Nel 2007, durante il festival ArtFutura, assistei a una breve conferenza di Jaume Plensa e fu amore a prima vista. La sua arte, il suo pensiero e il suo modo di presentarli mi parvero assolutamente capaci di accompagnare lo spettatore in una dimensione più elevata, di trasmettere un’energia quasi mistica. L’artista entrò a far parte della ristrettissima cerchia dei miei idoli e per questo, senza rendermene conto, finii per convincermi che fosse un essere sovrumano che non risiedeva sulla terra come noi comuni mortali.

Fino a quando la mia amica e fotografa Angharad Segura, ammiratrice altrettanto accanita dello scultore e con una gran voglia di ritrarlo con la sua reflex, un giorno mi mise la pulce nell’orecchio, chiedendomi se potevo organizzare una visita al suo laboratorio a pochi chilometri da Barcellona. Mi sorpresi del fatto che non mi fosse mai venuto in mente e trovai rapidamente il modo per farmi concedere un’intervista. Fu così che presto, piene di emozione come due adolescenti che stanno per incontrare la loro rockstar preferita, Angharad e io ci recammo al capannone dove Plensa lavora e dove fummo accolte cordialmente dall’artista e da sua moglie Laura.

Confermo: Jaume Plensa non è un personaggio inaccessibile, così come non lo sono del resto le sue opere. Al contrario: è un uomo estremamente spiritoso e affabile, con uno sguardo limpido, una voce avvolgente, un sorriso sincero, che in qualche modo vive in un’altra dimensione, molto più vicina alla bellezza, alla verità, da cui attinge con gioia per regalarla al mondo con la sua arte. Credo che questo sia il segreto delle sue opere, la forza di cui sono dotate, il motivo per cui vivranno per sempre nella storia dell’arte.

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Su Internet attualmente si trovano due video che testimoniano il fascino dell’artista e della sua arte: uno è un documentario prodotto da RTVE (http://www.rtve.es/mediateca/videos/20091228/imprescindibles-jaume-plensa/657646.shtml, in spagnolo, francese e inglese) e l’altro la registrazione del suo lungo intervento all‘ISC Conference (http://www.youtube.com/watch?v=HQkkmyfF65A, in 9 parti, in inglese). Inoltre il sito web di Plensa è ricco di foto e di documentazione accurata, oltre che di link a ciò che già è stato scritto su di lui. Ma cediamo la parola al nostro artista.

Barbara Sansone: Ti senti più uno scultore classico o un artista di new media? Quale profilo ti descrive meglio, se è possibile ridurti a uno solo?

Jaume Plensa: La mia opinione è che la storia dell’arte è una sola: non ci sono un passato e un futuro, ma una linea unica in cui gli artisti si inseriscono. Io credo di essere profondamente classico, perché ancora mi commuovono sculture di 5.000 anni fa. E per me il classicismo è un atteggiamento e non una forma. Per esempio, spesso lavoro con la vibrazione della materia. Un oggetto, quando lo si percuote, produce un suono, proprio della materia di cui è fatto. Tu, io, lei, tutti produciamo un suono. Se io adesso ti dessi un colpo sul braccio udiremmo un suono in qualche modo opaco, mentre ci sono materiali, come i metalli, che producono suoni più interessanti. E questa non è musica: è la materia che sta parlando. Più classico di così! Inoltre, mi hanno sempre interessato le grandi domande, quelle che ci stiamo ponendo oggi, che ci ponevamo in passato e ci porremo in futuro. Questo è classico? Sicuramente, ma è anche contemporaneo.

Quanto alla tecnologia: io sono figlio dell’oggi e quindi devo utilizzare gli strumenti che mi offre la mia epoca. Ma il martello, per quel che riguarda la sua funzione, non è stato ancora superato. Non puoi piantare un chiodo con il mouse ed è importante saper riconoscere quando è il momento del martello e quando è il momento del mouse. Le tecniche non sono mai una direzione, semmai un veicolo. Ciò che è contemporaneo o classico sono le idee; le tecniche ne sono solo un accompagnamento. Sono molto importanti, perché aiutano a trasformare l’estetica, ma non sono un fine. Nella mia opera, la tecnologia è ciò di cui ritengo di avere bisogno per esprimere quella determinata idea.

