Programmatore, grafico, vj, sperimentatore. Edonista degli ambienti visual, amante del colore e delle forme organiche. Curatore del progetto Generator.X (tra conferenza, esibizionI e live concert), probabilmente la piattaforma più conosciuta e competene per la diffuzione della generative art e la condivisione dei saperi legati al codice open source Processing, e di Code & Form, una tra le più preziose risorse per chi si interessa altresì di estetica computazionale.
E’ Marius Watz, norvegese di origine e Berlinese di adozione, uno degli esponenti più rappresenentativi e autorevoli a livello internazionale di quel connubio tra arte, sperimentazione e comunicazione, che tantissimi artisti e professionisti del mondo dell’elettronica e della cultura digitale stanno oggi ricercando. Le sue tavole grafiche, le sue ambientazioni generative ricche di colori e forme sono state esposte nei principali centri espositivi del pianeta, così come utilizzate per vestire i più importanti festival internazionali di elettronica, come accaduto quest’anno al festival Club Transmediale.
Legato alla cultura techno underground dalla quale originarimante proviene, anche il lato umano di questo artista unico nel suo genere riflette questa suo background, capace con intelligenza di dialogare sia con le istituzioni che con i club, con l’arte così come con il mercato, con i codici di programmazione così come con l’estetica che da essi ne deriva. Nato graphic designer si trova oggi a vestire i panni del code artist e dell’esteta, del live artist e del conferenziere, del blogger (il suo biglietto da visita parla chiaro in questo senso) e dell’esperto di new media communication. Un ibrido professionale e artistico tipico di questa nostra era e indicativo di quello che accadrà un domani che tutti speriamo essere molto vicino.
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Digicult, in attesa di godere della sua partecipazione alla seconda edizione di Mixed Media, intervista quindi uno dei più importanti artisti generativ vivientii: Marius Watz.
Elena Ravera: Se dovessi spiegare a un bambino di cosa si tratta, che parole useresti? Fabio Franchino, ad esempio, ha usato un’immagine molto bella. Ha riposto: ” Gli farei osservare un gruppo di bambini mentre giocano. Sono un sistema di agenti, ciascuno munito di regole proprie immerso in un sistema di regole comuni. Immaginando che ciascun bambino abbia le scarpe sporche di vernice, inseriti in una stanza con una maestra che cerca di governarli, il pavimento diverrebbe un’opera generativa. Se avessimo a disposizione un centinaio di stanze, alcune di queste potrebbero risultare pure interessanti”. Ora è il tuo turno: come lo spiegheresti?
Marius Watz: Domanda eccellente. Come rispondere? Credo che spiegherei che l’arte generativa è come fare un disegno seguendo una regola specifica, come disegnare usando solo linee dritte. Mi ricordo che quando ero piccolo facevo così: mi davo da solo regole per cui mi fosse permesso disegnare unicamente unendo una linea all’altra. Non è sorprendente che poi sia finito a fare il programmatore
Elena Ravera: Tra le tue tante esibizioni, performance, workshop e lezioni, pochi eventi si sono tenuti fuori dall’Europa: la risonanza degli artisti europei che si occupano di arte generativa è ancora qualcosa che rimane intra muras , così come accade a certi festival di new media?
Marius Watz: Anche se è popolare tra il pubblico, le media art sono costose da produrre e mettere in mostra, e nello stesso tempo difficili da vendere. Come risultato, non hanno molta presa in quei paesi che non possono contare sui finanziamenti pubblici. La scena europea è largamente supportata da infrastrutture in questo senso, che invece per esempio mancano in America. La situazione dei media festival europei è un problema e, paradossalmente, un valore: è un ghetto che limita il raggio d’azione dei suoi partecipanti ma che nello stesso tempo li protegge. Abbraccia una cultura DIY (Do It Yourself) e fa sì che gli artisti emergenti possano mostrare il loro lavoro, ma nel contempo non è presa molto sul serio dal resto del mondo dell’arte.
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Elena Ravera: Credo che una delle principali differenze tra le forme d’arte tradizionali e quella generativa è che in quest’ultima l’artista ha, rispetto al suo pubblico, la stessa possibilità di vivere stupore di fronte al proprio lavoro. Forse oggi lavorare sul codice per fare arte con tutto quello che ne consegue- è l’unico modo per un artista di provare totale e sincera sorpresa di fronte alle sue opere. Non succede con le forme tradizionali di arte visiva. Qual è la tua opinione?
Marius Watz: Non sono d’accordo. Forme d’arte come la pittura e l’illustrazione danno sempre importanza alla tecnica combinata con l’intuizione. In quel senso, la sorpresa è certamente una componente. Solitamente il processo creativo è un momento irrazionale di transustanziazione, senza dubbio un momento di meraviglia.
Credo che la differenza nelle due forme d’arte invece sia il modo in cui i sistemi generativi sono caotici, nel senso che l’artista non li controlla completamente. Sono creati e coreografati dall’artista, ma una volta messi in moto fanno emergere proprietà non previste a priori.
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Elena Ravera: Si dice che l’arte generativa appartenga alla street culture, alla cultura pop. Per me è il contrario. Se proprio si dovesse darne una definizione, credo sarebbe inclusa in quella dell’arte colta; per coglierla è necessario uno specifico background senza il quale si rischia di vedere il prodotto dei sistemi generativi come mere speculazioni decorative – intendo dire, l’arte generativa non è concettualmente accessibile come una serigrafia di una zuppa in lattina. Cosa ne pensi?
