Una grande mostra dedicata al Brasile del presente, dislocata nei tre maggiori spazi espositivi di Rotterdam, si è conclusa alla fine dell’estate. Si tratta di Brazil Contemporary, il punto di arrivo di un impegnativo progetto di ricerca sulla cultura visiva, sociale ed architettonica del Paese.

La mostra è stata pensata per essere divisa in tre sezioni principali: il Nederlands Fotomuseum ha ospitato un’ampia sezione sulla cultura visiva brasiliana degli ultimi decenni, concentradosi su fotografia sperimentale, fotogiornalismo, video e design grafico. Il museo d’arte della città, il Museum Boijmans Van Beuningen, si è invece focalizzato sulle arti visive e sull’arte contemporanea. Ultimo, il Nederlands Architectuurinstituut ha voluto invece costruire una panoramica su architettura ed urbanistica del Brasile, soffermandosi in particolare sui contrasti di San Paolo.

Un catalogo pubblicato da Nai Publisher ripercorre la vasta ricerca che ha supportato la realizzazione del progetto espositivo. Si tratta di un volume ricco di immagini e di testi, confezionato in una grafica accattivante e che ricorda vagamente i colori tropicali: il suo obiettivo sembra dimostrare che, per quanto la parola Brasile si associ nella mente dell’uomo medio con il carnevale, la Samba, le Favelas, la foresta tropicale e le Telenovelas, il Brasile è di fatto un continente, un mondo a sé stante, ricco economicamente e culturalmente, nel quale ricerche e sperimentazioni nell’ambito delle culture visive vanno di pari passo con le immagini esotiche che i mass media non fanno che replicare.

Il volume “Brazil Contemporary” (edito da Paul Meurs – già curatore negli anni passati di altri volumi sul Brasile e la sua storia architettonica – insieme a Frits Gierstberg e Jaap Guldemond) si apre con un saggio intitolato Brazil: the Multicultural Mix as Global Brand, che tenta di fare un riassunto dei temi chiave che hanno dato forma alle tre esposizioni, pur nelle loro specificità.

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Il Brasile contemporaneo è caratterizzato da un’incredibile crescita economica (tanto che il quotidiano economico british “Financial Times” ha dichiarato nel 2008 il suo status di “quasi superpotenza”); da un’incrollabile ottimismo della classe dirigente guidata dal presidente Ignacio Lula da Silva e da una serie di mosse politiche e culturale per sottolineare la presenza ed importanza del paese a livello internazionale (dalle missioni di pace dell’Onu ai finanziamenti privati ad arte e cultura). Il tutto, sempre secondo gli autori, fa parte del presente del paese insieme alla solidità conquistata negli anni grazie a una cultura popolare esportata in ogni angolo del mondo (dalla Samba alle Telenovelas) ed a una cultura “alta” altrettanto solida (dalla Biennale di San Paolo, fondata negli anni Settanta sul modello di quella di Venezia, a figure gigantesche come quella dell’architetto Oscar Niemeyer, 102 anni nel 2009 e creatore di Brasilia).

Gli spunti messi in gioco nella costruzione del libro sono interessanti: un mix di cultura pop, cinema degli ultimi anni, analisi delle politiche culturali del paese (e della costruzione delle sue istituzioni legate all’arte), della sua storia artistica, architettonica. E certo gli autori, e per primo anche Meurs nel suo saggio sulla città di San Paolo (Sao Paulo the Metropolis: expansion, contradictions and expansion) puntano soprattutto a delineare un quadro in cui ipermodernità e contraddizioni convivono in maniera parossistica e poco riguardosa per la maggiorparte della popolazione, schiacciata da povertà e vita marginale nelle metropoli.

Certo il modello di crescita economica brasiliana somiglia forse a quella discutibile cinese (della quale ci siamo occupati in un’altra recensione su The Chinese Dream – L’incubo cinese? per Digimag 44 del Maggio 2009 – http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1447).

Si può certamente dire che soprattutto la mostra installata all’Istituto olandese di architettura Roundtrip São Paulo, curata ancora da Meurs, rientra di più in questo argomento teorico dell’ipermodernità versus i contrasti sociali. Qui viene proposta allo spettatore l’esperienza della città di San Paolo attraverso una serie di videoinstallazioni e proiezioni ambientali: una ricerca di urbanistica postmoderna, in cui l’analisi del tessuto cittadino della megalopoli brasiliana avviene attraverso l’uso di diversi tipi di documentazioni audiovisive, installate in un unico ambiente arredato con oggetti tipici della cultura materiale quotidiana del paese.

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Camminando tra baretti con i tavoli di plastica, casse (anche queste di plastica) di bottiglie di birra locale, infradito in plastica, cabine del telefono e ricostruzioni delle tipiche case delle favelas, lo spettatore si trova a muoversi tra proiezioni video a dimensione umana che ritraggono spazi della città, di fatto sentendosi parte di quella porzione di spazio urbano, tra passanti, vetrine, porte di edifici e homeless. Di tanto in tanto dei piccoli televisori mostrano estratti di documentari sulle tre San Paolo: la città “Diy” (do it yourself, cioè autoprodotta, abusiva, spontanea, marginale); il centro città (che un po’ come a Rotterdam non esiste in quanto centro ma in quanto spazio che contiene anche edifici antichi; la città “new economy”.

Interviste a passanti, senza tetto, operatori sociali, abitanti delle favelas, lunghe sequenze di vita urbana (centrale e marginale), scene di vita quotidiana negli spazi pubblici: un mix audiovisuale a flusso continuo che ha il potere di mettere in atto la realtà urbana complessa e stratificata ma giocano forse troppo sui luoghi comuni. Plastica e legno, favelas e cultura materiale pop e colorata, povertà estrema e grattacieli: certo San Paolo (insieme a molte delle megalopoli mondiali dei paesi non occidentali) deve presentarsi così a noi osservatori abituati alle città disenyficate dell’europa occidentale: la domanda che mi faccio è se sia ancora plausibile usare la nostra esperienza culturale come unica misura di giudizio.

