Qualche anno fa, a qualsiasi evento di arte digitale si partecipasse a Barcellona (e non solo) si incontrava un personaggio onnipresente. Si trattava di José Luis de Vicente, scrittore, teorico, curatore, ricercatore che era coinvolto attivamente in eventi come Sónar (http://www.sonar.es), OFFF (http://www.offf.ws), ArtFutura (http://www.artfutura.org).
Josè era ed è ancora oggi piuttosto conosciuto a livello internazionale per il suo blog Elástico (http://www.elastico.net), che lo ha fatto includere, insieme alla collega Marta Peirano, tra i cultural blogger europei nella raccolta di interviste di labforculture.org (dove appare anche un capitolo dedicato a Marco Mancuso direttore di Digicult).
Da qualche anno, José Luis ha interrotto la sua collaborazione con questi festival per seguire un percorso personale. Attualmente, oltre a far parte di svariate giurie (Prix Ars Electronica, Transmediale Award, Vimeo Award, per citarne alcune), a insegnare presso l’Elisava (http://www.elisava.net/) di Barcellona, a dirigere il programma Visualizar del Medialab Prado di Madrid (http://medialab-prado.es/visualizar), a curare mostre come l’attuale Habitar (http://www.laboralcentrodearte.org/en/735-concept) presso la Mediateca Expandida del centro d’arte e creazione industriale LABoral di Gijón (http://www.laboralcentrodearte.org), José Luis, con altri 12 collaboratori di diversa estrazione, è impegnato nelle attività di ZZZinc (http://www.zzzinc.net), una piattaforma (ma anche uno spazio e un laboratorio) di produzione, ricerca e divulgazione culturale con sede a Barcellona.
José Luis de Vicente ci è sempre sembrato un curatore con una visione particolare e molto personale, ma anche un personaggio a tutto tondo che è stato capace di diventare rapidamente noto grazie ai suoi molteplici interessi, al genuino entusiasmo con cui condivide la sua conoscenza e all’attenzione continua che presta alle dimensioni sociali del fenomeno new media art. Per questo ritenevamo specialmente interessante fare una chiacchierata con lui e lo abbiamo incontrato un giorno nel C3 bar del Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona.
Barbara Sansone: Quale è stato il percorso che ti ha portato fin qui?
José Luis de Vicente: Il mio background non risiede nel mondo dell’arte e la mia relazione con l’arte è in un certo senso casuale, accidentale. All’inizio volevo studiare giornalismo per dedicarmi alla divulgazione culturale. Ma mio padre, che è giornalista come lo era mio nonno, mi consigliò di studiare invece quello su cui mi sarebbe interessato scrivere. Quindi studiai letteratura contemporanea e mi specializzai in letteratura inglese e nordamericana contemporanea. In quel momento (primi anni 90), nel sistema educativo spagnolo non esisteva esattamente il campo in cui mi interessava specializzarmi, ma cominciava a emergere la prima ondata della cultura digitale, basata soprattutto sulla cybercultura californiana e sui modelli di “Mondo2000” (http://www.mondo2000.net/), “Wired” (http://www.wired.com), la Electronic Frontier Foundation (http://www.eff.org/).
Era anche il momento in cui presso le istituzioni educative si cominciava ad avere accesso a Internet. Si trattava di un Internet completamente diverso da adesso, di una sorta di società segreta formata da persone affascinate dalla possibilità di comunicare attraverso un canale che per la maggior parte della gente nemmeno esisteva. Nel corso di quegli anni cominciai a rendermi conto del fatto che ciò che più mi interessava erano l’ambito, l’intersezione, la ripercussione nel contesto della cultura dei modi sociali, della tecnologia come agente di trasformazione e di cambiamento. Sempre nei parametri della cultura intesa in un modo più ampio, non specificamente vincolata al contesto dell’arte.
