La luce è l’elemento fondamentale all’origine della vita e nella sua natura più immediata e viva è luce solare ed energia elettrica. La luce è un medium estremamente duttile: è la componente fondamentale di ogni opera ascrivibile nella categoria dei nuovi media, dal video, alla net art, dall’arte generativa alle installazioni multimediali.
Ho avuto il piacere di intervistare Carlo Bernardini, artista italiano che utilizza la luce come elemento primario delle proprie opere, in mostra presso la Galleria Grossetti Arte di Milano, fino al 29 maggio 2009. Nel lavoro di Bernardini la luce è mediata dall’uso della fibra ottica, che l’artista usa dal 1996, con cui realizza effetti strepitosi di geometrie e spazi che moltiplicano le possibilità di visione e di percezione. Carlo Bernardini è nato a Viterbo nel 1966. Si è diplomato nel 1987 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha vinto per 2 volte nel 2000 e nel 2005 il premio “Overseas Grantee” della Pollock Krasner Foundation di New York, e nel 2002 il premio Targetti Art Light Collection “White Sculpture”. Attualmente insegna Installazioni Multimediali presso l’Accademia di Belle Arti di “Brera” a Milano.
Nel 1997 ha pubblicato il saggio teorico sulla “Divisione dell’unità visiva“ edito da Stampa Alternativa, in cui spiega concettualmente le ragioni operative del suo fare creativo e come egli concentri le proprie ricerche sulla trasformazione della percezione visiva. La luce, la linea, l’ombra, la sottile differenza tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile o illusorio, sono elementi fondamenti della sua ricerca.
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Carlo Bernardini realizza opere scultoree e installazioni ambientali di grandi dimensioni che creano uno spazio di luce architettonico mentale, incorporeo ma visibile, che cambia totalmente la funzione e la struttura dell’ambiente reale. La luce crea un disegno nello spazio, un disegno che si modifica secondo i punti di vista e secondo gli spostamenti dello spettatore, che si trova a vivere dentro l’opera.
Silvia Scaravaggi: Come nasce la tua ricerca attorno alla luce e perché hai scelto di utilizzare la fibra ottica?
Carlo Bernardini: Molte persone mi contattano attirate dalle ricerche sulla luce. Mi ha scritto addirittura uno scienziato che vive a Los Angeles, che da giovane, ora avrà circa ottant’anni, partecipò agli esperimenti sul rubino per l’invenzione del laser con lo scienziato Maiman. Lui era tra i quattro giovani che coadiuvarono Maiman in quella stanza dei laboratori della Hughes Research a Malibù in California, quando inventarono il laser al cristallo di rubino nel 1960. Venne a conoscenza del mio nome dalla Kepes Society di Budapest e mi scrisse interessato al procedimento di emissione della luce nella fibra ottica. Un’altra persona, che sia occupa di led per un’azienda, mi ha scritto per sapere tutta una serie di specifiche sull’uso della fibra ottica a livello tecnologico e scientifico, cose che invece io non seguo perché utilizzo la fibra ottica solo come materiale visivo. La uso a livello intuitivo, io disegno uno spazio mentale come se fosse un disegno fatto con un pastello bianco su un foglio scuro. Attenuo le condizioni visive dello spazio reale e quello che si viene a disegnare è uno spazio mentale per l’intuizione plastico-visiva. La fibra ottica è il segno di una matita che traccia lo spazio, quindi uso questo materiale perché è funzionale al linguaggio visivo.