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Barbara Sansone: Perché da alcuni anni non lavori più per il teatro, per l’opera?

Jaume Plensa: Non sono un professionista dell’opera e credo che in quel periodo questo sia stata la chiave che mi permise di trasformare il concetto scenico. Ma, per coerenza, dovevo fermarmi. Così come non devo continuare a insegnare se non voglio diventare un professore. Quest’anno ho insegnato a Chicago e mi hanno chiesto di rimanere. Quindi, invece di insegnare per sei mesi come ho fatto quest’anno, ho deciso di tenere un seminario di tre settimane, che è un concetto teorico diverso. Il mio successo come insegnante è dato dal fatto che non sono un professore. Un fotografo meraviglioso dell’MTI, morto da poco, diceva: “Devi cercare di insegnare senza che si rendano conto che lo stai facendo. Se se ne rendono conto è già troppo tardi”. Quando ho letto questa frase ho pensato che esprimesse esattamente la mia opinione. Devi lasciare messaggi che sembrino silenziosi e che vadano calando a poco a poco. Ci vogliono molti anni, molta pazienza e molta fiducia in se stessi.

Barbara Sansone: Qual è il tipo di luogo dove ti piace di più esporre? Forse lo spazio pubblico?

Jaume Plensa: Lo spazio pubblico è quello che più mi ha permesso di farmi un nome, ma perché normalmente non gli si assegna il valore di spazio di prima categoria. È come un succedaneo, la tipica “rotonda”. Ma la rotonda non è né bella né brutta: dipende da cosa ci fai, come tutto nella vita. Per me lo spazio pubblico è un luogo molto interessante per la scultura o per l’arte in generale, per il tipo di rapporto così diretto che si crea tra la gente, che non l’ha chiesta, e l’artista. È un atto artistico importantissimo: è l’artista che va in mezzo agli altri e deve essere molto rispettoso. Lo spazio pubblico non appartiene a te: appartiene agli altri, a tutti, come cittadini e come individui. È necessaria molta umiltà.

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Barbara Sansone: E oltretutto il fascino dell’arte negli spazi pubblici spesso è dato dal fatto che non è solo da contemplare, ma anche da usare…

Jaume Plensa: Sì e soprattutto che non ti impone una maniera, ma ti lascia la libertà di usarla come ritieni più opportuno. Secondo me l’arte nello spazio pubblico deve introdurre una cosa che nella città non c’è, che è la libertà personale. L’anno scorso fui invitato a tenere una conferenza a Des Moines, dove una mia scultura che fu comprata da un collezionista venne regalata alla città. Parlai in un bellissimo teatro, pieno di gente, e alla fine chiesi se c’erano domande.

Una signora osservò che per tutto il mio intervento avevo invitato la gente a toccare l’opera, a viverla, a sentire se era fredda o calda, ruvida o liscia, e invece accanto alla mia scultura c’era un cartello che diceva “Non toccare”. Risposi che l’amministrazione aveva commesso una piccola imprecisione e che aveva dimenticato di completare il cartello. Il testo in realtà doveva dire “Non toccare: accarezzare”. Tua moglie la accarezzi, non la tocchi. Ed è così: l’arte va accarezzata.

Nello spazio pubblico, invece, a volte la relazione fisica con l’opera si traduce in vandalismo. Nel 2000 fui invitato a creare un’opera che rappresentasse il governo di Brandeburgo alla Expo di Hannover e feci invece un’opera che andò in giro per la provincia di Brandeburgo. Si trattava di tre figure che ogni settimana andavano in un luogo diverso. Quando arrivarono nella parte est, al confine con la Polonia, una delle sculture fu completamente distrutta. Anche questa è una maniera di esprimersi: quella gente aveva un problema di educazione e l’unica maniera che aveva di esprimersi era quella. L’episodio non mi intristì: semplicemente rifacemmo la scultura. Ma mi fece riflettere sull’importanza che ha l’educazione, non quella dei politici, ma quella più profonda. Per me l’arte è molto importante dal punto di vista educativo. Non dev’essere pedagogica, ma certamente educativa sì.

Barbara Sansone: Quindi, riformulando la domanda iniziale, preferisci esporre negli spazi pubblici o nella “white box”?