Marius Watz: Intesa come metodo, l’arte generativa si presta in egual modo alla pop art come all’arte colta. Dipende tutto dalle intenzioni degli artisti. Alcuni di loro ne invocano gli aspetti concettuali, come la rimozione dell’autore; ci sono molti precedenti storici nell’arte colta per questo tipo di ricerca: come LeWitt, Fluxus, Riley… Ma più comunemente i sistemi generativi sono diventati più “pop” semplicemente perché hanno senso all’interno del campo dei media digitali, di cui il codice è parte integrante. Storicamente, gli artisti che lavoravano con i sistemi generativi negli anni ’60 e ’70 erano “artisti professionisti”. Al contrario nella metà degli anni ’90 il movimento è stato dominato da autodidatti che provenivano da campi estranei alle arti visive (dal design e dalla musica in particolare), quando addirittura non si imbattevano nel codice per caso. Supportati da uno scenario in cui la musica elettronica era molto forte e la cultura VJ stava prendendo piede, molti di loro hanno trovato casa fuori dal mondo dell’arte mainstream e si sono trovati quindi vicino alla cultura pop.
Più tardi l’arte generativa si è vista accettare dal mondo dell’arte, si è vista mettere in mostra nelle gallerie e comprare dai collezionisti. Come risultato, alcuni artisti si stanno spostando dalla cultura pop e descrivono il loro lavoro come arte colta. Molti di loro non si sentivano comunque a casa nella scena della media art, con i suoi pregiudizi politici e accademici. In ogni caso credo che l’arte generativa debba essere comprensibile senza nessuna nozione dei processi coinvolti.
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Elena Ravera: Immagini uno scenario in cui l’arte generativa possa assumere una valenza sociale, oltre a quella estetica, come succede alla software art?
Marius Watz: La software art ha a che fare con i meccanismi sociali e politici del software, l’arte generativa con le possibili relazioni formali che nascono dai sistemi procedurali. Molta dell’arte generativa è astratta, non riferisce ad altro che a se stessa. Questo non per dire che sarebbe impossibile creare lavori generativi che abbiano un contenuto sociale rilevante: vedi per esempio “Every Playboy Centerfold” e”76 Blowjobs” di Jason Salavon. Di mio, non pretendo di aggiungere ai miei lavori nessun messaggio esplicito. Invece, mi interessa l’esperienza percettiva spontanea che avviene quando gli spettatori si confrontano con le mie opere. Dato che i miei lavori sono astratti e non contengono riferimenti semantici espliciti, è un confronto molto personale. Ma direi che anche questo ha una sua rilevanza sociale.
Elena Ravera: Dove si spingerà l’uso del codice?
Marius Watz: Il codice, essendo in sé materiale da costruzione, non ha limiti di suo; l’hardware e l’immaginazione del creatore invece sì. Mi aspetto di vedere sistemi di programmazione molto diversi in un prossimo futuro, con focus su compiti diversi. Uno sviluppo interessante potrebbe essere la nuova applicazione in ambienti di programmazione visual come VVVV, con tutto il suo potenziale per le live performance.
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Elena Ravera: Quanto è importante per te l’open source come risorsa per la risoluzione dei problemi tecnici?
Marius Watz: Nei miei lavori più recenti, direi che il 20-40% dello sviluppo dei processi è andato avanti trovando soluzioni open source a certi problemi che ho incontrato. Perché inventare la ruota, quando puoi utilizzare strumenti generosamente messi a disposizione da altri? In cambio, provo a pubblicare pezzi di codice che so che saranno utili alla comunità. Il mio blog Code&Form è tutto basato su quello.
Elena Ravera: Segnalaci il nome di un newcomer che credi stia facendo un buon lavoro, qualcuno che trovi stimolante.
Marius Watz: MI piace il lavoro di Daniel Dessin (www.sanchtv.com). Sta ottendendo risultati sorprendenti da VVVV, utilizzando le shader con grandi effetti. A volte gli esiti sono incerti, ma il suo senso del colore e della composizione è eccellente. Starò a guardare dove lo porterà.
Elena Ravera: Prossimi progetti?
Marius Watz: Per me il 2007 sarà un anno di produzione. Negli ultimi 4 anni ho creato una serie di lavori che sono diventati proiezioni. Anche se continua a piacermi creare spazi visuali in cui ci si possa immergere, comincia a incuriosirmi di più la creazione di oggetti concreti. In questo senso sto pianificando di produrre stampe dei miei lavori, così come installazioni pensate per ambienti più intimi. Recentemente ho creato il mio primissimo oggetto vero e proprio usando Rapid Prototyping: un vecchio sogno che si realizza. Mi riporta all’interesse per gli oggetti virtuali con un approccio vicino alla scultura. Questo è senza dubbio qualcosa che porterò avanti nel prossimo futuro.
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Elena Ravera: Ci sono due tipi di artisti. Quelli che sanno di esserlo e quelli che non lo ammetterebbero neanche sotto tortura. Quelli che sono coinvolti nelle electronic art di solito appartengono al secondo gruppo per cui ti chiedo: sei un artista?
Marius Watz: Ho risolto la questione qualche anno fa, quando ho realizzato di non avere più risposte quando alle feste la gente mi chiedeva cosa facevo, una volta preso atto del fatto che la maggior parte del mio tempo lo passavo lavorando come artista, non come qualcuno che ha un hobby. Così ora rispondo che sono un artista e mi preparo al peggio: è successo che mi abbiano accusato di rubar soldi agli onesti contribuenti, oppure al contrario può succedere di essere investiti da attenzioni non richieste, ma la maggior parte delle volte va tutto bene.
Per di più, vivere a Berlino rende la risposta meno dolorosa: qui tutti quelli con cui parli sono artisti .