Arduino da Dadone, o Arduino da Pombia, conosciuto come Arduino d’Ivrea, fu re d’Italia dal 1002 al 1014. La cultura romantica hanno reso popolare la figura di Arduino di Ivrea, vedendo in lui un esponente precoce della lotta per l’affrancamento dell’Italia dal giogo della dominazione straniera.
La cultura digitale gli ha dato in aggiunta una sorta di popolarità internazionale, da quando cioè Massimo Banzi, ex docente dell’ormai defunto Design Institute di Ivrea e oggi docente della Naba di Milano e uno dei titolari dell’agenzia Tinker.it, decise di usare quel nome (che ai tempi era poi nient’altro che il nome del bar dell’Istituto) per chiamare così il suo nuovo prodotto hardware destinato (almeno per ora) a rivoluzionare il mondo del design, dell’arte e della creatività digitale in genere. E in un certo qual modo, a rappresentare uno dei rarissimi esempi in cui la creatività Italiana – e l’intelletto scientifico che la sottende – è riusciuta inequivocabilmente ad affrancarsi dalla dominazione della produzione hardware e software internazionale. Da non credere, solo a scriverlo nero su bianco.
Beh, questo attacco ce l’avevo pronto da tempo, qualche mese per l’esattezza, da quando per la prima volta cercai di contattare Massimo Banzi per un’intervista, per parlare della sua attività professionale e della sua creatura Arduino, una piattaforma elettronica open source basata su una scheda hardware e un software atti ad interfacciare un computer con un oggetto/sensore. Dopo un inseguimento strenuo tra le nebbie dei mari digitali, noncurante di tutti coloro che mi avvertivano della notoria inafferabilità del personaggio, sfogliando il mio database di conoscenza per provare a stimolarne l’intelletto con domande non banali, beh proprio quando non ci contavo più, ho ricevuto risposta alle mie domande…e leggendo degli impegni di Banzi in giro per il mondo, non posso che ringraziarlo per sua disponibilità.
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Prima però di leggere l’intervista, una riflessione finale: pochissime applicazioni hardware e software hanno avuto negli ultimi anni la capacità di affermarsi come dei veri e propri “standard”, usati nelle scuole, dai creativi e dagli artisti. Soprattutto se prendiamo in considerazione ciò che sta al di fuori del mondo delle grandi case produttrici dell’universo IT. Se dovessi pensarci, rimanendo quindi nell’ambito a noi gradito del “do it yourself”, potrei citare tra i software forse solo Processing di Casey Reas e Ben Fry, Isadora di Mark Coniglio, Open Frameworks di Theodore Watson e Zach Lieberman e, tra gli hardware, per l’appunto la magica scheda di Massimo Banzi.
Arduino è stato l’oggetto hardware/software che serviva a tutti coloro che, nell’ambito dell’interaction design o del design in generale, avevano necessità di interlacciare la macchina (e i flussi audiovisivi al suo interno) con l’oggetto fisico, gestendo segnali da sensori di ogni natura, da luci, generatori di suoni, networks di varia natura, gestori telefonici e interfacciandosi agilmente con quasi tutti i programmi di gestione audiovisiva in circolazione. Attorno ad Arduino si è creata in fretta una community di utenza, sfruttando le potenzialità di diffusione della rete, capace di appoggiarsi ad altre community analoghe come appunto quella di Processing, e portando quindi il suo creatore in giro per il mondo per i principali media center interessati a proporre workshop e presentazioni. Un vero e proprio terremoto per il mondo del design, i cui effetti non sono ancora del tutto percepibili Anche per il fatto che il progetto Ardunio è in costante evoluzione, e ancora non si può sapere cosa altro potrà fare in futuro…
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Marco Mancuso: E’ ormai un po’ di tempo che Arduino è diventato uno dei tools hardware e software più utilizzati a livello internazionale per l’interazione tra computer, software, materiali multimediali e oggetti fisici. Non ho voluto intervistarti prima nel momento in cui Arduino è uscito e come tutte le novità è stato considerato giustamente come una vera novità nel mondo della creatività e dell’arte digitale, ma ora vorrei che tu mi facessi un po’ il punto della situazione. Come sta procedendo l’esperienza di Arduino, quale il feedback a livello nazionale e internazionale, come si è inserito secondo te all’interno del mondo dell’arte digitale, come viene percepito dagli addetti ai lavori?