Jaume Plensa: Ogni luogo ha il suo motivo di interesse. Lo spazio pubblico presenta aspetti molto intriganti, ma la mostra personale pure. E a volte le due dimensioni si compenetrano. Per esempio l’anno prossimo esporrò allo Yorkshire Sculpture Park, in Inghilterra, che è come un museo all’aria aperta, dove potrò fare opere di grande intimità anche in assenza della scatola bianca. Saranno opere che usano luce, che mi piacciono molto perché di giorno sono più distanti, anonime, è come se non ti facessero caso, però di notte, con il buio, acquistano la loro magia speciale, è come se venisse fuori la loro anima.

Hai presente la mostra che ho fatto a settembre nella galleria di New York, le grandi teste luminose su un letto di pietre? Un collezionista in Svezia ha comprato un’opera molto simile e l’ha installata all’aperto. E là ha un’altro modo di vivere. Nella galleria era magica, ma in esterno attraversa momenti di distanza, momenti in cui viene coperta dalla neve, … ha una vita più integrata nella quotidianità.

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Barbara Sansone: Quali sono le basi della creazione?

Jaume Plensa: Secondo me principalmente l’intuizione. Einstein, i cui scritti hanno contribuito molto alla mia crescita e alla mia formazione, diceva che l’intuizione è molto più importante della conoscenza e secondo me questo principio nella creazione è fondamentale. Duchamp, per esempio, anche che di solito lo si immagina concettuale e cerebrale, in realtà era un uomo che si basava assolutamente sull’intuizione e sopratutto sul confronto di concetti contraddittori, per me un’altra delle grandi basi della creazione. Quando tutto fa scintille, la frizione dei contrari crea una cosa che non si può spiegare, qualcosa di inaspettato. Per me la creazione è un mistero e per questo è fantastica.

E allora perché un artista è bravo e un altro no? Questa è una bella domanda, misteriosa. Ma la teoria non mi interessa: quello che conta è fare, come espresse Mario Merz (un uomo molto fisico, tenero, un gigante affettuoso) con la sua “Che fare”. Per me la sua è un’opera chiave, perché questo è il grande problema della creazione. E vivere dell’errore. Spesso mi sono trovato a difendere l’errore come punto di partenza per lavorare. Facendo ti sbagli, solo chi non fa non sbaglia. L’artista deve credere in se stesso e nell’errore, vedere l’errore come qualcosa di positivo e in questo credo di essere un professionista.

Barbara Sansone: Davvero? Cosa sbaglia Jaume Plensa?

Jaume Plensa: Io mi sbaglio costantemente. All’inizio ti sembra che sbagliarti sia un’altra forma di errore e poi invece con gli anni vedi che grazie agli errori cresci. Anche la malattia è un modo di crescere, come tutto quello che fa vacillare le tue sicurezze. Per questo sostengo sempre che il cervello è la base della creazione: il luogo più selvaggio del corpo, non il più razionale, al contrario. Un luogo umido e buio dove all’improvviso in un angolo due idee si incontrano senza che tu lo voglia. Secondo me la creazione è molto simile al cervello: uno spazio buio, umido, molle. E tu devi insistere. Ti sei sbagliato? Non importa. Edison, l’inventore della lampadina, diceva una frase molto simpatica: “Non mi sono mai sbagliato 10.000 volte: semmai per 10.000 volte ho scoperto che una cosa non si faceva come la stavo facendo”. Per me la creazione funziona un po’ così.

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 Barbara Sansone: Perché ha avuto tanto successo la Crown Fountain?

Jaume Plensa:Probabilmente perché in questo progetto sono riuscito a riassumere tutto quello di cui ti sto parlando e a renderlo fisico. Nel caso di questa fontana ho avuto un non so cosa, l’ispirazione, chiamala come vuoi, e sopratutto moltissimo aiuto da parte degli sponsor. Lo spazio pubblico non è mai un problema di uno solo, ma come minimo di due. Se non hai qualcuno che ti affianca nello spazio pubblico sei destinato a fallire, perché il mondo politico è molto selvaggio. Hai bisogno di uno scudo che ti protegga a livelli incredibili.

