Provare ad immaginare nuove modalità di interazione tra corpo e tecnologia è ormai, sembra chiaro, la grande sfida a cui sono chiamati a rispondere scienziati, artisti e studiosi del mondo contemporaneo.

C’è un modo per non annullare la nostra fisicità di fronte al digitiale? Qual è la terza via che supera la – per ora – irrisolta dicotomia tra un anacronistico “ritorno alla natura” e una cieca trasformazione del nostro corpo in uni e zeri? Forse basterebbe un po’ d’immaginazione in più per uscire da binari già dati e sui quali sembriamo correre come treni a destinazione programmata in partenza.

Near Future Laboratory è un gruppo di ricercatori che tenta appunto di uscire dagli schemi convenzionali per creare nuove possibilità di interazione uomo-macchina. Con la pragmaticità che contraddistingue spesso gli studiosi di scienze applicate potremmo definire il loro modo di lavorare un “pensiero in azione”. Dall’idea al prototipo fino a tornare all’idea, magari arricchita di nuove sfaccettature. Un movimento continuo tra pensiero e azione per costruire dispositivi che ci aiutino ad immaginare un mondo più vivibile, più sostenibile e – perché no – anche più divertente.

Ho intervistato Julian Bleeker e Nicolas Nova , fondatori del progetto, per cercare di comprendere meglio teoria e pratica che accompagna il loro lavoro.

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Giulia Simi: Partiamo dal titolo del progetto: “Near Future Laboratory”. Si nota subito l’importanza del tempo e una sorta di ridefinizione del concetto di futuro, che forse ha subito una trasformazione con l’avvento delle nuove tecnologie. Il termine laboratorio, invece, ricorda qualcosa che ha a che vedere con un approccio di ricerca e di sperimentazione. Possiamo dire quindi che siete un gruppo di ricercatori che cerca di esplorare le possibilità del nostro futuro attraverso la tecnologia e i media digitali, al di fuori dei vincoli legati al mercato – e questo è tra l’altro, secondo me, ciò che in qualche modo può legarvi all’arte. Come è cominciato il vostro progetto? Qual è stata la domanda alla quale cercavate di dare una risposta?

Julian Bleeker e Nicolas Nova: Il progetto è cominciato perché abbiamo pensato che ci fosse uno spazio vuoto tra chi è impegnato a costruire oggetti e chi invece si occupa di pensare quali oggetti dovrebbero essere costruiti, basandosi sull’analisi del trend e altre pratiche di previsione. Abbiamo visto un’opportunità in una pratica di ricerca e di design che operasse a metà tra i tempi lunghi della ricerca e degli studi accademici e quelli corti dello sviluppo del prodotto commerciale. Nel mezzo – tra 12 mesi e 4 anni circa – c’è quel gap che noi chiamiamo “near future” . Pensiamo ci siano dei vincoli irragionevoli e difficilmente superabili, sia nell’ambiente aziendale legato ad obiettivi di mercato, sia in quello accademico, caratterizzato da un immobilismo e da un modo di operare che a volte sembra essere quello del secolo scorso.

Quello che stiamo cercando di fare è quindi incoraggiare l’ innovazione del design liberandola da questi vincoli. Non abbiamo aspettative o requisiti da rispettare per fare oggetti che dovranno usare milioni di persone, anche se, chissà… Il punto è che comunque noi non ci poniamo questo problema in partenza. Lavoriamo velocemente ed economicamente; non censuriamo i nostri progetti basandoci su fattori di mercato come l’aspettativa dei consumatori; ci impegniamo per far circolare conoscenza e intuizioni velocemente – mesi non anni – usando il sistema creative commons e non quello feudale del pagare-per-conoscere che circola nell’ambiente professionale delle riviste, dei convegni e così via.

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Ecco. E’ così che è cominciato il progetto. Come una reazione positiva alle difficoltà nell’impegnarsi in un lavoro creativo, intuitivo, divertente e innovativo, con vincoli minori rispetto a quelli che abbiamo trovato nel mondo accademico o in quello aziendale.