Nel ’98, quando stavo terminando l’università, ArtFutura, il primo festival spagnolo di arte e tecnologia, dopo qualche edizione a Barcellona e a Madrid si stabilì a Siviglia, la mia città. Partecipai come spettatore ed ebbi l’opportunità di vedere Derrick de Kerckhove, Eduardo Kac, persone che stavano lavorando nell’ambito della realtà virtuale e su dispositivi come il Cave. E fu un colpo di fulmine: mi accorsi che mi volevo occupare proprio di quello. Non fu il primo contatto con il mondo della cybercultura, perché come ti ho detto durante l’università avevo letto riviste come “Mondo 2000” e “Wired”, mi ero interessato al pensiero cyberpunk come genere letterario e dell’apparizione della rete come spazio autonomo, avevo seguito varie linee di lavoro. Ma l’occasione che mi rivelò cosa realmente volevo fare da grande fu il festival.
Al termine del festival scrissi per chiedere che, nell’edizione dell’anno seguente, mi permettessero di fare qualunque cosa, di aiutare in qualunque modo. Ci misero un mese e mezzo o due a rispondermi, ma lo fecero in modo caloroso. Nel 1999 dunque entrai a far parte del team del festival, come volontario. Nel 2000 mi affidarono un primo incarico, che fu una selezione di opere di Chris Cunningham. Nel frattempo avevo conosciuto gente coinvolta in varie comunità online spagnole nel contesto del software libero, come barrapunto (http://barrapunto.com/), dove cominciai a scrivere. Queste prime attività mi misero in contatto con giornalisti che scrivevano sui new media su Internet, un mondo interessante perché erano gli albori del giornalismo digitale.
Fui fortunato perché era un momento in cui in Spagna c’era molto bisogno di scrivere su Internet a proposito di Internet e non c’era molta gente in grado di farlo, mentre io da almeno quattro anni sapevo di cosa si trattava. Quindi ebbi l’opportunità di cominciare a scrivere su “El Mundo”, nel “Diario del navegante” (http://www.elmundo.es/elmundo/navegante.html), un giornale nazionale. E per me fu sorprendente perché il primo articolo che scrissi su El Mundo era il terzo o il quarto articolo che scrivevo nella mia vita! Furono anni interessanti perché il giornalismo digitale stava inventando se stesso in tempo reale. Potevi fare quello che volevi: improvvisamente venivano a mancare i limiti tradizionali imposti dalla carta. Quindi per due anni proseguii il mio lavoro nell’ambito del giornalismo digitale, più che altro come divulgatore di ciò che stava succedendo nel mondo della cultura digitale e nel punto di incontro tra cultura e tecnologia, mentre mantenevo la mia relazione con ArtFutura, che per me rappresentava un veicolo per esplorare molte cose e non solo l’arte.
Nel 2000 il festival lasciò Siviglia e tornò a Barcellona, dove rimase fino all’anno scorso. Ci furono molti cambiamenti nell’organizzazione e Montxo Algora mi invitò a trasferirmi per lavorare con lui nel festival, di cui divenni vicedirettore. Arrivai qui nel maggio del 2001 e da allora una cosa portò all’altra. Vennero Sónar e OFFF, per esempio. Nell’ambito del giornalismo le cose erano variabili: certi anni scrivevo di più, altri di meno. Con tre amici giornalisti fondammo un blog collettivo, Elástico. Ora qui a Barcellona insegno all’Elisava, curo progetti in vari contesti e da poco abbiamo aperto ZZZinc, un nuovo ufficio, un gruppo di lavoro che sviluppa progetti nel contesto di ricerca, innovazione e cultura.
Barbara Sansone: Qual è oggi il rapporto tra curatore e artista? Il curatore tende a sopraffare l’artista, a sentirsi in competizione con lui, o ne è complice?
José Luis de Vicente: Le relazioni possono essere definite in base a molti parametri. Senz’altro questo è un caso di interesse comune in cui ciascuna parte ha qualcosa che l’altra vuole. A volte questo si traduce in una relazione corretta, professionale e semplice e in altri casi, che sono i migliori, in un reale processo di complicità intellettuale, dove il curatore interpreta in un certo modo quello che fa l’artista e all’artista piace che lo si veda in quel modo e che lo si situi in una condizione che gli permette di crescere, di vedersi sotto un’angolatura diversa. Le occasioni assolutamente ottimali, come è ovvio, sono quando non c’è niente e insieme ci sia aiuta, uno creando le condizioni e l’altro sviluppando un’idea.