A Chicago ho avuto questa fortuna: la famiglia Crown, non so perché, si è comportata come se fosse la mia guardia pretoriana, ha difeso a morte me e la mia idea. Il progetto è durato quattro anni e mezzo, di cui i primi due sono serviti solo a convincere la città che l’opera valeva la pena. Tutti la volevano distruggere: non l’avevano capita, perché non era un oggetto, non aveva contorni fisici chiari. La gente erroneamente pensava che le due torri erano mie e quello che c’era in mezzo no. Invece anche il vuoto deve essere creato perché possa esistere. In un’epoca in cui nella nostra vita ci sono tanto rumore e tanta densità, il vuoto deve essere creato, così come il silenzio.

La sera prima dell’inaugurazione, con il direttore dell’équipe che mi aveva aiutato nella costruzione, decidemmo di togliere le transenne per vedere cosa succedeva. Fu come se avessero messo una calamita: lo spazio si riempì di bambini che tornarono a casa fradici e l’indomani sul giornale erano già state pubblicate molte critiche. Io sostenni che non avevo fatto una fontana da guardare, ma uno spazio di libertà, dove ciascuno poteva decidere se entrare o no. Che conteneva acqua, ovviamente, perché è una metafora della vita dell’essere umano: il nostro corpo è composto al 60% dall’acqua, l’acqua è il nostro stato naturale.

Ho voluto creare una piazza vuota (concetto esportato dalla mia cultura mediterranea), vuota perché la riempisse la gente: se ci avessi messo qualcos’altro non sarebbe rimasto più spazio per la gente. I 1.000 volti appartengono ad abitanti della città, a coloro che compongono realmente la città: per me una città non è fatta di edifici, ma di persone. Ma cosa si intende per gente? Ciascuno nasce, vive, muore, sparisce e continua a esserci gente. Siamo anonimi, ma anche unici: quando una persona muore lascia un vuoto immenso.

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Barbara Sansone: Quali altri elementi hai inserito in quest’opera?

Jaume Plensa: Innanzitutto il doccione, un elemento architettonico tradizionale della mia cultura, che mi ha sempre affascinato fin da quando ero bambino. E mi hanno influenzato anche le fontane di Barragán, architetto messicano che usava solo la gravità. Mi sono sempre sembrati assurdi i getti d’acqua che vanno verso l’alto: è una manipolazione dell’acqua. L’acqua è soggetta alla gravità, quando piangi o quando piove va verso il basso. Ma soprattutto nella Crown Fountain è rappresentata l’idea di dare la vita attraverso la bocca, l’idea della parola. In tutte le culture c’è un momento in cui la vita viene donata attraverso la bocca, viene insufflata.

Barbara Sansone: E alla fine la gente ha cominciato ad appropriarsi di questo spazio…

Jaume Plensa: Sì, la gente già il giorno dopo venne con l’asciugamano e la fontana alla fine si è convertita in uno spazio di libertà. Nello spazio che delimita questa piscina, l’acqua è alta appena 3 mm: ci si può camminare anche senza togliersi le scarpe, ma la gente le toglie e quindi ai lati se ne accumulano moltissime. Questo è un altro elemento che mi affascina. In passato in alcune opere usai le scarpe, ma notai che venivano associate all’olocausto, che non era mia intenzione. Io usavo le scarpe perché per me sono la macchina fotografica della nostra vita, raccolgono continuamente elementi della nostra vita più fisica, ma per via del malinteso ho smesso. E adesso vederle ai lati della Crown Fountain è appassionante.

E tutti i bambini, che hanno meno pregiudizi di noi, non si chiedono se la fontana è tecnologica, grottesca, d’avanguardia: semplicemente diventavano matti. Lo spazio è estremamente sicuro, questa fu una mia ossessione: un bambino doveva poterci stare senza il genitore accanto, senza correre nessun pericolo. È ipersicura, è impossibile scivolare, non ci sono buche dove mettere accidentalmente i piedi, non ti può cadere addosso niente. La tecnologia dell’acqua richiese studi accurati: passai molto tempo in una piscina dove ricreammo il doccione e calibrammo perfettamente la pressione e l’impatto dell’acqua. Quando i volti chiudono gli occhi e “soffiano” il getto d’acqua, magari chi sta sotto non sta guardando e viene sorpreso dal getto, che quindi non doveva essere violento. Quest’opera è una celebrazione della vita, non cerca la violenza, al contrario.

