C’era una volta la Milano degli Anni Sessanta. Una città molto diversa da quella che tutti coloro che si muovono oggi nel campo della cultura e dell’arte conoscono e disprezzano. C’era una volta la Milano dei baby boomers e dello sviluppo economico, la città della formazione e della ricerca: dal Politecnico a Brera, dal Laboratorio di Fonologia Musicale della Rai al Laboratorio di Cinematografia Ultraveloce.

La capitale della creatività e del progetto, il luogo di lavoro e di incontro di personaggi unici e irripetibili forse nel panorama artistico del nostro paese: da Luciano Berio a Bruno Munari, da Bruno Maderna a Gianfranco Bettini, da Umberto Eco a Ettore Sottsass, da Enzo Mari a Ludovico Magistretti, da Alessandro Mendini ai fratelli Castiglioni, da Piero Manzoni ad Angiolo Giuseppe Fronzoni e Giuseppe Colombo. Una città fatta di fermento, di scambi, di attività, a cui i nostalgici come noi fanno spesso riferimento come a un monito di ciò che è stato e che forse un giorno potrà tornare ad essere.

Milano negli Anni Sessanta è stata questo è molto altro: al di là di tutto è stata la città che ha visto la nascita di uno dei movimenti artistici d’avanguardia più importanti del secolo scorso: l’Arte Cinetica e Programmata. Un movimento che ha conosciuto un grandissimo successo a livello internazionale ma che è stato vittima di un’altrettanto rapida caduta nel dimenticatoio del Arte Contemporanea. Questo per lo meno fino a quando, proprio grazie alla diffusione delle arti digitali e computer-based, le opere e le istanze dell’ACeP sono tornate prepotentemente alla ribalta.

Tanti gli ovvi rimandi tra le due correnti artistiche, moltissimi i riferimenti di artisti contemporanei nazionali e internazionali alle esperienze di collettivi artistici tra cui il Gruppo T, il gruppo MID (Movimento, Immagine, Dimensione) e il gruppo N: chiare le possibili compenetrazioni estetiche, poetiche, progettuali e percettive, come messo ben in evidenza un paio di anni fa dalla mostra Bit International organizzata dallo ZKM di Karlsruhe (curata da Darko Fritz e con Co-curatori Margit Rosen e Peter Weibel), sulla storia della movimento artistico Nove Tendencije – New Tendencies (e dei suoi cinque ormai mitici incontri tra il 1961 e il 1973 al Museo di Arte Contemporanea di Zagabria) e il suo ruolo chiave come ponte teorico tra l’arte costruttivista, l’arte visuale, l’arte cinetica e programmata e per l’appunto la prima computer art.

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Tra i protagonisti di quell’epoca irripetibile, il gruppo MID (nato a Milano nel 1964 riunendo Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca e Alberto Marangoni, la cui attività è terminata nel 1992) sono stati il primo gruppo in Italia che ha allargato la propria ricerca oltre i ristretti confini disciplinari dell’arte. Lavorando a cavallo tra ricerca tecnologica e intenti didattici, concependo la comunicazione visiva come linguaggio che comprende le forme espressive più diverse: film, grafica, ambienti, oggetti, architettura, fotografia.

Il gruppo MID ha anticipato quelle forme di interdisciplinarità e condivisione tipiche oggi di molti collettivi artistici e di molti studi di design che lavorano con le tecnologie digitali. Tra Immagini stroboscopiche, Ambiente stroboscopici programmati e sonorizzati e dischi cinetici il gruppo MID invitava con i suoi lavori lo spettatore a immergersi in uno spazio globale, sollecitato otticamente e stimolato psichicamente. Un percorso di ricerca che ha continuata a caratterizzare l’opera e la produzione di Antonio Barrese anche dopo la fine dell’esperienza con il grupop MID.

Abbiamo quindi intercettato Antonio Barrese per mezzo delle strane dinamiche che determinano le nostre vite in Rete e l’intervista che segue è un excursus senza tempo tra presente e passato, tra ricerca e arte, tra cultura del progetto e potenzialità tecnologica, tra il lavoro negli anni di un artista e il suo ruolo all’interno della società in cui era ed è tutt’oggi collocato.

Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Che cosa rappresentano, per te e per il tuo lavoro in tutti questi anni, quelle correnti espressive e artistiche che fanno uso delle tecnologie?

Antonio Barrese: Penso che l’arte nella sua globalità sia una metafora.Sono metafore anche le cose che ne partecipano dal punto di vista strumentale, metodologico ed espressivo: la prassi interdisciplinare, l’interattività, lo stile, la struttura e le modalità morfologiche, l’equilibrio tra casualità e programmazione, i modi con cui si produce e si attua, i rapporti che instaura con gli spettatori e il corpo sociale.

Credo che quelli che chiami “i confini disciplinari dell’arte” siano delle ristrettezze recenti, che non hanno caratterizzato l’arte nei tempi passati e che bisognerebbe rimuovere. Sono necessità catalogatorie più utili ai critici che agli artisti. Attribuire all’arte degli spazi di pertinenza, dei cortili e degli orari in cui le sia permesso giocare senza dare fastidio, ne contraddice la natura in quanto essa ha lo scopo di indagare e definire ciò che ancora non c’è e per farlo richiede libertà.

Si è diffusa la convinzione che nell’arte esistono confini disciplinari esi è permesso che le tecnologie diventassero appannaggio dell’industria, che le ha privatizzate a scopi produttivi. Naturalmente questi recinti non sono totalizzanti e non sono (stati) condivisi da tutti: in molti casi le tecniche, le scienze, i materiali e le tecnologie, malgrado il tentativo di tenerle separate, hanno continuato a interagire con l’arte.

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Credo nell’arte come techné, in un’unità indistinguibile di espressione, lavoro manuale, tecnica, mentalità scientifica e progetto. Da quando ho deciso di essere artista, non ho mai creduto che l’arte si esaurisse nelle manifestazioni che allora erano in voga, non mi sono mai fatto attrarre da correnti e conventicole di vario tipo e neppure dagli stili precotti cucinati per opportunità da critici, galleristi e mercanti. Ho sempre pensato che l’arte è collocata all’incrocio di espressività, ricerca linguistica, scienza, tecnica e che acquisti senso e significato tramite il progetto, inteso come costruzione razionale di una processo formante.

Modo di fare che sintetizzo nella frase: La forma non esiste prima del progetto. L’idea di arte come techné rende superflui i discorsi sul metodo interdisciplinare, approccio che peraltro ho sempre reputato essere un pre-requisito, uno strumento del lavoro e della ricerca artistica, utile ma ovvio. Credo che assegnare un ruolo centrale al lavoro interdisciplinare non determini una poetica, ma sia un metodo debole: più che altro un aspetto del problem solving. Quando se ne parla come se avesse la forza di imporre uno stile, o fosse un modo di fare epocale come lo è stata la Prospettiva, si sta mistificando, si sta portando alla ribalta un aspetto dell’operatività artistica con cui impressionare e tentare di guadagnare dei meriti.

L’interdisciplinarità esisteva anche prima di essere accolta nella sfera dell’arte e non è spuntata dal nulla per l’interesse dei designer e degli artisti. Essa è piuttosto – assieme alla sperimentazione e alla ripetitività dell’esperimento – uno dei fondamenti della scienza moderna che è andato avvalorandosi da Galileo in poi. Se da alcuni decenni ha assunto maggior visibilità si deve all’essere diventata un punto di forza del marketing artistico. La prassi interdisciplinare ha caratterizzato l’Arte Cinetica e Programmata [ACeP], ma anche il Design Italiano che le era contemporaneo: un’identità di approccio che mi ha fatto pensare che tra Arte e Progetto vi sia piena identità.

Guardando oltre le intenzioni e le necessità operative, il lavoro interdisciplinare (sviluppato da numerosi teorici del design di area anglosassone ed ulmiana come Guy Bonsiepe, Tomas Maldonado, Christopher Alexander e altri, nonché da filosofi dell’arte come Abraham Moles, Max Bense) si è risolto più in velleitarie dichiarazione d’intenti che in effettiva operatività. Con questo non voglio negarne il valore, ma intendo ricondurlo alla concretezza, a pratica operativa necessaria ma non paradigmatica, integrata nel processo della ricerca artistica (di qualsiasi ricerca, di qualsiasi fare) e impiegata quando necessario. Insomma, l’interdisciplinarità non è un a priori, ma un momento utile a governare un’operatività complessa e in evoluzione.

