitensi in mostra. La maggior parte generalmente si concentra su come le tecnologie nuove tecnologie digitali possano influenzare il nostro futuro prossimo, spesso prendendo in considerazione una specifica tecnologia. Ad esempio il progetto ReWire: Topological Interaction (2008) di Justin Gier esamina come l’ascesa della “Internet of Things” e le varie embedded tecnologies domestiche possano abitare la nostra vita e cambiare il nostro modo di progettare oggetti di design e nuove esperienze.
Justin Gier ha delineato un preciso scenario di ricerca biografica, ispirato alla condizione di disturbo del dismorfismo corporeo, una reazione infiammatoria del cervello associata con la forma degli oggetti e del loro significato: in questo scenario tutti i dispositivi domesticihanno sostituito la loro forma originale con quella delle zucche. Tali “oggetti-zucche” comunicano tra di loro in una “ecologia” di cose interconnesse: “ho deciso di disegnare tre oggetti elettronici discreti. Uno potrebbe essere attivato da una chiamata di telefono cellulare, un altro sarebbe un registratore autonomo, e l’altra sarebbe sensibile al movimento.
Queste sono tutte speculazioni su come saranno i nostri dispositivi domestici del prossimo futuro. La cosa interessante è accaduta nel momento che hanno iniziato a funzionare: individualmente ogni oggetto mostra un tratto, ma una volta posizionati su una mensola tutti insieme cominciano vari feedbacks uno con l’altro: una telefonata fa agitare quell’altro, le vibrazioni del quale viaggiano per la mensola e fanno si che quello che si muove faccia il suo suono. Un altro poi registra questo suono e lo rimanda in dietro. Si crea cosi un feedback-loop che emerge dal comportamento dei singoli oggetti.”
In modo simile, Chris Woebken (http://www.chriswoebken.com) ha presentato un lavoro del 2008, Animal Superpowers. Avendo come riferimento i sistemi naturali e la biomimetica investiga le differenze sensoriali tra animali e uomini in un modo giocoso -sebbene magari un pò troppo didattico. La domanda di fondo è: in che modo il design ci può aiutare a capire come dovremmo cambiare in futuro per essere in maggior sintonia con la tecnologia e l’ambiente in cui viviamo?
Woebken nota che gli animali hanno capacita’ sensorie che gli permettono di percepire il mondo in maniera sostanzialmente diversa da quella umana, e le chiama “super-powers”: la facoltà di captare frequenze ultra-basse da parte di alcuni animali, la capacita’ di rivelare campi elettromagnetici degli uccelli, o la comunicazione basata sui feromoni delle formiche, sono alcune di queste “super-forze” i cui misteri la Scienza sta cercando di svelare, per progettare poi una nuova idea di uomo. Woebken parte da questa assunzione per esplorare il modo in cui il design possa aiutare le persone ad accedere ai misteri si tali “super-forze”.
Come parte integrante delle varie iniziative della manifestazione, l’anno scorso fu indetto un bando per due residenze artistiche con lo scopo di produrre due progetti correlati al tema. Una giura composta da Bruce Sterling, Fiona Raby e alcuni professori del MDP hanno selezionato i progetti Suspension of Disbelief di Daniel Salomon e Ingrid Hora, e SUPERCALIFORNIA! di Sascha Pohflepp.
Daniel Salomon (http://www.heliko.org) e Ingrid Hora (http://www.ingridhora.com) sono due artisti davvero interessanti che lavorano all’intersezione tra finzione e produzioni utopiche. Durante la loro residenza hanno prodotto una serie di oggetti scenografici che funzionavano come simboli culturali di un immagginario movimento spirituale: aiutati da un team di studenti hanno creato piccoli sacrari, icone, altari e varie strumentazioni tecnologiche che sono poi stati usate nel video che hanno girato quest’estate nel deserto del Mojave, un film surreale che prevedeva un insieme di rituali diretti da cinque “membri del culto”.
Spulciando nei loro rispettivi siti ho scoperto che Salomon, oltre a dare lezioni di combustione chimica e di riproduzione sessuale di lumache in Esperanto a classi di bambini che non parlano Esperanto, ha messo su una azienda finlandese che vende un hot-dog “non-nazionale” chiamato Kolbasoj Sen Limoj (“salsiccia senza frontiere”) e ha fondato la Sennacia Bank (Bank without Nation) su quattro ruote, unica banca nomade al mondo a rilasciare “Mono”, una banconota mono-valuta.
Ingird Hora invece – un artista nata in Italia e al momento di base a Berlino – attraverso il design di oggetti, mobili e performance, prova ad indagare le varie idiosincrasie e tensioni create dalla contemporaneità. Ultimamente i suoi lavori si sono sviluppati intorno all’idea di “fuga funzionale”, un termine che lei stesso ha coniato per descrivere “la tendenza a cercare distrazione e sollievo da spiacevoli realtà, in particolare attraverso una specifica attività, con uno specifico scopo o funzione.”
SUPERCALIFORNIA: Forever Future è invece un’installazione di Sascha Pohflepp, artista di base a Londra interessato in tecnologie passate e future e come queste si intrecciano con nozioni di arte, business e idealismo, che include un breve video e una serie di ritratti e di oggetti. Nell’installazione, un personaggio fittizio dal nome di Rob Walker ricorda gli anni ’70, il Voyager e i dibattiti sulle colonie spaziali. Pohflepp si interroga: “che succede alle visioni tecnologiche quando non si avverano?”.
Sascha parte dall’assunzione che le idee, una volta che fanno parte dell’immaginazione pubblica non vanno via, ma piuttosto entrano in una sorta di “limbo culturale” dal quale possono eventualmente materializzarsi in un altro momento. O ci possono essere futuri che per ragioni varie non si materializzeranno mai, ma piuttosto si allontaneranno sempre di più dal nostro presente. Futuri fantasma che in alcuni di noi possono suscitare nostalgie, in quanto parte delle nostre vite.
Un modo per sottolineare il fatto che sebben alcune volte la realtà può essere molto più distopica di molta science fiction, è anche vero che la science fiction – e tanta produzione artistica che ne scaturisce – è altrettanto importante quando è produttrice di sogni e reali desideri collettivi.
http://www.artcenter.edu/mdp/madeup/exhibition.html