Le relazioni ovviamente sono tante quante sono le persone e le circostanze. Una mostra comunque è una finestra sul mondo di un artista e a partire da un certo momento diventa un artefatto tra l’istituzione e l’artista mediato da un curatore che in qualche modo crea discorsi, linee di pensiero, cornici. Questo è il tipo di curatorship che mi interessa. Quando diventa solo un processo quasi tecnico che consiste nella presentazione del lavoro di un determinato artista in condizioni idonee mi sembra rispettabile ma lascia pochissimo spazio. Alla fine fare una mostra può essere molto facile: certamente ci sono delle difficoltà, delle complessità, ma in sé, credo, non è un’immensa sfida intellettuale. Per me lo diventa solo se ne fai un veicolo per raccontare ciò che vuoi.
L’aspetto per me più interessante delle mostre è il poter contare da un lato con la capacità di generare un discorso, un punto di attenzione verso ciò che si vuole dire e dall’altro con altre qualità come per esempio gli spazi, che io adoro. Presentare un’idea come uno spazio e non come un testo molte volte mi sembra più interessante, più potente. Credo che semplicemente, almeno nel mio contesto e capisco che non si può applicare in molti altri dove i condizionanti sono diversi (nell’arte contemporanea in generale credo di no), è un artefatto che proviene da un processo di negoziazione, di cui il curatore forse è il principale incaricato, perché deve generare una certa quantità di condizioni con agenti diversi, che ovviamente hanno interessi diversi, condizionanti diversi, necessità diverse.
Barbara Sansone: Ma cosa succede se l’idea del curatore diverge da quella dell’artista?
José Luis de Vicente: Tutte le decisioni del curatore passano per diversi filtri e molte sono questioni concettuali. Per esempio tu vuoi che un’opera faccia parte di un certo percorso o che per le necessità del festival alcune opere restino tutte insieme. A volte è una scelta soggettiva del curatore, che ovviamente non è bello che vada contro la volontà dell’artista. A volte il curatore ha una distanza che gli permette di vedere delle cose che l’artista non vede e di fatto le decisioni più indovinate sono quelle che prendono un artista con una certa idea ma che non sa generare una situazione di lettura e lo situano in condizioni concrete.
Ma poi ci sono molti fattori determinanti: soprattutto si tratta di processi di negoziazione politica in contesti istituzionali. Per esempio, il fatto che Ars Electronica (http://www.aec.at/) quest’anno dovesse essere nella fabbrica è stato il risultato di una decisione politica che emanava da una relazione istituzionale tra un’organizzazione e l’altra. E questo in molti casi si notava, creando difficoltà che in molti altri contesti non c’erano: non si poteva appendere niente alle pareti, era difficile circolare nell’edificio perché c’era molto più spazio del necessario e le sequenze non erano chiare, condizioni come la luce o il suono in alcuni casi non si potevano controllare.
Ma alla fine fai sempre quello che puoi con quello che hai, anche nelle circostanze più adatte. Un altro esempio è Máquinas y Almas (http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1266), una mostra che ha dovuto affrontare moltissime difficoltà e superare molti limiti. Credo che mai più nella vita farò un progetto con quel budget e quei limiti, mai, neanche se dovessi lavorare altri 50 anni! Spesso ci sono limiti di ogni tipo e la negoziazione istituzionale è molto complicata. È come un rompicapo: hai determinati elementi da combinare e devi cercare di ottenere il risultato che raggiunga il maggior numero di obiettivi possibile. Ma raggiungerli tutti spesso non è realizzabile.
Barbara Sansone: I curatori, di solito, come i registi cinematografici, sono noti solo agli addetti ai lavori e agli appassionati e rimangono dietro le quinte per il resto della gente, che ricorda la mostra, l’artista, l’opera ma non l’ideatore di ciò che ha visto. Ma il tuo è un caso diverso: la gente ti conosce.