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 Barbara Sansone: In effetti le tue opere trasmettono solo sentimenti positivi…

Jaume Plensa: Ogni volta che hanno cercato di incaricarmi un monumento alla morte ho rifiutato. Ho sempre voluto celebrare la vita e la morte ne è solo una parte. E la Crown Fountain per me è una grande celebrazione della vita. È bello vedere tanta confusione, gente, rumore. E d’inverno, invece, niente. D’inverno l’acqua non funziona e la fontana si converte in una sorta di giardino zen, in attesa della primavera. Il ruolo delle stagioni in un’opera d’arte è un altro aspetto che mi piace molto. A Chicago d’inverno tutto è coperto di neve. Della fontana emergono solo le due torri, ma i volti non assumono mai la posizione del soffio. Creammo clip video separati per evitare che l’espressione sembrasse ridicola se non esce il getto d’acqua.

Questo lavoro tecnologicamente fu molto complesso, anche se il risultato, guardandolo, sembra la cosa più semplice del mondo. Inoltre Chicago è una città molto ventosa e volli assolutamente evitare che in caso di vento il getto d’acqua strisciasse pateticamente sul lato del volto. Quindi inserimmo un sensore che, quando il vento supera un certo numero di nodi, blocca il sistema dell’acqua e attiva il sistema invernale. Non è mai successo, perché la tolleranza è molto alta. La cosa che mi fa più piacere è che ogni anno sul giornale annunciano l’arrivo della primavera quando viene rimessa in funzione la Crown Fountain. L’opera è diventata come un orologio che annuncia il ciclo delle stagioni.

Barbara Sansone: E anche come un elemento essenziale della città.

Jaume Plensa: Sì, ma tu sai che gli architetti e i politici non sopportano il vuoto: quando c’è un vuoto pensano che non ci sia niente o che si siano dimenticati di mettere qualcosa. E io sto ancora lottando perché non mi distruggano la Crown Fountain mettendoci cose, dato che non l’hanno ancora capita. Nel mio vuoto fanno mostre temporanee di sculture di altri, per esempio. La vita nello spazio pubblico è molto selvaggia, ma è anche per questo che mi piace. Non te lo dico con tristezza, perché se sopravvivi a questo sei un eroe.

La galleria e il museo ti offrono protezione: la gente, quando va a visitare un museo, sa che va a vedere arte e, se non la capisce, ritiene che il problema sia suo, ma non dubita del fatto che quella sia arte. Nello spazio pubblico, invece, ne dubita sempre e questo a me piace molto. Mi piace essere solo, rischiare, dover risolvere i miei problemi e per questo lo spazio pubblico mi entusiasma. E la Crown Fountain è riuscita a diventare un grande ibrido, di architettura, di dimensione sociale, di tecnologia (alcune tecnologie dovemmo addirittura inventarle), di lavoro in équipe, un altra cosa che mi piace molto.

Mi piace molto stare da solo ma adoro la collaborazione e sono convinto che nel mondo dell’estetica abbia molto futuro. È stato tutto un insieme di cose: mi sono sentito come un direttore d’orchestra dirigendo dei grandi musicisti e se guardi i disegni del progetto noti che sono esattamente identici al risultato. Questa è una prova della grande qualità dell’équipe che avevo, che è stata molto fedele all’idea, e dell’azione svolta dalla famiglia di angeli che mi proteggevano. Ecco la chiave del successo della Crown Fountain. Alcuni urbanisti mi hanno detto che secondo loro è il miglior spazio pubblico che si sia mai costruito (non parlano di scultura, ma di spazio pubblico!) e per me è una grande soddisfazione.

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Barbara Sansone: Come fu l’esperienza di Ogijima’s soul?

Jaume Plensa:Magnifica. Con Laura, quando siamo andati all’inaugurazione dell’opera, abbiamo preso il traghetto, siamo arrivati sull’isola e siamo rimasti là tutto il giorno. E abbiamo osservato come viveva l’opera. È un’opera molto tecnologica, molto sofisticata, ma è come se avessi messo un brillante sulla mano di una persona: la mano continua a eseguire le azioni di sempre. Quindi dentro la costruzione vedi signore con il grembiule che cucinano gli udon, un uomo che ci lascia la bicicletta, un altro che pulisce. Che capacità di abbracciare e assorbire l’opera! Ci ha assalito l’emozione e sul traghetto di ritorno sembravamo le persone più felici del mondo. L’isola è bellissima, uno di quei posti dove ti compreresti una casa per andarci a riposare.