Avevamo bisogno di descrivere in qualche modo lo spazio di possibilità del lavoro che volevamo intraprendere. Usare il tempo come “espressione” polivalente sul quale lavoravamo sembrava la cosa giusta. Non soltanto perché i nostri progetti hanno a che vedere con il tempo – ma piuttosto perché il fulcro della nostra riflessione è proprio come potrebbe essere il nostro mondo in un futuro prossimo . In un certo senso stiamo definendo un piccolo angolo del prossimo futuro allo stesso modo in cui potrebbe farlo Bruce Sterling nei suoi mondi immaginari. La differenza è che noi non siamo scrittori dell’immaginario ma costruttori dell’immaginario, che elaborano artefatti di un mondo futuro che ci aiuti a raccontare storie sul mondo presente. Usiamo questa nozione temporale di futuro prossimo piuttosto che, per esempio “mobile technology” o “digital game” perché ci sembra polivalente rispetto al lavoro che svolgiamo. Il futuro prossimo è uno spazio indistinto che è quasi, non abbastanza, ma molto vicino, a sembrare possibile.

Immaginare il futuro è una questione di analisi dei bordi e dei confini, in modo di articolare idee, concetti e nozioni che escano dalla risonanza convenzionale dell’ inside-the-box tipica delle pratiche aziendali – noi invece cerchiamo temi o concetti legati a pratiche sociali che in qualche modo sono stati abbandonati o dimenticati, o semplicemente giacciono sotto la superficie. Potrebbe suonare molto “William Gibsonesco” in effetti (“Il futuro è già qui, è solo mal distribuito” ), ma è proprio così: noi pensiamo davvero che il futuro sia semplicemente nascosto in angoli polverosi. Il punto quindi rimane quello di esplorare mondi dimenticati e guardare alle cose con un’angolatura diversa, o addirittura ortogonale. C’è una citazione che ci piace molto e che riecheggia questo tipo di sentire: quando Oscar Wilde si trovò di fronte per la prima volta alle Cascate del Niagara disse “Sarebbe molto più impressionante se l’acqua scorresse dalla parte opposta.” Ecco, questa frase è perfetta per descrivere il tipo di ricerca che facciamo. Sì, noi osserviamo le aree sociali e culturali del nostro mondo tecnologico, ma sottosopra.

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Giulia Simi: Nella descrizione del vostro progetti parlate di “segnali deboli” della nostra cultura digitale che voi focalizzate e espandete per creare prototipi per il futuro prossimo. Potreste fare qualche esempio di ciò che ciò che definireste, in questo senso, un “segnale debole”?

Julian Bleeker e Nicolas Nova: L’espressione “segnali deboli” deriva dalla letteratura sulle analisi di previsione, il design sul lungo termine e le ricerche sul futuro. Evoca la nozione di prime avvisaglie di fenomeni che potrebbero diventare importanti in futuro. In un certo senso si tratta di comportamenti, attitudini, prodotti e servizi dell’oggi che annunciano il futuro. Riprendendo di nuovo la frase di Gibson, i segnali deboli sono la prova che il futuro è già qui, deve solo essere scovato. Il secondo step è chiedere a se stessi criticamente se questi segnali siano importanti per questo “quasi-futuro” che sta arrivando. Se sì, che cosa annunciano? Dovrebbero essere amplificati? Fare ricerche sul futuro non è solo andare dietro a trends saltuari, ma anche creare il proprio futuro amplificando alcuni segnali. Cioè, tenere conto non solo di ciò che uno “vede” accadere in questi segnali ma anche di ciò che uno immagina che potrebbe avvenire o che comunque sarebbe interessante sperimentare.

Penso che questo sia il punto in cui tante buone idee diventano “progetti”, che richiedono poi impegni in termini di tempo, soldi, programmazione e così via. Molte di queste idee vengono fuori dal desiderio di sperimentare intuizioni trovate in un libro (non solo di fantascienza) oppure da qualcosa nato come uno scherzo o uno sguardo ironico sulla realtà. A volte ti chiedi: forse questo piccolo quadro sociale che vedo o che vivo nella mia vita potrebbe raccontare una storia affascinante che altri potrebbero aver voglia di condividere e sperimentare.

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Per cercare di tenere organizzato il nostro lavoro, dividiamo i nostri progetti in temi. Un tema in cui in realtà cadono molti aspetti dei nostri progetti è quello delle nuove modalità di interazione. Siamo interessati a capire come le modalità di rappresentazione di noi stessi in ambienti mediati dal computer possano essere plasmate e modificate rispetto a quelle a cui siamo abituati e che ci vedono seduti davanti a uno schermo con tastiera e mouse. Dove sono le altre interfacce per la nostra vita digitale? Tutte le nostre rappresentazioni online, in internet, nei videogiochi o in comunità virtuali come Facebook, possono essere formate da elementi diversi che non dei bottoni da premere stando fermi davanti a uno schermo per ore?