José Luis de Vicente: Davvero? Io non ho questa percezione [ride]! A volte penso che non esiste un pubblico diverso da noi! Che non esiste un pubblico in generale e che siamo sempre gli stessi. E non mi è mai interessato che andasse così: mi sono sempre sentito un divulgatore. Ma non credo di essere più conosciuto di altri. Pensa a Jorge Luis Marzo o Mery Cuesta: secondo me le loro personalità e i loro discorsi impregnano moltissimo tutti i loro progetti, li mettono molto in primo piano. Loro sono davvero curatori-autori. Io ho una serie di ossessioni e di interessi, su cui insisto continuamente e che oltretutto cambiano molto: non ho mantenuto una linea fissa ma ho saltato molto a una parte all’altra… non so, forse perché sono una specie di flâneur intellettuale, un po’ dilettante. Mi lascio affascinare da un’epoca e poi da un’altra e cambio direzione continuamente.
Mah, non so cosa dirti: non credo che la gente mi conosca più di altri. Una cosa che per me è molto importante e che credo più o meno di essere riuscito a ottenere è che in generale mi sembra che la gente mi capisca. Cerco di comunicare le cose che voglio dire nel modo più semplice e intelligibile possibile e per me questo è fondamentale: è molto importante non concepire i progetti come contenitori ermetici che obbligano il fruitore a introdursi in un codice che non capisce o che non controlla a priori. Forse è questo. Non so, è difficile parlare di se stessi.
Barbara Sansone: Io credo che un motivo sia anche il tuo atteggiamento: in molte occasioni in cui eri curatore ti ho visto in mezzo al pubblico, divertito, entusiasmato, e questa energia inevitabilmente si trasmette.
José Luis de Vicente: Questo è vero: l’entusiasmo, l’eccitazione quando vedo una cosa davvero interessante sono sempre stati il mio motore principale. Ed è vero che molta gente si mantiene più distante dal progetto, mantiene come un sospetto, una distanza intellettuale. Io no: io sono un fan, è vero, mi lascio coinvolgere molto, non so reagire in altro modo. Tra l’altro è vero anche che a un certo punto lavoravo in tanti progetti che la gente mi incontrava dappertutto, doveva trovarmi addirittura un po’ noioso [ride]. Era anche un momento in cui non c’era molta gente che si occupava di queste cose. Adesso ce n’è di più, mi sento molto più accompagnato di cinque anni fa. Varie persone che lavoravano seguendo linee diverse si sono a poco a poco avvicinate e ormai non è strano vederle negli stessi contesti.
Barbara Sansone: In parte mi hai già risposto, ma magari hai qualcosa da aggiungere: in che senso la personalità del curatore condiziona l’evento? Per esempio, quando hai lasciato l’OFFF o l’ArtFutura si è notata una differenza. Perché? Cosa ci mettevi di così tuo?
José Luis de Vicente: Chiunque apporta un punto di vista, uno sguardo. Quello che c’è la fuori è una massa informe di produzioni e quello che facciamo noi fondamentalmente è proiettare uno sguardo, unire i punti in un determinato modo creando un racconto. È molto simile al processo di preparazione di un giornale nel quale si decide quali sono notizie e quali no. Allo stesso modo i curatori decidono come relazionare le opere e come generare una determinata visione.
Per esempio il festival OFFF era incentrato sulla comunità del design e del web design. Io cercavo uno spazio che cominciasse nei margini sperimentali del contesto del design e che arrivasse fino a una sensibilità più pop, più diretta, probabilmente un po’ sofisticata e tecnicamente spettacolare, che era perfetto per quel contesto. Quindi selezionavo vari personaggi che non appartenevano alla comunità diciamo originale di artisti e designer che passavano per OFFF e li portavo perché mi sembrava che espandessero molto il punto di vista dell’evento: gente come Casey Reas, Ben Fry, Jonathan Harris o Graffiti Research Lab. Molti che non erano web designer, non lavoravano in agenzie, però avevano ampliato molto questo vocabolario e mantenevano un’ambiguità e pari distanza dal mondo dell’arte e da quello della produzione commerciale nell’ambito del design. Questo per me era molto importante perché espandeva l’evento, lo rendeva molto di più di un semplice congresso di web design. Quando me ne andai probabilmente il festival recuperò il suo carattere originale e questi sono i casi in cui l’impronta dei programmatori si nota.