Secondo me, con la tecnologia bisogna lavorare andando avanti nelle scoperte, non è come fare pittura o scultura in cui si riconosce il talento dell’artista per la bravura tecnica. La tecnologia è vista come un’idea, per cui se utilizzi un’idea simile a quella di un altro artista corri il rischio di essere visto come un epigono. Se invece usi un mezzo differente, quindi non inflazionato dai linguaggi dell’arte, allora vieni riconosciuto: per lo meno riconosciuto attorno a quella cifra stilistica che è la tua e che nessuno può invadere. Non sei discendente da un altro che è arrivato prima di te. È un terreno, quindi, da un lato più facile perché l’innovazione arriva più direttamente alla comprensione del pubblico, da un altro lato più difficile soprattutto per due aspetti: innanzitutto perchè rischi di essere visto come un epigono per l’uso di un linguaggio già inflazionato, e poi perchè il mezzo non inflazionato, non codificato dal sistema dell’arte, desta sospetti da parte degli addetti ai lavori, che si chiedono se sarà un mezzo proponibile sul mercato dell’arte, se l’opera durerà nel tempo .
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Silvia Scaravaggi: Molti artisti utilizzano strumenti avanzati tecnologicamente per parlare di temi come lo spazio e la luce, senza riuscire mio avviso ad arrivare al punto. Nel tuo lavoro invece, questi elementi emergono come concetti puri, arrivano immediatamente…
Carlo Bernardini: La tecnologia ha dei pericoli insiti nel possibile abuso che se ne può fare, per cui un lavoro può diventare retorico, essere appesantito, o divenire barocco. La tecnologia è un vizio che può prendere la mano. È il problema che hanno artisti che non dispongono né di sintesi né di originalità, ed utilizzano un linguaggio copiato da altri artisti, incollando magari insieme più risultati differenti. Il rischio nell’uso della tecnologia è un po’ anche questo: chi si appropria di certi rituali, di certi mezzi ne può abusare mettendoli insieme, costruendo cose mediocri.
La caratteristica comune all’artista che cerca nella sperimentazione un’innovazione finalizzata all’evoluzione del linguaggio stesso, come dagli anni Venti fece Lazlo Moholy Nagy con i suoi modulatori di luce, per arrivare ad oggi con Olafur Eliasson, è la purezza dell’estrema sintesi del linguaggio usato come trasformazione dello spazio, come trasformazione percettiva, a prescindere che l’opera sia cinetica o sia statica. Anzi, la staticità crea quella mobilità percettiva intrinseca nel lavoro che ti permette di non vederlo mai uguale da qualsiasi punto di vista interno e esterno all’opera. E non ci sono orpelli o cose fuori posto,non ci sono elementi non funzionali né alcunché per produrre un effetto fine a se stesso, tutto è coerente a un unico progetto, un progetto però estremamente semplice e sintetico.
Questa è la differenza tra la luce utilizzata come illuminazione d’ambiente o di design e l’uso che invece ne fanno gli artisti, che non parte da prerogative che si giustifichino con alcuna funzionalità. L’artista non parte a priori per dover fare nulla di effettivamente funzionale, quindi il linguaggio che usa è puramente sperimentale, finalizzato a tirare fuori un semplice fenomeno visivo che nulla ha a che vedere con l’utilità. Per questo l’artista sgombro dal pensiero di creare un minimo di utile, può creare qualcosa fuori da qualsiasi logica che non è raggiungibile da chi invece si impone di affrontare lo spazio per dover tirar fuori un’illuminazione o una bellezza o un effetto. È lì che queste tre cose insieme creano un’opera mediocre o retorica.
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Silvia Scaravaggi: A proposito della tua serie di opere “Spazio permeabile”, progettate affinché siano per l’appunto permeabili, in modo tale che le persone ci entrino fisicamente. Me ne puoi parlare meglio?
Carlo Bernardini: L’idea di spazio permeabile è l’idea di spazio attraversabile ,in cui l’installazione può, annullando la condizione visiva, annullare la fisicità dello spazio reale e quindi permettere alla persona di attraversare uno spazio mentale. Quindi si tratta di uno spazio permeabile in maniera totalmente differente dallo spazio normale. La trasformazione percettiva fa sì che una persona attraverso il buio possa vivere quello spazio in modo diverso, uno spazio permeato dalla presenza di un ambiente di luce.