Le due esposizioni del Fotomuseum e del Boijmans riescono forse ad essere meno chiuse in questo approccio teorico, dando forma a un’esperienza in cui proprio esotismo e contrasti sociali appaiono messi da parte come gli aspetti forse meno vistosi della cultura contemporanea del paese.

Il Boijmans Van Beuningen parla invece delle arti visive brasiliane riconnettendole con la sua modernità e ricostruendo così un percorso che si basa sull’eredità di un modernismo profondamente influente, sia sulla cultura brasiliana sia su quella internazionale. I Bólides di Helio Oiticica sono il punto di arrivo e di partenza della mostra che ospita anche quattro artisti delle ultime generazioni: Rivane Neuenschwander, Cao Guimaraes, Ernesto Neto, Ricardo Basbaum.

Queste scatole/sculture installazioni di legno colorato, costruite in maniera da poter essere aperte, contenenti pannelli e spacchi, erano pensate e realizzate dall’artista concettuale come oggetti per gli spazi pubblici con i quali ilo spettatore (non necessariamente quello dell’arte, ma il pubblico inteso come contesto sociale allargato) potesse interagire. Pensati e realizzati negli anni Sessanta, poco prima dei Penetrávels (installazioni di più grandi dimensioni nelle quali lo spettatore poteva entrare) e dei famosi Parangolés (costumi costruiti di materiali vari che una volta indossati permettevano di muoversi negli spazi come una scultura mobile), i Bólides sono l’essenza del concettualismo latino americano degli anni Sessanta: interattivo, sociale, minimale, fatto di oggetti “poveri”. Non estetico ma politico, come anche l’artista e critico d’arte paraguayano Luis Camnitzer sottolinea nel volume da poco pubblicato Conceptualism in Latin American Art. Didactics of Liberation, insistendo sull’idea che il concettualismo latinoamericano sia non una copia tropicale di quello originario euro/nord americano ma il prodotto originale di una storia e tradizione culturale prettamente latina, basata sulla necessità di comunicare nello spazio sociale, con qualsiasi mezzo necessario, per costruire metafore che potessero essere largamente capite e condivise pur aggirando il rischio di essere censurati da regimi e dittature.

Una condizione comune a diversi paesi dell’America Latina degli anni Sessanta e Settanta perfettamente incarnata da Helio Oiticica. I suoi Bólides (che non potevano purtroppo essere toccati nella mostra di Rotterdam) nient’altro erano che la decostruzione dell’idea dell’opera d’arte come qualcosa di fisso ed inintelligibile, ma piuttosto come un ente interattivo, che lo spettatore – preso nella sua vita comune – potesse esperire, usare, ricombinare, indagare. Un’interattività ante litteram, basata non sulla tecnologia ma sull’uso di materiali presi dalla vita quotidiana (similitudine questa con l’Arte Povera forse, ma senza la sua componente estetica), assemblati secondo linee e forme semplici e lineari (altro link con un capitolo della Storia dell’Arte – il Minimal – ma senza la sua finalità conclusa nell’opera stessa).

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Solo percependo completamente il discorso di Helio Oiticica possiamo capire il senso del lavoro di Ernesto Neto, presente negli spazi del Boijmans con la sua famosissima Celula Nave. Un enorme nube fucsia nella quale sprofondare, contenuta da una intricata struttura molecolare fatta di nuclei collegati tra loro. Qui lo spettatore entra, si sdraia, si lascia andare, vive un’esperienza di abbandono e spaesamento in una struttura quasi organica che ti culla e ti disconnette dalla vita esteriore, per metterti in pace con quella interiore.

Ernesto Neto racconta in un video (http://www.vimeo.com/5486580) prodotto dal museo Boijmans il concept del lavoro, facendo riferimento al concetto di sensualità: «Sexy is more like a product. Sensuality is about the time, about having more time, about being more slow», sottolineando che l’interattività di questa specie di molecola con lo spettatore accolto e coccolato nelle sue viscere si dà proprio nella sua capacità di lasciarsi andare ad un’esperienza dei sensi. La struttura, costruita con un enorme cuscino riempito di polistirolo ed una sottile rete elastica e trasparente che si autosostiene (incatenata a terra da contrappesi di sabbia e alzata verso il cielo da semplicissime aste di plastica), è erede dell’interattività di Oiticica anche nella sua forma semplificata e nella possibilità di essere adattata all’ambiente, decostruita, trasportata, cambiata, esperita, vissuta.

Il Museo della Fotografia propone infine forse la mostra più densa e complessa delle tre, nella quale la cultura visuale brasiliana a 360 gradi viene presentata come elemento di autonarrazione. I videogiochi ci parlano di una realtà tecnologica più che sviluppata (e non è un caso che da anni il,Brasile professi l’open source e la condivisione come modello di sviluppo tecnologico e culturale). Video e fotografie, grafica e design, moda e musica non ci raccontano la cronaca e nemmeno lo stato della produzione estetica, ma piuttosto la volontà di narrare il paese contemporaneo uscendo dai clichè (del tutto nordamericani o occidentali) che parlano di violenza, favelas, bambini poveri, samba, splendide ballerine dalla pelle ambrata, calcio e spiagge immense.


http://www.brazilcontemporary.nl/en/

http://www.boijmans.nl/

http://www.nederlandsfotomuseum.nl/

http://en.nai.nl/