Massimo Banzi: Arduino si sta diffondendo in maniera abbastanza veloce grazie anche al traino di riviste come Make e al fatto che viene ormai usato nelle scuole di design di mezzo mondo. Stiamo ancora esplorando il modo dell’hardware open source che è un campo abbastanza vergine. Gli esempi di hardware o.s. sono abbastanza rari e sicuramente non di massa.
Arduino è’ partito come uno strumento per designers ed alla fine è diventato più generale per tutti quelli che si occupano di tecnologia “fai da te”, credo per il costo basso e la facilità d’uso (relativa). Il campo era dominato dagli ingegnieri che spesso prevedono interfacce utenti complesse e dispositivi difficili da comprendere nel nome di un certo modo di concepire la tecnologia come campo elitario, dove ci si può entrare solo se si diventa uno “stregone” di questa religione. In realtà, se guardi l’evoluzione del computer, adesso anche mia mamma sa andare su internet e usare il computer, mentre 60anni fa ci voleva mezzo palazzo e uno squadrone di ingegneri in camice bianco solo per accenderlo. Lo stesso processo avviene nel campo delle tecnologie moderne, dove ti accorgi che per modificare i prodotti che usi non è necessario passare 5 anni all’università.
Il feedback a livello nazionale è abbastanza basso, che è un modo gentile per dire che quasi nessuno sa chi siamo. Per come funziona l’italia è forse un bene….
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Marco Mancuso: Arduino, nel corso della tua esperienza professionale che ti ha visto consulente e Labour Party BT, MCI WorldCom, SmithKlineBeecham, Storagetek, BSkyB, Matrix Incubator e boo.com ., nasce anche umanamente dalla tua esperienza al Interaction Design Institute di Ivrea. Cosa ti è rimasto di quella esperienza, come effettivamente essa si concretizza all’interno della tua attività con Arduino e Tinker e in generale cosa è rimasto a livello nazionale e internazionale di quel centro di ricerca e di sviluppo?
Massimo Banzi: Ivrea ha generato tanti semi che sono in giro per il mondo e hanno creato tante piccole aziende, studi, idee, Molti studenti sono ora designer affermati in aziende importanti come IDEO, Panasonic, Canon, Microsoft e molti altri. Se da un lato ringrazio una certa Telecom Italia per aver creduto in questa idea, mi spiace che un altra Telecom italia non abbia capito che in Italia avevamo un centro che faceva concorrenza all MIT media lab e ad altri centri di livello mondiale. Alla fine è costata meno di altri tentativi di emulare il MIT che non hanno mai prodotto risultati visibili.
Nel mio lavoro è stato molto importante essere ad Ivrea per capire le necessità di questo nuovo modo di fare design e capire che c’era bisogno di strumenti nuovi per aiutare i designers nel loro lavoro. Tinker.it nasce come il modo di capitalizzare l’esperienza personale fatta ad Ivrea e con Arduino, ma si pone come obiettivo di guardare ad un mondo piu ampio del design incrociato con la tecnologia. Abbiamo creato un’azienda che si impegna ad utilizzare le metodologie sviluppate con Arduino per applicarle a contesti piu ampi, dove c’è spazio per creare strumenti ancora più semplici o per aiutare le aziende ad applicare la metodologia per favorire l’iinovazione.
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Marco Mancuso: Cosa è oggi per te il concetto di “thinkering” e quanto sei legato al concetto di Do It Yourself? Sono sempre più convinto che, soprattutto per chi inizia ad approcciarsi alle tecnologie e al computing e ne desidera una risultante creativa, sia necessario fornire gli strumenti per poter lavorare, siano essi software hardware e codici. Questo per lo meno nei centri e nelle scuole e nelle accademie. Senza questi ogni teoria rimane attaccata al nulla. Da programmatore, software artist, inprenditore, quanto condividi questo mio pensiero?