Silvia Scaravaggi: Una persona non si accorge di cosa c’è attorno? Il buio è totale?
Carlo Bernardini: Il buio non è mai totale quindi la persona si accorge di quello che c’è intorno: la fibra ottica di per sé un po’ illumina. Quindi si vede l’ambiente circostante, però si annulla letteralmente la visibilità e la realtà fisica di un ambiente normale. Lo spazio è permeabile in base al fatto che l’installazione lo attraversa creando una nuova e personale permeabilità visiva. Ci sono altre installazioni che sto realizzando, in cui il lavoro rende veramente permeabile lo spazio eludendo le fisicità: le linee attraversano gli ambienti, seguendo il concetto della fibra ottica che può portare luce per molti metri. Un’unica installazione può strutturarsi in un ambiente con un numero imprecisato di stanze e corridoi unendoli, inglobandoli tutti ed rimanendo visibile solo in piccole porzioni, in piccoli tasselli che il visitatore può ricostruire nella propria memoria, perché non ha un punto di vista complessivo in nessun luogo dell’installazione. Quindi, ognuno avrà un’immagine diversa dell’installazione.
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Silvia Scaravaggi: Perché è importante questa permeabilità dell’opera? Perché è importante che il visitatore possa interagire con l’opera e non magari vederla standone a distanza?
Carlo Bernardini: È interessante l’opera vista a 360 gradi, dall’interno e dall’esterno. La trasformazione più grande che l’arte contemporanea ha avuto non è tanto quella dei nuovi materiali, dei nuovi linguaggi, o dei concetti espressivi, quanto la perdita del perimetro di un quadro in pittura o del volume proprio nella scultura. Le opere sono sconfinate nello spazio a prescindere dai loro materiali. La luce è poi l’elemento principe perché è immateriale, considerando che si può anche lavorare con la luce del sole. La luce appunto è l’elemento più indicato per eliminare la fisicità dell’opera oltre i confini e i perimetri. Di per sé dispone di una prerogativa innovativa di linguaggio, che altri materiali non hanno: è quel qualcosa che ti permette di andare oltre i confini stabiliti.
Silvia Scaravaggi: Nello scenario attuale delle installazioni multimediali come si rapporta il tuo lavoro, visto l’utilizzo della luce come elemento fondamentale in tutta la realtà della multimedialità?
Carlo Bernardini: Ovviamente l’arte si confronta con la propria attualità. E chiaramente è anche una questione di moda, cosa che però spesso si dimostra essere un limite. La storia è sempre fatta di innovatori, di artisti che seguono le mode, e di coloro che mischiano i risultati. Due nomi su tutti tra gli innovatori di oggi sono, secondo me, Olafur Eliasson nell’uso della luce e Michal Rovner per l’elemento video.
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Silvia Scaravaggi: Parlando di video, nel 2008 hai creato un’opera che contempla l’uso di audio e video, sviluppata con la filmaker Manu Sobral, che mi sembra possa rappresentare un’evoluzione nella tua produzione artistica.
Carlo Bernardini: In quest’opera, che si chiama “La quarta direzione dello spazio“, ho usato due videoproiezioni, pensate per uno spazio di quattordici metri per due. Il movimento del visitatore nello spazio fa attivare un primo video, su cui ci si può soffermare; continuando a muoversi, attratti dai fasci luminosi, si attiverà anche il secondo video opposto al primo nello spazio dell’installazione. Sono due video differenti che subentrano improvvisi con l’addentrarsi delle persone nello spazio interno all’installazione. I suoni utilizzati, così come le immagini, sono puramente astratti, sono rumori tratti dal mondo subacqueo, percussioni, materiali che anche se sovrapposti non entrano in collisione.