Quanto ad ArtFutura, il festival veniva da una tradizione storica ben determinata: il contesto in cui sorse nel ’90 era molto concreto ed è sempre stato un progetto complicato perché voleva mantenere una relazione totalmente tranquilla e senza complessi tra la produzione culturale e artistica e le produzioni commerciali. Tutto era tutto: potevi presentare progetti artistici e produzioni di Hollywood uno dietro l’altro e si dava per scontato che questo non fosse un problema. Ma in molti casi sì che lo era: si perdeva leggibilità o una produzione gettava ombra sull’altra. E ArtFutura veniva sempre associato a effetti speciali per il cinema e videogiochi commerciali, quando negli anni che io vi lavorai vidi passare Howard Rheingold, Bruce Sterling, Steven Johnson, Lev Manovich .
Barbara Sansone: Tu ti occupavi della prima giornata del week-end di festival, vero?
José Luis de Vicente: Sì, diciamo che il giovedì e il venerdì erano più miei; il sabato, che era la giornata dedicata all’animazione, era più di Montxo Algora; e la domenica, che era dedicata ai videogiochi, finivamo per intrecciare una relazione ambigua molto interessante con Daniel Sánchez-Crespo. Io trovavo un modo per creare un dialogo tra sviluppatori commerciali di videogiochi, artisti che lavorano nell’ambito dei videogiochi o creatori di videogiochi indipendenti e media art o arte digitale come qualcosa che faceva parte anch’essa di questa cultura.
Un anno per esempio vennero Toshio Iwai e Tetsuya Mizuguchi, che furono compagni alla scuola d’arte e uno divenne uno dei nomi dell’arte interattiva storicamente più importanti, mentre l’altro uno dei più grandi designer di videogiochi. Fu interessante metterli insieme a parlare di cosa hanno in comune i loro lavori e scoprire in cosa si sono allontanati. In questo, sì, credo che ArtFutura apportò qualcosa, perché queste cose non succedevano in altri contesti.
Barbara Sansone: Secondo te, come si definiscono e come si valutano le opere di new media art?
José Luis de Vicente: Andiamo per parti. Per quanto riguarda la definizione, per me il punto è qual è la conversazione che un’opera vuole avviare, quali domande pone, che cosa si sta introducendo attraverso questo artefatto, questo dispositivo, che prima non c’era. Quindi cosa distingue un’opera di media art da una che non lo è (che è arte contemporanea, che è un’altra cosa)? Non so, ci sono persone che si preoccupano molto di questa questione, ma a me interessa solo relativamente: ciò che per me è importante è la conversazione. In questo senso mi sento molto più a mio agio in una certa scena nell’ambito della new media art perché si pongono domande che a me interessano (mentre nell’ambito dell’arte contemporanea no).
Passando alla valutazione, come si decide che opera è bella e quale no? Non esistono criteri esatti, sarebbe molto difficile definire una scala. Ciò che per me è importante è che l’opera permetta da un lato di accedere a certi livelli di percezione dall’altro di aprire una discussione, di chiamare in causa un problema, di suscitare una situazione di crisi o di aprire un campo di possibilità, di far apparire improvvisamente uno scenario che prima non esisteva. Credo che qui si possa trovare un modo di valutare se un’opera è buona o no. Non certo nel suo valore come pezzo di tecnologia funzionale: questo è un errore classico. Nel suo valore come esperienza interattiva? Dipende, ma per me non è un elemento centrale.
