Quest’anno l’OFFF si è trasferito nella splendida capitale portoghese. Considerato il suo ampio pubblico internazionale, probabilmente poco importa dove si svolga l’ormai molto amato festival di cultura “post-digitale”.
Giovani creativi di tutto il mondo, gitani delle arte grafiche, sostenitori delle vacanze culturali, cacciatori di eventi e di scuse per sfuggire alla routine per qualche giorno unendo l’utile al dilettevole, anche quest’anno hanno provocato un prematuro soldout acquistando i biglietti su Internet e approfittando dei voli low cost. Ed eccoli sparsi per Lisbona, esplorando le ripide viuzze, rifocillandosi nei caffè, riempiendo gli alberghetti con vista, per poi riunirsi a mezzogiorno nella LX Factory a condividere passioni, esperienze, emozioni. Questo è il carattere distintivo che sempre accompagnerà l‘OFFF, perché scritto nel DNA del suo pubblico.
Peccato che, per chi era abituato agli spazi più formali, accoglienti e ben preparati del CCCB di Barcellona, questa volta l’evento tanto aspettato si sia tradotto in un’esperienza davvero faticosa.
Gli spazi della ex-fabbrica erano grandi ma non abbastanza per contenere l’immensa folla (quest’anno hanno partecipato una media di 2500 persone al giorno, 1000 in più rispetto all’edizione dell’anno scorso!); la scarsa ventilazione faceva alzare insopportabilmente la temperatura e sciogliere la sedie da giardino che si aprivano a pelle d’orso diventando inutilizzabili; il suolo si riempiva presto di birre e aranciate rovesciate, ma la penombra non permetteva a chi sedeva per terra per mancanza di alternative di accorgersene in tempo; la stessa luce azzurrognola rendeva illeggibile il programma, che per via dei colori scelti per caratteri e sfondo perdeva totalmente il contrasto (o, in altre parti, presentava un corpo eccessivamente piccolo anche in condizioni di luce intensa); colonne e strutture metalliche per sostenere l’illuminazione riducevano ulteriormente la visibilità delle proiezioni, nonostante i numerosi maxischermi.
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I soffitti non erano abbastanza alti per sorpaelevarne di così grandi, quindi troppe teste ne annullavano come minimo la metà inferiore. Chi riusciva a trovare un posto nelle prime file non lo mollava per tutto il giorno. Gli altri dovevano ripiegare sugli schermi installati in punti lontani dal palco (il primo giorno senza riuscire a vedere i propri beniamini, poi finalmente ripresi da una videocamera in tempo reale), non sempre accompagnati dall’audio (problema risolto a partire dal secondo giorno) o dal silenzio necessario per percepirlo.
L’acustica (all’inizio del primo giorno realmente pessima, poi migliorata) non era certo favorita dalla fusione dell’open room e soprattutto di un frequentato bar con lo spazio dedicato alle conferenze e il brusio inaccettabile era aggravato da migrazioni continue di gente esasperata dal caldo o a caccia di un posto migliore dove riuscire a vedere e/o sentire qualcosa.
Una soluzione per migliorare l’ascolto era munirsi delle cuffie con traduzione simultanea, anche quando non necessarie, ma queste non ricevevano segnale fuori dall’ampia ma affollatissima e soffocante area nei pressi del palco, dove erano installati schermi un po’ più visibili.
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Lo spazio Loopita, dedicato ai concerti e, per via del tipo di pubblico, meno frequentato, diventava quindi un’oasi felice dove andare a rilassarsi. Non fosse che, per via del look più da centro sociale, che suscitava meno timore e rispetto dell’elegante Auditorium del CCCB, la gente comunque andava e veniva in continuazione e, peggio ancora, parlava tutto il tempo a voce alta, convertendo le performance elettroniche in grovigli di rumori molesti. Insomma, impossibile concentrarsi, divertirsi, entusiasmarsi come sempre accadeva durante questo festival.
Come sempre il taglio è stato interdisciplinare: web, grafica, visualizzazione dei dati, motion graphics, musica, codice generativo, interactive design, tipografia (nell’ambito della quale si è distinto il giovane Alex Trochut, che ha fatto innamorare il pubblico con la sua modestia e la sua fantasia).
Ma in realtà è sceso di livello anche il programma, che ha visto alcuni dei “soliti” (Eric Natzke, Joshua Davis, Hi-Res, per esempio, sempre professionali e gradevoli ma ormai già fin troppo noti ai frequentatori abituali del festival) e agenzie di design impeccabili ma poco entusiasmanti rispetto a quanto avrebbero voluto vedere gli appassionati di arte digitale e di nuovi percorsi creativi. Chissà che a contribuire a dare questa impressione non siano state anche le disagevoli condizioni di fruizione.
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Anche il Mercadillo ha deluso: pochissima musica, zero libri (a Barcellona venivano rappresentate numerose librerie specializzate ed era impossibile resistere alla tentazione di comprare qualcosa), niente nuovi prodotti hardware da provare (come l’anno scorso lo schermo/tavolettone grafico della Wacom).
Speriamo che, nelle prossime edizioni, il festival, ovunque si tenga, cerchi di ricambiare l’affetto e le attenzioni del suo pubblico di affezionati, tenendo in maggiore considerazione le condizioni di cui necessita per una corretta fruizione, perché valga la pena spendere il non irrisorio prezzo del biglietto e dell’eventuale viaggio.
Per quest’anno, le impressioni che restano sono l’aver fatto una bella gita e l’aver vissuto nuove sinergie, ma anche la sensazione di aver perso qualcosa nonchè una specie di nostalgia. La famosa saudade che affligge l’anima portoghese, motivo ispiratore del Fado?