Quest’opera rappresenta un’esperienza diversa rispetto alle mie altre installazioni e alle sculture luminose, che trattano però sempre un tema comune che è quello della scomposizione dello spazio e della divisione dell’unità visiva. In questo ambiente si crea una situazione in più generata dal video e si giunge ad una completezza maggiore con l’aggiunta dell’audio. Una sovrapposizione sensoriale di due elementi: la percezione statica e quella dinamica. L’installazione statica si trasforma con il movimento indotto dai video, generato dal movimento stesso del corpo che la permea, mentreil video invece possiede un movimento interno, che gli appartiene. In questo caso si sommano l’emozione visiva dinamica con quella statica dell’audio, che creano una situazione meno rassicurante per lo spettatore, più imprevedibile.
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Silvia Scaravaggi: Quanto è importante la reazione dello spettatore nello sviluppo del tuo lavoro? E quanto è importante nell’utilizzo di un mezzo che può creare situazioni illusorie la consapevolezza del pubblico?
Carlo Bernardini: Per quanto riguarda la reazione del pubblico, ne tengo conto per capire se certe dinamiche si sono scatenate o meno. Magari lavoro per migliorare la reazione di alcuni aspetti percettivi. Molto spesso nelle mostre i visitatori non conoscono tutte le premesse che stanno alla base di un’opera, possono arrivare da soli a capire come sono costruite certe strutture o certe situazioni. Possono capire mentre fanno esperienza nell’opera, che diventa, quindi, un fatto esperienziale. Una persona scopre qualcosa a cui non è preparata prima, compie un minimo di sforzo o di azione. A volte questo accade, altre volte meno, alcune persone rifiutano di avvicinarsi ad un’opera troppo mentale e cercano qualcosa di facilmente o immediatamente comprensibile.
Silvia Scaravaggi: A proposito di premesse e di temi che stanno alla base della creazione di certe opere e installazioni, nel 1997 hai pubblicato un testo teorico dal titolo “Divisione dell’unità visiva” (Roma, 1997, Ed. Stampa Alternativa)
Carlo Bernardini: Questa idea della divisione dell’unità visiva è nata nei primi anni Novanta per creare due identità visive autonome all’interno della stessa opera. All’inizio l’avevo realizzata con dei quadri visibili al buio, composti da un substrato di fosforo sotto a trenta velature di pittura. Erano dei monocromi bianchi attraversati da linee bianche, linee di luce bianca sul bianco; al buio si vedeva una sorta di negativo fotografico, il bianco diventava un baluginio leggero tra le tante velature. La parte di superficie che non era ben coperta dalla pittura faceva fuoriuscire il substrato di fosforo, che creava appunto questa sorta di baluginio esteso su tutta la superficie, mentre la linea dipinta di bianco non emetteva luce e diventava una linea d’ombra sulla superficie. Questa era una realtà visiva autonoma di quadri modulari in sequenza, visibili anche in luce normale bianchi e luminosi al buio.
Le tipologie di opere come “Spazi permeabili“, invece, sono un esempio di scomposizione dello spazio creata dentro un prisma a struttura pentagonale scalena. Ho usato questa struttura perché non si capisca davvero quale sia l’effettivo volume, quanto sia esso dovuto all’effettiva rifrazione sulla superficie trasparente e quanto invece alla fibra ottica che crea una scomposizione dello spazio interno. Quest’opera è basata proprio sul concetto di permeabilità visiva anche dentro un’opera solida.
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Nei “Light box” invece, davanti alla fibra ottica è posta una superficie che si chiama OLF, che è una lente, un diaframma che rende al contempo reale ed illusorio ciò che si vede. Quello che si vede non è tutta fibra ottica ma è un riflessione contro uno specchio posteriore che contiene questa pellicola tra due lastre di plexiglas e serve per far perdere la cognizione dei confini e della profondità. Lavorare con questi materiali è fondamentale nelle opere di piccole metrature, per ricreare la stessa sensazione illusoria che la fibra ottica crea nelle installazioni di grandi dimensioni.