Fa parte di un gruppo di 77 isolette che, nella foschia del mattino, sembra che galleggino. Ha appena 100/200 abitanti, gente deliziosa. Il paesino si arrampica sulla collina, in cima c’è il tempio, dall’altra parte un faro e all’improvviso, in primavera, tutto si copre di fiori, di iris, tutto diventa giallo. Se ti offrono la possibilità di fare un’opera in un posto così, è un gran privilegio. Quello che devi fare quindi è limitarti completare il paesaggio, apportare l’ultima pennellata in quadro già meraviglioso. Come fare qualcosa che renda ancora più bello ciò che sta intorno. Un’opera in uno spazio pubblico spesso è una scusa: non è l’opera in sé ma quello che genera intorno a sé.

Barbara Sansone:Come successe anche a St. Helens.

Jaume Plensa: Le due esperienze hanno punti in comune. Per esempio, entrambi sono luoghi con la necessità di rimettere in moto la loro economia: Ogijima perché è una di quelle comunità che sono invecchiate e non si rigenerano (la popolazione è invecchiata, non ci sono quasi più pescatori, le case sono vuote); a St. Helens, invece (un paese di minatori che al contrario di Ogijima ha un paesaggio durissimo, tipico del nord dell’Inghilterra), quando Margaret Thatcher chiuse le miniere di carbone, tutti gli abitanti rimasero disoccupati. Rigenerare la loro economia costò loro vent’anni e solo adesso cominciano ad alzare un po’ la testa. Le macchine furono smantellate e dai materiali residui sorse una collina di 86 metri sul livello del mare.

Un gruppo di ex minatori, con il sindaco, i curatori della biennale di Liverpool (molto attiva negli spazi pubblici) e con gente del Channel 4, che si interessò a questo caso, decisero di farne un parco, che però aveva bisogno di un’anima. Tra i vari artisti candidati scelsero me e quindi feci un primo sopralluogo. Notai subito che dovevamo estrarre l’anima che rimaneva nascosta da qualche parte e questa fu la sfida. Commettemmo molti errori, ma con la collaborazione di tutti ci riuscimmo. Il giorno dell’inaugurazione fu una grande festa. Tutto il paese, più di 2.000 persone, si mise in processione, con la banda. Scrissero perfino una canzone che si intitolava Dream, come l’opera. Questa è la vita reale della gente. Sembra che non sia intellettuale ma secondo me questo lo è profondamente. Questa è la vita.

Sì, probabilmente lo spazio pubblico mi attrae molto, perché non è manierato come il museo: è verità, se qualcuno ti dà la mano la senti. E la mano te la dà perché gli hai restituito l’orgoglio del suo luogo, gli hai restituito un senso di dignità. Fare un’opera a Chicago è molto facile, perché è una città in questo senso straordinaria, piena di arte in strada: Picasso, Miró, Calder, Chagall, ci sono tutti i miei antenati. Chicago era casa dei nonni, St. Helens no. Là si doveva inventare uno spazio, crearlo da zero. Dream, che ha ricevuto il premio come miglior scultura dell’anno 2009 in Inghilterra, fu costruita durante la crisi e ricevette molte critiche. Tipico: si dice che mancano banche e ospedali e si spendono soldi per le sculture negli spazi pubblici. Ma alla televisione il capo di questo gruppo di ex minatori disse una cosa molto bella: “Le crisi passano, l’arte è per sempre”. La curatrice della biennale di Liverpool si commosse profondamente. Vedi? L’arte ha una funzione sociale straordinaria.

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Barbara Sansone: E Barcellona non ti chiede di fare niente nello spazio pubblico?

Jaume Plensa:No, in Spagna credo che mi conoscano poco, ma va bene lo stesso [sorride].

Barbara Sansone: A me sembra molto ingiusto. E in Italia?