Per me è quindi inaccettabile settorializzarsi, anche se sono consapevole che limitando il campo operativo sia più facile trasformare il manufatto artistico in una merce distinguibile, adatta al mercato che vuole prodotti dotati di un nome e muniti di un’etichetta. È vero che il MID si sia caratterizzato per una vasta gamma di interessi e di ricerche e questa attitudine continua anche nel mio lavoro attuale. Ai tempi del MID ho lavorato su tutte quelle aree che hai citato: oggetti, strutture, ambienti, allestimenti, fotografia, cinema, ricerche di estetica sperimentale perché tra esse esisteva una coerenza molto forte ed evidente, che non generava dubbi.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: In molte interviste affermi che il tuo lavoro è basato sullo studio della tecnica, del medium e dei linguaggi che ne derivano piuttosto che su un utilizzo funzionale dello strumento per la riproduzione di qualcosa di altro. Quali sono le differenze e, viceversa gli elementi costanti, risultanti da questo tipo di studio nel passaggio dalle tecniche analogiche al digitale?

Antonio Barrese:Il mio lavoro non è basato sullo studio della tecnica, dei medium e dei linguaggi. Queste cose mi limito ad usarle, manipolarle, guardar loro dentro e dietro, interpretarle, giocarci per vedere cosa succede, un po’ come fanno i bambini quando capiscono il mondo rompendo i giocattoli. Ho dedicato la mia attenzione alla tecnica, a questa miscela di arte e scienza, perché i contenuti, la mobilitazione dei sentimenti e, peggio, la vellicazione delle emozioni mi imbarazza.

Di fronte a queste manifestazioni non so come comportarmi, mi sento estraneo. L’arte intesa come contenuto, messaggio, qualcosa-da-dire, già ai miei esordi mi sembrava pessima. Ho rapidamente capito che i contenuti non sono infiniti, ma classificabili e numerabili. Casomai ad essere molteplici sono le varianti, le interpretazioni, gli adattamenti tecnici, l’evoluzione dei modi espressivi e, naturalmente, gli infiniti modelli comportamentali e sociali che da quell’insieme di permutazioni si evincono: la dimensione ermeneutica, insomma.

Questi sono i motivi che mi hanno fatto preferire l’arte tecnologica e i new media e che hanno sviluppato i miei interessi non verso la riproduzione di qualcosa di preesistente, ma verso la produzione, estraendo le possibilità inespresse e le virtualità latenti, dando voce ai mezzi e agli strumenti con i quali mi confronto. Dare voce alla tecnica – un punto caratterizzante del mio lavoro – non significa esprimere un contenuto, ma individuare un senso, creare il contesto di legittimazione e di simpatia all’interno del quale sviluppare i temi della ricerca e l’espressività che ne scaturisce. Per dare voce alla tecnica utilizzo sia media esistenti che media prodotti ad hoc anzi, mi correggo, sempre prodotti ad hoc, perché le opere d’arte sono mezzi di comunicazione e non contenuti, perché propongono virtualità e stimoli, si offrono all’interpretazione e in questo diventano Opere Aperte nell’accezione di Eco e Munari.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Quali sono gli studi rispetto all’interazione opera-spettatore condotte con il gruppo MID che senti essere attuali ancora oggi? Se per l’arte cinetica, ad esempio, l’interattività era un valore importante, certo non hai smesso di pensarla in questo modo considerando i tuoi lavori più recenti come i LedBox o gli RGBBox o i FluoBox e il TracingTotem che rimandano alle ricerche portate avanti dai vostri oggetti cinetici del periodo 1963-1972 Generatori Stroboscopici, Generatori Traccianti, Lampeggiatori, Generatori di Interferenze). http://www.antoniobarrese.it/ITA/Storiche.php

Antonio Barrese: L’interattività è stata importante per alcuni protagonisti dell’ACeP, ma non per tutti. Nel 2007, quando ho scritto il libro MID. Alle origini della multimedialità. Dall’arte programmata all’arte interattiva, che sistematizza il lavoro del Gruppo MID, ho definito l’interattività delle nostre opere col termine Dialogicità, che mi sembra più appropriato. La Dialogicità è l’aspetto più rilevante di quelle opere e, credo, di tutti gli oggetti cinetici che si caratterizzano per un’elevata disponibilità interattiva, che richiedono l’intervento del fruitore, senza il quale rimarrebbero immobili e senza vita.