Mi sembra che molti dei progetti di media art che mi hanno interessato in generale in fondo hanno un aspetto molto fragile, precario. Più che realtà solide e definite sono tentativi, versioni alfa di quello che potrebbero arrivare a diventare. Ma le trovo più interessanti perché cambiano la conversazione, cambiano il discorso. Per esempio un’opera che mi è piaciuta molto ad Ars Electronica quest’anno è stata quella di Daan van den Berg, un designer che diceva di aver creato (in teoria, ma io lo assumo come un racconto, non è necessario che sia realmente così) un virus che modificava i file CAD-CAM dei modelli di Ikea e creava malformazioni come se fosse un virus biologico. E quindi proponeva queste lampade di Ikea con deformazioni, il che ha anche a che vedere con la comparsa di un mezzo relativamente nuovo come il rapid prototyping, la fabbricazione digitale e questioni che stanno sorgendo come la mass customization, la personalizzazione di massa che si contrappone alla produzione di massa, alla produzione in serie di oggetti identici su grande scala. Insomma, vi ho trovato molti ideali interessanti che non stanno ovviamente solo nell’oggetto in sé, ma anche nel racconto e nel fatto di decodificarlo.
Nel contesto del new media io credo che questi racconti alla fine la maggior parte della volte sono proof of concept, prototipi, possibili incarnazioni di una ricerca. E, ovviamente, leggere la ricerca attraverso la prova tangibile, fisica, molta volte non è facile, quindi la cosa importante è entrare in contatto con i processi che hanno generato la realizzazione della prova del dispositivo e la sua presentazione molto più che con l’oggetto in sé. Per questo sono molto scettico dinanzi alla presentazione della new media art in formati di mostre più o meno standard. Spesso vai a una mostra di new media che vuole essere un’altra cosa ed è installata da un mese e ti trovi da solo con tutti quei dispositivi, davanti a una specie di cadavere in decomposizione, a qualcosa che il primo giorno funzionava, ma presto ha smesso di farlo.
Barbara Sansone: Secondo te, in che senso, ad esempio, un progetto come The eye writer di Zach Lieberman, Chris Sugrue, Theo Watson e dei Graffiti Research Lab, è un’opera d’arte e non solo uno strumento realizzato da artisti per artisti?
José Luis de Vicente: Questo progetto è la prova dei confini che si confondono. Anch’io ho avuto questo dubbio finché non ho visto un’immagine: come parte della ricerca, i dati che Tempt (http://temptone.wordpress.com/) disegna con i suoi occhi dal letto dell’ospedale finiscono per essere generati come output, per essere prodotti da dispositivi di diverso tipo. Uno di questi è un braccio robotico di quelli che si usano normalmente nelle fabbriche di automobili, che viene usato e adattato per creare graffiti, riprodurre i suoi disegni su un muro. Quindi si genera questa relazione molto strana tra qualcuno immobilizzato in un letto d’ospedale, che non potrà mai più muovere nient’altro che gli occhi, e uno strumento di tecnologia industriale cui normalmente non abbiamo accesso, che all’improvviso diventa la sua incarnazione, il suo nuovo corpo. So che c’è una forte componente di fantasia, di fantascienza, però in questa dislocazione c’è qualcosa che mi sembra molto interessante.
E parlando con alcuni di loro all’aeroporto, di ritorno dall’Ars Electronica, commentavamo come questo scenario si farebbe ancora più interessante se si spingesse ancora più in là. Theo Watson (e questa mi sembra la risposta migliore alla tua domanda) mi disse che il loro obiettivo finale è fare in modo che la polizia vada in ospedale ad arrestare Tempt per la sua produzione di graffiti.
E ti ripeto anche quello che ti dicevo prima, che per me è fondamentale: il campo di possibilità. Nella narrativa ci sono aspetti che magari non sono necessariamente quelli più importanti ma finiscono per risuonare molto forte, come il fatto che fondamentalmente questo è un gruppo di sette artisti sparsi nel mondo capaci di fare ciò che fino a poco tempo fa avrebbe potuto fare solo un’industria con un livello di investimento molto alto. Una cosa che mi piace molto di questo progetto è che dimostra che tutti i percorsi relativi alla capacità e ai modi di produzione aperti e collaborativi (che vanno da Processing a openFrameworks ad Arduino) hanno finito per permettere agli artisti di dotarsi di strumenti propri per generare i loro discorsi, per produrre cose come questa: in 5/7 anni hanno finito per confluire in questo e credo che sia una prova di grande successo.