Jaume Plensa: Idem. L’Italia è simile alla Spagna nel senso che entrambi sono paesi meravigliosi e per questo tanto complicati. Sono paesi soffocati dalla bellezza ed è molto difficile sopravvivere al proprio peso culturale. Quando ero molto giovane andai a vivere in Germania e probabilmente sono cresciuto con un’altra mentalità. Poi mi trasferii a Bruxelles e in seguito a Parigi, dove insegnai per un breve periodo (ma, come a Chicago, pensai che era meglio non continuare). Là abbiamo ancora una casa, ma non ci andiamo spesso. Invece siamo tornati qui, con la comodità di stare molto vicino all’aeroporto, ma in Spagna, in realtà, faccio poca vita. Ma la Spagna mi piace e mi sento orgoglioso del fatto che grazie alla Crown Fountain comincino a pensare che la cultura mediterranea ha qualcosa da dire (la Crown Fountain per me è una piazza mediterranea). Credo che abbiamo molto da dire, ma dobbiamo farlo senza folklore. E in ogni caso secondo me l’importante è essere sempre straniero, anche a casa propria.

Barbara Sansone: Possiamo scendere nel laboratorio e vedere le sculture che state preparando?

Jaume Plensa: Certo, andiamo. In questo momento stiamo costruendo le sculture che andranno a Houston e qui vedete la “zuppa di lettere” che usiamo per comporle. Qui ci sono delle teste di alabastro: come vedete lavoro con il cuore dell’alabastro ma lascio intorno anche la parte che normalmente si scarta, perché mi piace moltissimo. Questa testa invece è la rappresentazione delle maglie di un modello 3D passate a fisico, cosa che volli realizzare a tutti i costi, ma non fu affatto facile e la prima volta ci impiegai 9 mesi. Ora sto lavorando a una alta 12 metri (questa che vedete è di 4), che si installerà a Calgary, in Canada.

Presenterà anche un’apertura per entrarvi e al centro ci sarà un pozzo dei desideri. Anche questo è molto classico, le teste sono un elemento tradizionale in molte culture: in Messico, in Cambogia, in estremo oriente. Appaiono facce addirittura sulla superficie di Marte… e mi piacerebbe conoscere il grande artista che le ha fatte [ride]. Qui potete vedere diversi modellini: Dream di St. Helens, l’edificio di Ogijima e la scultura che porterò al MIT per il 150º anniversario della fondazione dell’università. In questo caso ho usato i caratteri dell’alfabeto matematico. Ora stiamo cominciando una scultura di 8 metri per l’Università di Francoforte e a ottobre ci sarà anche un’altra inaugurazione a Salisburgo.

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Barbara Sansone: E questa è una delle casse che andarono al Nasher Sculpture Center!

Jaume Plensa: Sì! Essere invitato in questo centro, che ha sede a Dallas in un fantastico edificio progettato da Renzo Piano, fu un onore perché era la prima volta che dedicavano una mostra a un artista vivo. Là misi undici di queste teste in fila, come a Karnak, in Egitto. Mi ha sempre affascinato la ripetizione, mi sembra un atto molto primario che genera emozione. Alla gente, durante l’inaugurazione, dissi che come eccezione quel giorno potevano toccare le statue. Le guardie ebbero come un brivido, ma poi si lanciarono a toccarle insieme a tutti gli altri. La scultura se non la tocchi non esiste. Ogni materia ha un tatto differente, una temperatura.

In un museo ovviamente non è comune il contatto fisico con la scultura. Io cerco di mantenere questo punto classico. Secondo me la scultura ha un suo linguaggio e non mi piace quando l’artista impone il suo punto di vista. Miró diceva “Si deve assassinare la pittura dipingendo” e per me si deve trasformare la scultura però dall’interno della scultura. Qui vi sto raccontando e spiegando un sacco di cose, ma in un’esposizione non sono lì a far altrettanto con ciascun visitatore, quindi devono essere le mie opere a comunicare tutto ciò e ovviamente ciascuno farà la propria lettura, darà la propria interpretazione, così come io ho la mia.

Barbara Sansone: Quanta gente lavora qui con te?