Non è eccessivo affermare che gli Oggetti Dialogici contenevano il paradigma, il modello anticipatore dell’odierna interattività e dell’arte digitale. Queste opere sono, in qualche modo, l’anello mancante tra l’Arte Programmata e l’Arte Digitale. Agli artisti dell’ACeP già negli anni Sessanta era noto quale sarebbe stato il mondo del computer, della digitalità, della massa informativa e comunicativa che di lì a poco sarebbe stata messa in circolazione. Bisogna ricordare che la digitalità nasceva proprio in quegli anni e che il paradigma culturale era quello della Teoria dell’informazione e della Linguistica: tutte le scienze studiavano e indagavano utilizzando quei metodi e quei protocolli di ricerca.

Questo orizzonte scientifico è stato determinante nelle mie scelte artistiche. Giovanni Anceschi ed io sosteniamo che gli artisti cinetici e programmati lavoravano senza computer, ma come se il computer esistesse. Naturalmente allora non si parlava di interattività, ma di Opera Aperta, nel senso che i manufatti artistici avrebbero dovuto essere completati dallo spettatore, e di Partecipazione, termine quest’ultimo di ben maggiore evidenza politica. L’interattività come mezzo, più che come fine, una metafora.

Di questa intenzione è esemplare la Scultura da prendere a calci di Gabriele De Vecchi (http://www.youtube.com/wacch?v=SHYo5tLsYts), ma anche il grande Disco Cinetico Stroboscopico (http://www.antoniobarrese.it/ITA/DischiGrandiPiccoli.php) presentato a Nuova Tendenza nel 1965 che, date le sue dimensioni, per azionarlo richiedeva di appendersi al grande anello della sua circonferenza. Fu un’autentica rivoluzione, se non altro perché fino a quel momento le opere, comprese le sculture, non si potevano toccare, quasi fossero le sacre ostie del tabernacolo… lontane dall’uomo e riservate a un’elite. Con l’interattività l’arte entra in contatto con il pubblico e, in qualche modo, diventa più democratica. L’interattività dell’ACeP possedeva una dimensione sociale e politica, oltre che etica ed estetica. L’interattività di oggi, invece, è prevalentemente funzionale.

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Oggi, neppure per me, l’interattività è un valore primario, ma semplicemente una possibilità di ovvio impiego che sarebbe stupido spacciare come un valore, dal momento che da decenni qualsiasi computer possiede un mouse e uno schermo interattivi e che qualsiasi elettrodomestico è dotato di un’interfaccia.

Gli oggetti recenti che hai citato LedBox, (http://www.antoniobarrese.it/ITA/LEDbox.php), RGBBox, (http://www.antoniobarrese.it/ITA/RGBbox.php), FluoBox (http://www.antoniobarrese.it/ITA/Fluobox.php) e TracingTotem (http://www.youtube.com/wacch?v=rJ0_aggiBEw), sono nati per essere riedizioni di oggetti degli anni Sessanta, realizzati pochi anni fa con tecnologie all’epoca inesistenti (driver elettronici di programmazione, inverter e LED). Le differenze tecnologiche, però, sono talmente grandi che quei rifacimenti sono diventati opere nuove e inedite, che ai tempi del MID neppure si sarebbero potute immaginare.

Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso:Quali difficoltà incontrano le tue opere e quelle del gruppo MID nelle esposizioni contemporanee? Quali problemi di esposizione?