Lo stesso discorso di divisione dell’unità visiva si applica alle sculture di acciaio e fibra ottica, come ad esempio in “Linea di Luce“, presentata temporaneamente a Roma in Piazza del Campidoglio per il Semestre di presidenza italiana nell’Unione Europea nel 2003. Di giorno si ha il sopravvento dell’acciaio sulla luce, di notte l’acciaio scompare e appare un’altra forma nella forma. Si creano due realtà: una più minimale, un’altra più mentale, differenti e autonome nell’arco delle ventiquattro ore. La divisione dell’unità visiva è proprio questa differenza di percezione.
C’è un altro aspetto in cui ho attuato la divisione dell’unità visiva, che è la condizione visiva bidimensionale e tridimensionale. Ad esempio ,per una mostra realizzata nel 2004 per il Museo Passo Imperiale di Rio de Janeiro c’è un’installazione, della serie “Spazio permeabile“, lunga venticinque metri, in cui da un unico punto di vista, chiudendo un occhio, si può vedere un rombo bidimensionale e un triangolo bidimensionale che si toccano in un punto. In realtà, queste due figure geometriche sono tracciate tra 4 superfici, il pavimento e tre pareti, mentre dietro a queste linee ce ne sono altre che scorrono proprio sulle stesse superfici dello spazio, pavimento e pareti. Questo è un esempio di installazione che ho curato in modo perfetto, in cui è possibile, da un preciso punto di osservazione, non vedere gli sdoppiamenti delle linee: si vedono in sostanza solo le linee che attraversano lo spazio e che nascondono perfettamente quelle che scorrono sulle pareti. Appena ci si muove di un solo millimetro, l’immagine si sdoppia, lo spazio si apre completamente e le forme diventano completamente diverse muovendosi nello spazio. L’opera si apre come le ali di una farfalla e diventa come un’immagine in un caleidoscopio.
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Silvia Scaravaggi: Per fare esperienza delle tue installazioni, alla Galleria Grossetti Arte di Milano, è in corso fino al 29 maggio 2009 una tua personale. Che opere sono esposte?
Carlo Bernardini: È un’esposizione abbastanza completa delle tipologie dei miei lavori, con opere diverse in dialogo con i materiali e con modalità differenti. C’è inoltre un’istallazione site specific, un’installazione ambientale che attraversa le due sale della galleria, divise da una parete: questa installazione le ingloba in un’unica forma. In questa installazione, le fibre passano sia fuori dalle due stanze, sia all’interno, perforando la parete e creando un’unica forma che elude la fisicità del luogo. Tre prismi in plexiglass e la fibra ottica creano una linea diagonale di sculture. Sono presenti insieme a due light box. Anche in questa mostra è evidente che mi interessa molto la sperimentazione con i materiali, acciaio e fibra ottica, plexiglass e fibra ottica; le superfici elettro-illuminescenti, sono particolarmente interessanti per lo spessore di un solo millimetro dentro al quale c’è la luce. Molto spesso il pubblico che è ignaro di che tipologia di materiale si tratta, si avvicina a questa materia chiedendosi come funziona, come possa la luce stare in un millimetro di spessore; allora cerca un faro che proietti questa luce in forma triangolare, non lo trova, quindi guarda dietro la superficie per vedere se trova una lampada e non la trova. E resta spiazzato. In realtà un segreto c’è: è una microalimentazione che arriva da dietro un’intercapedine, e viene utilizzata solo in ambienti dove la sorgente resta fuori dallo spazio visivo.
Ecco, questo è un esempio di quegli elementi che devono essere dosati con parsimonia, nella giusta misura, evitando di farsi prendere la mano e perdere quella secchezza o sintesi espressiva che è l’elemento che fa la differenza. La mia idea creativa non è quindi minimalismo, ma un tentativo di creare opere da intendersi come organismi visivi, in cui avvengono sovrapposizioni percettive simultanee, statiche e dinamiche.