Massimo Banzi: Ci sono diverse metodologie per fare design o innovazione, alcune molto teoriche ed altre molto più pratiche. Noi crediamo nella capacità di esplorare nuovi concetti attraverso la prototipazione rapida di oggetti tecnologici, spesso partendo ad esplorare senza avere una destinazione definita. Questo lasciarsi sorprendere dagli eventi, l’uso non convenzionale di materiali e tecnologia permette spazi per creare innovazione. Dato che in Italia non siamo esattamente un motore di innovazione di base come gli USA o anche l’UK, abbiamo però creato nel tempo innumerevoli brevetti ed idee basate sull’utilizzo nuovo di materiali e meccanismi esistenti. Credo che le metodologie che utilizziamo possano aiutare l’innovazione anche nel campo tecnologico.
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Marco Mancuso: Tu sei stato invitato molto spesso a tenere workshop e incontri a Mediamatic e in altri centri che lavorano a cavallo tra tecnologia (elettronica e digitale) e creatività, con un approccio a cavallo tra l’hacking e il design. Cosa ti sta lasciando questa esperienza a livello internazionale e quali possibili sviluppi anche per la tua attività ne stanno nascendo?
Massimo Banzi: Dal primo gennaio a oggi sono salito su 36 aerei, questo ti fa un po’ capire che per fare quello che mi piace devo viaggiare molto. In Europa ci sono dei posti dove si sperimenta molto e io di solito cerco di passare più tempo possibile in quei posti.
Oltre a Mediamatic ad Amsterdam c’è Waag society e Steim che fanno un lavoro interessante. In particolare mi piace parlare di un progetto a cui sono legato da molto affetto: a Budapest esiste un centro che si chiama Kitchen Budapest dove giovani artisti/designer sono al lavoro con altrettanto giovani ingegneri per creare e prototipare le idee piu disparate. Il centro è stato fondato con pochi soldi della Telekom ungherese ma con tanto amore da Adam Somlai-Fisher che è un architetto molto bravo (intervistato da te sul numero 32 di DigiMag di Marzo 2008 – http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1098). In poco più di un anno hanno già “gemmato” una startup ed alcuni loro progetti hanno visibilità mondiale. Credo molto nel modello light di KiBu e la loro capacità di esplorare con quattro soldi ma molto impegno.
Sarebbe bello se si potesse fare una cosa simile in Italia. C’è molta innovazione basata sulle idee che non richiedono tecnologie costosissime che noi Italiani sapremmo fare benissimo, basterebbe che qualcuno investisse quattro soldi e potremmo generare. Se qualcuno che sta leggendo ha i soldi e vuole farlo si metta in contatto 🙂
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Marco Mancuso: Dall’alto della tua esperienza internazionale, e in seguito alla tua esperienza sia a Ivrea che ora in Naba, come vedi la situazione in Italia sia a livello produttivo, che a livello progettuale che infine a livello scolastico? Quali situazioni vedi lavorare meglio e quali potenzialità risiedono nel nostro paese? Quali invece le critiche che ti senti di muovere o i gap da colmare?
Massimo Banzi: L’Italia è una gerontocrazia dove io che ho 40 anni sono un “giovane” , da qui si capisce come sia sempre difficile riuscire a lavorare allo scoperto su cose innovative. Una volta l’ex ministro Siniscalco disse: «In Italia non sarebbe mai diventato Bill Gates, perché non avrebbe avuto i capitali e lo avrebbero anche arrestato, visto che ha cominciato in un garage e non rispettava la 626». E’ meglio lavorare a livello europeo aspettando che i giornalisti italiani ti scoprano mentre stanno facendo “cut and paste” da un sito inglese come fanno di solito…
Però ci teniamo molto a dire in giro che facciamo Arduino in Italia….se guardi una delle schede piu recenti vedi che abbiamo messo un’immensa mappa dell’Italia ed il fatto che sia un oggetto tecnologico fatto in Italia è un punto forte. Ci diceva il nostro distributore in Cina che nonostante ci siano parecchi cloni, il fatto che il nostro sia quello “Made in Italy” lo fa vendere di più.
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Marco Mancuso: Senza scendere eccessivamente nel dettagio delle potenzialità tecniche di Arduino, argomento questo più per sviluppatori interessati, vorrei al contempo sapere quali sono al momento le maggori potenzialità del tool. Intendo dire che Arduino nasce per interagire con sensori, oggetti fisici e software come Flash o Processing e ha trovato molte applicazioni nell’ambito del cosiddetto interaction design. Più recentemente ha sviluppato potenzialità anche con strumenti blutooth e quindi anche con la tecnologie mobile per non dire quella legata a tutti gli strumenti locativi. Puoi parlarmi di questi sviluppi e di quelli ulteriori, se ci sono, sui quali stai lavorando?