Barbara Sansone: Parlando di Ars Electronica, a cosa credi che debba la sua solidità ormai più che trentennale, la sua capacità di essere un evento di prestigio e di mantenere un alto livello?
José Luis de Vicente: Innanzitutto ha qualcosa che quasi nessun altro festival ha (forse il Sónar, ma in una situazione leggermente diversa): è un progetto culturale strategico per la sua città. È il motivo che ha messo Linz nel calendario internazionale di eventi culturali. In questo senso certo gode di uno stato privilegiato. Ma hanno anche saputo farlo molto bene. Io in generale apprezzo molto il fatto che gli organizzatori abbiano capito che un festival di arte, scienza e tecnologia non poteva riprodurre le dinamiche di una biennale di arte e abbiano creato uno spazio sia proponendo discorsi e aprendo determinate domande attraverso dei simposi, sia definendo la relazione tra industria tecnologica, industria dell’arte, attivismo digitale e pensiero in nuovi contesti e muovendosi molto bene tra tutti questi equilibri.
Ho molto rispetto per quello che sono riusciti a fare e non dev’essere stato facile: sicuramente hanno dovuto lottare molto per mantenere il loro spazio di indipendenza durante molti anni, come in tutti i contesti, a prescindere da cambiamenti politici, istituzionali, eccetera. In generale hanno proiettato un modo di fare le cose che mi sembra abbastanza corretto. Molta gente è scettica e sostiene che questo evento ha contribuito a consolidare la creazione del “ghetto” della new media art, che in buona parte vive isolato a una certa distanza dall’arte contemporanea come se fosse una struttura diversa. Ma io onestamente credo che di questo sia responsabile nella stessa o in maggiore misura l’arte contemporanea, perché è la sorella maggiore della new media art e aveva molte più possibilità di aprirle il cammino.
Barbara Sansone: E il Transmediale?
José Luis de Vicente: Io con il Transmediale ho sempre avuto una relazione più ambigua. Per esempio ad Ars Electronica non è mai stato strano che si cantasse in qualche modo l’utopianismo e l’ottimismo, un discorso storicamente associato a molti dei contesti della cybercultura, mentre al Trasnmediale no. Là le posizioni corrette sono sempre state considerate il sospetto, la distanza, il cinismo. Ora, negli ultimi due anni, la situazione è migliorata, o almeno a me piace di più il lavoro che sta facendo Steven Kovacs. Ma prima in questo spazio si era deciso che il new media non esisteva, che aveva senso solo dentro i movimenti storici delle arti visive contemporanee e quindi si volevano cancellare completamente tutte le distinzioni. E non è che io sia sostenitore delle distinzioni: semplicemente credo che a volte la conversazione e i parametri siano diversi. E a me non interessava tanto che questa conversazione si diluisse e si convertisse in qualcosa di molto più omogeneo o storicista. Trovare per tutto gli antecedenti che lo spiegavano spesso diventava storicizzare, cioè forzare una determinata interpretazione decontestualizzandolo del suo ambito di lavoro oggi.
Barbara Sansone: E il futuro? Verso dove sta andando la new media art? Che forse non è più tanto new
José Luis de Vicente: Neanche cambiare etichetta è nuovo. Prima la si chiamava arte digitale senza problemi, poi a metà degli anni 90 è diventata arte elettronica, definizione che oggi si usa con le pinze. È lo stesso, non mi preoccupo eccessivamente di questo. Certamente non condivido la teoria secondo la quale in questo momento il new media è morto, ha perso i contorni di movimento, di contesto, di discorso determinato. Non lo credo. Non sento per esempio che la situazione ideale e auspicabile e che si verificherà sia, come qualcuno ha immaginato, l’assimilazione completa da parte del circuito e del contesto dell’arte contemporanea. Funzionerà come sempre per alcuni artisti, per alcune opere, per certe linee d’azione, come già sta succedendo. Ma non prevedo per esempio che l’arte contemporanea cambierà i principi, i contorni dei suoi discorsi. In questo per me il new media è sempre stato l’esempio concreto di un altro tipo di cultura, di una cultura dove la relazione tra scienza e arte si gestiva in un altro modo.