Antonio Barrese: Mi sono dedicato a quei rifacimenti perché, riprendendo il lavoro artistico e tornando a frequentare le mostre, mi sono reso conto che spesso sono esposti rottami, oggetti guasti dei quali si è persa persino la memoria di come funzionassero. Mostre composte da scatole nere senza vita dove i Dischi Stroboscopici sono esposti senza l’apparato luminoso che li dovrebbe animare, lasciati fermi e resi simili a brutte copie dei quadri optical di Bridget Riley. Purtroppo neppure quando l’ACeP era in auge si è stati capaci di raccogliere i favori dei luoghi espositivi: difficilmente i musei accettavano di oscurare le sale e consideravano insicuro far funzionare gli oggetti con la corrente elettrica. Persino l’attivazione delle opere in assenza dell’autore era sconsigliata, il loro suono considerato fastidioso e turbativo della sacralità museale.

Specialmente i lavori del MID hanno avuto difficoltà: molto grandi, con movimento veloce e vibrante, di evidente aspetto meccanico. Le Immagini Sintetiche – innocue fotografie che costituiscono parte non piccola della produzione del MID – sono state presentate non più di cinque o sei volte nell’arco di un decennio per la difficoltà di esporre le diapositive originali, l’altissimo costo della riproduzione a stampa fotografica, il rifiuto da parte delle gallerie di proporre un’esposizione di sole proiezioni. Per questo, quando nei primi anni del Duemila, dopo averle tutte restaurate ed alcune ricostruite digitalmente, e dopo averle stampate in grande formato, la sorpresa è stata enorme persino per me. Le Immagini Sintetiche sono davvero straordinarie!

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso:Con il gruppo MID hai compiuto un percorso di analisi del rapporto tra spet­tatore e spazio (con gli Ambienti Cromatici (http://www.youtube.com/wacch?v=WaKB05BUBpI) e gli Ambienti Stroboscopiciper citarne alcuni) e certo non hai smesso di col­tivare questo interesse in anni più recenti con lavori come SolidLight o ZeusPlaying o ancora DancingShadow

Antonio Barrese: Quando nasce il MID, nel 1964, il dibattito sugli Ambienti è nel suo momento più intenso. Il significato e l’attrattiva degli Ambienti al tempo era evidente: indubbiamente è molto intensa l’esperienza che si fa entrando in uno spazio animato e avvolgente, dove accadi­menti, fenomeni ed effetti si manifestano in una completa immersività. La nostra risposta è stata però indiretta, data dalle Strutture Stroboscopiche, (http://www.antoniobarrese.it/ITA/Struttura3e4.php)(i grandi oggetti non interattivi, ma automatici, che mettevano in rotazione cilindri, che consideravo opere a dimensione ambienta­le, capaci di pervadere, coinvolgere e condizionare lo spazio nel quale erano inseri­te.

Volevo raggiungere il risultato degli Ambienti non allestendo un locale, ma per la forza espansiva e di condizionamento percettivo dell’opera, indipendentemente dallo spazio in cui era ospitata. Per questo considero essere Ambienti anche le Opere Schermiche(http://www.antoniobarrese.it/ITA/RettangoliArmonici.php) e le proiezioni delle Immagini Sintetiche, (http://www.antoniobarrese.it/ITA/ImmaginiSintetiche0.php) che richiedevano in ogni caso un trattamen­to del luogo in cui erano presentate e riuscivano ad attivarlo in modo sinestetico.

Con l’Ambiente Stroboscopico Programmato e Sonorizzato del 1966 (prodotto da Ideal Standard) (http://www.antoniobarrese.it/ITA/AmbStroboscopicoInterattivo.php) e la sua replica l’anno successivo a Foligno alla mostra Lo spazio dell’immagine, ho sperimentato la sinestesia visivo-acustica. L’Ambiente Stroboscopico Programmato e Sonorizzato nasce anche per l’amicizia con Pietro Grossi, pioniere della musica elettronica italiana e fondatore dello studio di Fonologia Musicale di Firenze. Il locale era completamente oscurato e vuoto.

Tre batterie stroboscopiche (cia­scuna formata da tre fari nei colori primari) illuminavano l’ambiente di luce pulsante a circa 60 Hertz/secondo, mutando in modo programmato la frequenza e la cro­matica luminosa, in modo che si evidenziassero i movimenti dei visitatori e dessero vita a una fantasmagoria di scie e di moltiplicazioni di immagini. Tre corde bianche pendevano dal soffitto e alla loro minima oscillazione l’effetto stroboscopico diven­tava visibile e invogliava i visitatori a diventare protagonisti del magico accadimen­to.