Massimo Banzi: Arduino alla fine è un piccolo computer di bassa potenza ma di grandi potenzialità. Da la capacità di costruire oggetti che interagiscono con l’ambiente che gli sta intorno e creare oggetti “intelligenti”. Viene già utilizzato da diverse aziende per prototipare prodotti sia di design che anche molto più convenzionali.
Tecnologicamente è piuttosto stupido, il valore è nell’aver composto un mashup di tecnologie esistenti ed open source che individualmente sono allucinanti da imparare ma messe assieme fanno un prodotto facile ed attraente.
Stiamo creando diverse versioni di Arduino.. alcune da richieste degli utenti e altre come prodotto di progetti di consulenza che facciamo. Spesso i prodotti Arduino sono la versione open source di schede o software che abbiamo fatto per clienti Tinker.it. Per esempio ora stiamo lavorando al progetto di un museo della scienza negli Stati Uniti e per loro stiamo costruendo una nuova famiglia di prodotti che semplificano ulteriormente Arduino.
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Marco Mancuso: Come è legato Arduino ad alcune analoghe community di sviluppo come possono essere quella di Processing soprattutto, dalla quale mi pare di capire che lo stesso linguaggio del software di Ardunio proviene? E a tal proposito, seguendo quali esigenze è nato il software open source di Arduino in confronto alla scheda hardware originale?
Massimo Banzi: Arduino è molto legato a Processing perche in qualche modo ne è una estensione. Quando eravano ad Ivrea abbiamo discusso più volte con Casey Reas, che insegnava li, come estendere Processing verso l’hardware. Ne sono nati una tesi di master che abbiamo seguito assieme (Il progetto Wiring) e poi Arduino, nato come versione completamente open dei concetti sviluppati con wiring.
Processing era perfetto per noi, un ambiente di sviluppo software con solo 6 pulsanti mentre un mostro come Eclipse ne avrà almeno 60… inoltre il linguaggio ha una community molto diffusa ma fatta di gente di qualità, per cui siamo stati molto fortunati ad essere nel momento giusto al posto giusto. Siamo molto legati anche a PureData ed ho molti contatti con i creatori di VVV coi quali organizziamo un workshop a Londra in ottobre.
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Marco Mancuso: Come sei legato, praticamente e intellettualmente, al mondo dell’open source? E’ una filosofia che condividi e, dall’alto della tua esperienza e frequntazioe sia in ambito commerciale che di hacking, come vedi possibile poter coniugare la filosofia attivista dell’open source, del free software e dell’hacking creativo con le esigenze di guardagnare mediante il proprio lavoro, la vendita di strumenti come Arduino o di software come Processing e altri?
Massimo Banzi: Mi è sempre piaciuto l’open source come estensione del meccanismo della scienza in base al quale tutti estendono il lavoro di altri perchè viene condiviso con tutti. Uso linux dal ’93 ed in qualche modo ho sempre cercato di supportarlo, per esempio facendo donazioni o comprando distribuzioni. C’è molto da fare nel mondo dell’Open Source Hardware per capire quali siano modelli di business che funzionano.
Inoltre c’è un grosso problema di fondamentalismo nell’open source: c’è una percentuale di utenti che hanno la ragionevolezza di un Talebano e credono che tutto quello che faccio debba essere sempre open ed utilizzabile da tutti senza limitazioni, però qualcuno mi dovrà pure pagare per quello che faccio…..
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Marco Mancuso: Ultima domanda: quali progetti artistici hai notato come più efficaci, più interessanti come sviluppo, più belli esteticamente, che sono ovviamente creati tramite Arduino? Qualcosa che ti piacerebbe segnalarci?
Massimo Banzi: Questa è una domanda difficile. Ci sono migliaia di schede Arduino in giro ed è molto difficile capire cos’è fatto veramente con Arduino, perchè poche persone poi te lo vengono a raccontare. Direi molti dei progetti fatti all’ITP di New York, dove hanno 120 studenti che macinano tutti Arduino, sono belli ed interessanti.