Credo invece che la produzione di contesti, metodologie, strumenti e dinamiche stia prendendo sempre più importanza rispetto alla produzione di oggetti e dispositivi estetici. Credo che intendere questo campo fondamentalmente come la generazione di un determinato sistema operativo, di una determinata metodologia, è importante come lo era prima, se non addirittura di più. Il fatto che per fare certe cose si siano dovuti creare Processing, openFrameworks o Arduino in realtà era la definizione di dove stavano succedendo le cose più importanti, della necessità di generare tanto un’infrastruttura quanto la possibilità di aprire delle conversazioni attraverso i suoi vari contesti. Per questo non mi accontento di pensare che dobbiamo finire assimilati tra le quattro pareti del cubo bianco o del cubo nero, perché non è lì che vogliamo stare.
Vogliamo stare in questa relazione molto più fluida con l’innovazione sociale, con lo sviluppo tecnologico e scientifico, certamente, però anche con i cambiamenti di paradigma, con la possibilità di forgiare davvero una terza cultura o una prima cultura, cioè una cultura che non si definisce solo per l’umanistico, il sociale e il politico ma anche per lo scientifico e per come genera questi pattern. E che inoltre incoraggi e continui a conservare campi di risposta critici, sovversivi e distanti dalle visioni della tecnologia come un agente monocorde e inquadrato dentro una determinata strumentalizzazione, che vuole continuare a essere una coscienza critica di processi che stanno al di sopra di noi. Questa trasformazione in direzione dell’apertura dei parametri di conversazione con altri contesti continua a sembrarmi la cosa migliore che possiamo fare.
Barbara Sansone: Allora quali sono i luoghi più adatti perché questo discorso possa proseguire?
José Luis de Vicente: In termini di che incarnazione deve avere all’interno dell’industria culturale, dipende, perché lo inventiamo continuamente. Io per esempio sono un gran sostenitore dei lab, del loro modo di lavorare, perché i lab hanno come principale obiettivo i processi di ricerca e la socializzazione dei laboratori aperti, i processi di innovazione sociale come spazio di cui impossessarsi e dove convertire il pubblico in partecipanti.
E la strada secondo me dovrebbe essere fondare nuove istituzioni per farlo, non sottoposte al peso di tutta una serie di cose che non hanno niente a che vedere con questo, come la conservazione, il patrimonio o l’esperienza di consumo di contenuti come parte dell’industria turistico-culturale. Alla quale ovviamente siamo anche soggetti, non voglio essere ingenuo. Sónar è un’esperienza di consumo culturale legata a una certa visione della città come marca, nella stessa misura in cui un museo è un oggetto che conferisce prestigio e che si può sfruttare economicamente, perché aumenta il valore turistico di una città.
Però secondo me c’è sempre più spazio per impostare la ricerca, la formulazione di ipotesi e la generazione di prototipi in modo permeabile, come minimo trasparente, che si sappia in che modo passa, che si sappia in tempo reale, e che apra punti d’entrata attraverso i quali possano inserirsi altri per iniziare un dialogo. Questa è una nuova forma di spazio. C’è stato un periodo in cui volevo fare grandi mostre, dire a voce alta che stavano succedendo cose interessanti.
Adesso non mi interessa più tanto, perché tra l’altro credo che siano contesti molto limitanti. Quindi credo che dobbiamo continuare a inventare vocabolario, come stiamo facendo da dieci anni: abbiamo cominciato con i blog, continuato con le reti sociali e disponiamo di un arsenale sufficiente per proseguire.
Barbara Sansone: Per concludere: nel campo dell’arte lavori solo con il cervello o fai anche qualcosa di manuale?
José Luis de Vicente: No, di fatto sono reduce da un periodo in cui ho avuto una relazione complicata con lo scrivere ed effettivamente comincio ad aver voglia di produrre cose tangibili, come i libri. E sto anche imparando a coltivare pomodori [ride].