I miei ambienti attuali come SolidLight, ZeusPlaying e DancingShadow sono con­cepiti nello stesso solco di pensiero e con le stesse intenzioni. Naturalmente di­spongono di un supporto tecnico superiore a quello dell’Ambiente Stroboscopico. Per esempio SolidLight (http://www.antoniobarrese.it/ITA/SolidLight.php) impiega il Lytec, una fibra elettro-luminescente finora usata per ba­nali luminarie, segna-percorsi ecc.

Il Lytec, invece, permette cose straordinarie. ZeusPlayinghttp://www.youtube.com/wacch?v=W6NAEF4RTfE condivide le stesse intenzioni. Si tratta di un’installazione le sue dimensioni sono 250x180x150 cm. È dotata di 500 barre di acciaio armonico lunghe 120 cm e diametro di 3 mm. Le barre sono elet­trificate con corrente da 12 Volt e, entrando in contato tra loro, producono sciami di scintille del tutto inoffensive ma di straordinario effetto.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Come misuri il tuo lavoro nei confronti di un’arte, come quella digitale, che alterna momenti di grande fertilità creativa, di enorme ricerca tecnologica ad altri di prematura stanchezza, di mero esercizio stilistico nonché di para­dossale confronto e riscoperta delle tecnologie analogiche e del lavoro del­le avanguardie?

Antonio Barrese:Agli inizi degli anni Settanta collaboravo con il Centro di Calcolo di Ispra per produrre disegni seriali. In seguito, alla fine de­gli anni Ottanta, mi sono dotato dei MAC, computer da cui non mi sono più sepa­rato. Ho sempre usato il computer come un super-strumento quindi, badando a non ri­manere vittima del fascino dei software (maledetti perché mai definitivi e in perpe­tuo aggiornamento). Questo è stato il motivo per cui non mi sono dedicato all’Arte Digitale, troppo legata alle capacità dei programmi, troppo bisognosa di transitori artifici programmatorï, troppo fragile nei suoi elaborati.

L’arte non è – e non può ridursi a diventare – un incessante inseguire aggiornamen­ti… ha invece bisogno (deve generare) una durata. Non che l’arte sia eterna come ci hanno ingenuamente insegnato all’asilo, ma qualche decennio deve rimanere, deve avere il tempo di sedimentare ed essere capita e assorbita. L’arte, relativamente ai mezzi che usa, ha bisogno di solidi punti d’appoggio o al-meno di qualche certezza perché già di suo sperimenta, rischia e osa, mentre l’universo della digitalità è scivoloso, indefinito e inafferrabile. Anche quando lavoro con fenomeni immateriali come le luci e le ombre, i lampi e le scintille, ho bisogno di qualcosa di toccabile, di solido con cui confrontarmi, di concreto che entri dentro di noi mentre noi entriamo den­tro di lui. Desidero che, almeno l’interfaccia, sia solida e tangibile.

Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Mi sembra che, in particolare nella tua ultima produzione, ma anche in lavori meno recenti, ci sia un’oscillazione tra materialità del fenomeno percettivo, attivato attraverso l’opera, e immaterialità. Penso ad esempio a due progetti di ambienti, ChromoRoom (2000) e Dancin­gShadow (2000). Nel primo lo spazio è totalmente costruito da una proiezione optical in mo­vimento che genera una distorsione dei parametri architettonici abituali, nel secondo l’effetto di di­storsione percettiva è dato da una luce in movimento su pattern architetto­nici in rilievo sulla parete, per cui lo sfasamento percettivo deriva da qual­cosa che ha una sua realtà materiale. Mi potresti parlare di come lavori su questo dualismo tra materiale-immateriale?