Ecco, stiamo andando in questa direzione in un modo molto semplice. I dispositivi che stiamo costruendo registrano i movimenti fisici in vari modi. Uno dei nostri progetti (MobZombies), ti trasforma in una specie di “joystick umano” obbligandoti a fare movimenti molto ampi – come rincorrere una palla, che è ben diverso da schiacciare un bottone o muovere il mouse – per giocare a un videogioco che vedi in un dispositivo che può stare in una mano. Un altro progetto va ancora oltre: tutti i movimenti che puoi arrivare a compiere in una passeggiata di 4 miglia diventano “un movimento” per un diverso tipo di videogioco. La stessa attività fisica potrebbe divenire addirittura necessaria per azionare i controlli di un videogioco. Abbiamo quindi una buona varietà di esperimenti di interfacce per poter chiamare in causa “nuovi partners” nell’interazione. Questi sono progetti che ci permettono di usare network digitali o dispositivi per comunicare, per esempio, con il clima o con animali domestici. Siamo molto interessati a queste possibilità – non solo a nuovi oggetti con cui potremmo interagire, ma a nuovi paradigmi che potremmo usare per condividere esperienze. Gli animali domestici in questo sono particolarmente rilevanti, così come altre creature o il clima.

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Giulia Simi: In un lungo ed interessante post legato al progetto “Slow Messenger” parlate di “costruire da soli i propri oggetti” e di hardware sketching come una pratica culturale e politica. E’ un qualcosa che ricorda il Do It Yourself e la volontà di controllare il processo creativo, tipico di molte correnti artistiche contemporanee. Potremmo quindi definire i vostri progetti una sorta di “hardware art”?

Julian Bleeker e Nicolas Nova: Noi abbiamo parlato di questo come “device art” che ci sembra un termine più vicino alle pratiche sociali piuttosto che ” hardware “, secondo il nostro modo di pensare. Il termine “device” (in italiano può essere tradotto come dispositivo ma anche come stratagemma, o espediente) in qualche modo esprime o suggerisce uno scopo da raggiungere. C’è anche un modo di dire “Left to your own devices” (la traduzione in italiano potrebbe essere qualcosa tipo “abbandonato ai propri espedienti” ) che di base indica quello che potresti fare da solo, senza alcun limite se non te stesso, utilizzando ciò che ti circonda. Ci sembra quindi che “device art” sia un modo più ricco per descrivere questi piccoli assemblaggi che creiamo e che si attivano in modi inaspettati.

C’è anche una spinta politica che stiamo investigando. Da una parte siamo interessati a un tipo di potere espressivo che questi “dispositivi” hanno, nella loro capacità di plasmare le nostre esperienze con alcuni aspetti del mondo. Per esempio, “Slow Messenger”: che forma può prendere la relazione tra due persone, amici o amanti, facendo scattare un messaggio speciale che circola tra loro semplicemente tenendo addosso un dispositivo di messaggistica per un lungo periodo di tempo? E’ un esperimento molto semplice, piano, quasi ortogonale, che cambia il modo in cui le persone comunicano nella nostra era di network digitale. E’ ortogonale perché fa qualcosa che è abbastanza inaspettato rispetto ai nostri assunti convenzionali sulle tecnologie e sugli strumenti di comunicazione. Dall’altra parte c’intriga anche il processo opposto, ovvero quello di trasferire ed esprimere questo pensiero attraverso un assemblaggio. Quello che troviamo affascinante è in realtà l’espressione del design attraverso i suoi molteplici gradi di evoluzione, legando insieme tutte queste piccole parti.

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Abbiamo imparato che le tecnologie sono pratiche sociali – ovvero molto di più di una semplice e inerte componente statica. Sono l’incarnazione di una varietà di forze sociali e quando ci costruiamo i nostri dispositivi possiamo vedere in gioco tutti questi fattori, non riuscendo più a guardare alle tecnologie con gli stessi occhi. “Slow Messenger” è esemplificativo in questo senso. Riunisce insieme un sacco di cose: una vaga idea saltata fuori in un lungo viaggio aereo, alcuni appunti presi su un quaderno, indagini aperte in importanti pratiche artistiche precedenti, alcuni saggi sul carattere sociale del tempo, la storia del telegrafo, interessanti rapporti sulla comunicazione sottomarina (che sembra essere molto lenta a causa della difficoltà della trasmissione radio attraverso l’acqua salata), e le preoccupazioni politiche ad essa legata, e infine tutte le note, le specifiche tecniche e le componenti di design che sono andate a costituire l’attuale dispositivo di “Slow Messenger”