Jaume Plensa:Adesso alcuni sono in vacanza, ma normalmente lavorano qui sei collaboratori, che sono tecnici ma con una certa sensibilità artistica. Ognuno sa fare molto bene una parte del lavoro e ci dividiamo accuratamente i ruoli. La scultura ha questo aspetto e a volte mi deprimo perché non posso fare tutto da solo o alcune parti del lavoro vengono fatte fuori.

Barbara Sansone: Però sotto questo punto di vista ti consoli con i disegni…

Jaume Plensa: Sì, giusto adesso è in corso una mostra di miei disegni al museo Picasso di Antibes. Tre anni fa lo rimodellarono e stavano facendo i lavori giusto in estate, che è il momento in cui arriva il maggior numero di visitatori. Quindi fui invitato a esibire una selezione delle mie sculture all’esterno, considerato tra l’altro che il museo all’interno non permette l’esposizione di sculture. Dopo aver analizzato lo spazio decisi di proporne solo una, Nomade. Ebbe un successo tale che mi chiesero di lasciarla dov’era, sul bastione di Saint-Jaume, ma la scultura era già prenotata altrove e il sindaco non si poteva permettere di comprarla.

Quando la togliemmo lasciò un vuoto enorme. Dopo sei mesi il sindaco mi chiamò e mi disse che tutti gli chiedevano perché l’avessero tolta. Quindi mi promise che se avesse vinto le elezioni successive avrebbe trovato il modo di accoglierla di nuovo. I soldi continuavano a mancare, ma mi potevano pagare almeno la fabbricazione e io accettai con molto piacere. Il sindaco vinse le elezioni e reinstallammo la scultura, mentre all’interno si inaugurò la mostra dei miei disegni.

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Barbara Sansone: Le figure intere che fai sono maschili, mentre le teste sono sempre femminili, vero?

Jaume Plensa: La figura intera in realtà è ermafrodita. Le sculture di alabastro e di pietra sono sempre bambine, tra i 9 e i 12 anni. Per me il futuro come concetto è femminile. Noi uomini siamo come un incidente, abbiamo una funzione più tangenziale: l’uomo può provocare movimento, ma non lo conserva; può provocare eventi, ma non ha memoria. La memoria è femminile. Se in una famiglia muore il marito, la famiglia va avanti. Se muore la donna, la famiglia si disfa. Lo vedo anche in natura. In giardino ho una gatta che sta sempre lì e invece c’è un gatto maschio che viene, la mette incinta e sparisce [ride].

Il futuro come concetto è femminile e se è così quale maniera migliore di rappresentarlo se non con una donna-bambina in questo momento della vita, in questa fase di transizione? I ragazzi non attraversano un momento simile, ma vivono un’adolescenza più lunga e all’improvviso diventano uomini. Ed è curioso che quando riproduco le teste di queste bambine e poi le allungo verticalmente diventano improvvisamente più mature, sembrano più grandi. Non so perché: saranno gli occhi chiusi, o l’assenza di colore…

Barbara Sansone: E queste sculturine di lettere? Sono deliziose!

Jaume Plensa:Non lo avevo mai fatto prima, ma ultimamente sento come il bisogno di lavorare più in miniatura, di fare queste opere più piccole. E sai che è molto più difficile che lavorare a grandi dimensioni? Però è vero, sono dei gioiellini. La lettere graficamente sono molte belle, sono state corrette e ripulite nel corso di generazioni, fino a ridursi a segni essenziali. Come puoi rappresentare una cultura meglio che con il suo alfabeto? Non so, ne sono come rapito, intrappolato [ride].

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Barbara Sansone: Che bella vita che fai…

Jaume Plensa: Sì, ne sono felicissimo [sorride].

E in effetti Jaume appare proprio felice, facendo esattamente quello che deve fare, esattamente dove lo deve fare. Concludere questo incontro non è stato per niente facile. Quest’artista meraviglioso ha molti aneddoti interessanti da raccontare e lo fa in modo divertente e poetico. E nel suo laboratorio, dove si forgia tanta bellezza, si respira un’atmosfera inebriante. Per questo, ritornando alla stazione, Angharad e io ci sentivamo come in una nuvola. E osservavamo i volti della gente della cittadina chiedendoci se avessero coscienza di quanto accade ogni giorno in quel capannone accanto a casa loro. Probabilmente no e si perdono davvero qualcosa.


http://www.jaumeplensa.com/