Questa parte del processo creativo è per noi assolutamente cruciale. Non è più abbastanza avere delle idee che poi non possono essere sperimentate o vissute. Non è il fatto di privilegiare il prodotto materiale sull’idea, è che l’azione che si sprigiona dalle idee “fatte materia” ci disegna all’interno di un mondo incredibilmente ricco e in grado di fornire ulteriori informazioni sulle idee che avevi avuto. C’è anche una sorta di conferma e soddisfazione che arriva quando riesci a passare avanti e indietro dalle idee alla loro espressione e articolazione in qualcosa che puoi guardare e dire: “Questo porta dentro un’idea che avevo avuto e ti permette di sperimentarla”.

Pensare per fare – oppure pensare mentre fai è un modo per rinforzare e rendere più ricco e analitico il lavoro che svolgiamo al Laboratorio, che è poi è quello di costruire artefatti. C’è un valore aggiunto e un’autorità nel fatto di non fare solo analisi da lontano, ma di impegnarci a fondo nella pratica.

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Giulia Simi: “Slow Messenger” è secondo me uno dei progetti più interessanti che avete sviluppato fin ora. C’è un rovesciamento della prospettiva abituale secondo cui la tecnologia deve creare dispositivi che riducano i tempi di comunicazione indipendentemente dai vincoli fisici. Al contrario, voi avete creato un dispositivo che non solo rallenta il processo di comunicazione, ma lo lega ai nostri movimenti corporei (il messaggio non viene recapitato se stiamo fermi tutto il giorno, ad esempio seduti davanti a un monitor). Pensate che ci sia una realistica possibilità che la tecnologia smetta di rincorrere l’accelerazione del tempo? O piuttosto la lentezza sarà sempre un eccentrico e in qualche modo “artistico” sguardo sulla realtà?

Julian Bleeker e Nicolas Nova: Non è irrealistico, certo, anche solo rispetto alla tua domanda. Posso immaginare che ci sia qualcuno per cui questo tipo di interazione potrebbe essere interessante in alcuni contesti. C’è un’intimità in questo tipo di messaggio, nelle modalità di invio e ricezione, ed è ciò che ha motivato questo progetto. Ci sono alcuni messaggi che uno potrebbe voler vedere languire nel tempo o che comunque potrebbe non volere che arrivassero immediatamente a destinazione. Stiamo cercando di recuperare il carattere riflessivo della comunicazione pre-digitale, quella della lettera scritta, magari con penna e inchiostro.

La comunicazione veloce ed efficiente è un prodotto del nostro potere politico. Se devi esercitare l’influenza geografica su qualcuno è necessario che tu possa superare i limiti dati dalle distanze nel minor tempo possibile. Inviare un messaggio lentamente non può aver senso in quel contesto. Questa semplice necessità ha poi invaso gran parte delle nostre forme di comunicazione, indipendentemente dal nostro potere d’influenza. Ormai è una sorta di preconcetto il fatto che la comunicazione debba avvenire velocemente, non perché non possa avvenire in altro modo, ma perché sembra essere divenuto parte di un indiscusso DNA della comunicazione come pratica sociale.

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In molti dei nostri progetti noi lavoriamo a partire da premesse non convenzionali proprio per vedere come potrebbero essere le esperienze di comunicazione in un “anti-” universo differente. Non possiamo forse imparare qualcosa sulle nostre pratiche di comunicazione esistenti – la messaggistica istantanea, gli SMS, la nostra continua presenza e disponibilità online, se facciamo esperimenti dove la premessa parte da un concetto opposto? In questo caso per esempio, se comunichiamo molto più lentamente, non impariamo qualcosa sul nostro modo di relazionarci e di comunicare con gli amici e le persone amate? Non è necessario pensare che questo sia il modo migliore per comunicare, non stiamo costruendo un nuovo prodotto o cose simili. E’ piuttosto un esperimento di design per cercare di darci delle risposte su alcune domande che riguardano la nostra relazione con questi peculiari e stravaganti sistemi di comunicazione.


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www.nearfuturelaboratory.com/2007/04/04/old312/

www.nearfuturelaboratory.com/2007/06/25/left-to-our-own-devices-hardware-sketchingwhat-this-means/