Antonio Barrese: Per essere sincero non so cosa risponderti. Parti dal presupposto della materialità del fenomeno percettivo… Pur essendomi doverosamente dedicato agli studi della Psicologia della Gestalt non l’ho mai riconosciuta centrale nel mio lavoro, ma semplicemente considerata una collezione di fenomeni percettivi più o meno divertenti, ma comunque poco ef­ficaci per assegnare loro una funzione estetica. Tra l’altro le strutture e le modalità percettive teorizzate dalla Gestalt non possiedono neppure quell’universalità che si sperava, nel senso che – come tutto del resto – anche la percezione è condiziona­ta dalla cultura e non viceversa.

Ho sempre pensato che la Gestalt rappresentasse parte della dimensione grammaticale della comunicazione artistica, quella che definisce le caratteristiche e le modalità di impiego dei segni di base, dell’alfabeto visivo. Vi è poi una dimensione sintattica, assolta dalla Fenomenologia e dalla Linguistica col sussidio della tecnica e di numerose discipline (matematica, geometria, topologia ecc). Tutto questo, però, ancora non basta perché l’arte non si fa con le parole e con le regole sintattiche, ma con la Retorica, con la capacità di raggiungere i livelli più alti, complessi e sorprendenti di espressività.

Riguardo il dualismo materiale-immateriale, credo sia sempre presente in quello che si è e in quello che si fa, e che le due cose non siano separabili. Esiste sempre qualche congegno, qualche strumento, qualche supporto, che vei­cola una forma, un racconto, dei suoni, delle comunicazioni: cioè una cosa materiale che ha un esito immateriale (percettivo, comportamentale, intellettuale, emozio­nale, esperienziale).

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso:La ricerca nell’ambito della stroboscopia è un file rouge di tutto il tuo lavoro. Potresti ricostruire com’è nato questo interesse, da quali conoscenze e co­me si è sviluppato negli anni lo studio di questo fenomeno percettivo?

Antonio Barrese: La ricerca sugli effetti stroboscopici è stata la prima a cui mi sono dedicato e, hai ragione tu, si è intrecciata con tutte le altre che si sono declinate in oggetti di ogni dimensione e tipologia: negli Ambienti, nelle Immagini Sintetiche (sia le Figure Stroboscopichehttp://www.antoniobarrese.it/ITA/ImmaginiSintetiche2.php >che le Immagini Stroboscopiche http://www.antoniobarrese.it/ITA/ImmaginiSintetiche3.php), nei Film Sperimentali (http://www.antoniobarrese.it/ITA/DiscoStroboscopico.php) e persino per produrre pattern figurali utiliz­zati per ricerche sui gradienti di complessità/gradimento.

La sua centralità nel mio lavoro si deve al fatto che questa luce permette di vedere il movimento, di fissarlo, di analizzarlo e di rappresentarlo. L’effetto stroboscopico è alla base del cinema, della forma d’arte che ha segnato il passaggio epocale dall’espressività artigianale a quella industriale dipendente dalla tecnologia. Anche in questo caso – forse è un’ossessione – il mio interesse è rivol­to alla creazione di situazioni visive sintetiche, che nascono non riproducendo la re­altà, ma dalla capacità generativa della tecnica e degli strumenti.

Sin dai tempi del MID, concordavo con tutte le tesi (estetiche e politiche) del Movimento di Nova Ten­dencija, ma cercavo forme più spettacolari e sorprendenti, inseguivo la possibilità di suscitare stupore e sorpresa e volevo dare gioia, giocosità, piacere. L’effetto stroboscopico permette tutte queste cose. Non è facile da ottenere – allora era anzi difficilissimo – specialmente per le alte frequenze, quelle superiori a 25/30 Hertz al secondo. La frequenza deve essere molto più alta, oltre la soglia percettiva di 24 lampi al secondo e la luce deve apparire continua, solo così si percepisce il moltiplicarsi dell’immagine, i colori si separano e si rifondono e si producono dinamismi di inimmaginabile fascinazione. Insomma, per accedere all’esperienza estetica si deve rendere invisibile il fenomeno nella sua brutalità fisica.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Nei tuoi lavori mi sembra che lo spettatore si confronti, a seconda dell’opera, con due estremi di scala spaziale, quella ridotta dell’oggetto interattivo, che stabilisce un rapporto molto intimo con il fruitore, oppure la scala am­bientale, nella quale questo rapporto coinvolge in maniera complessiva il corpo dello spettatore, la relazione con lo spazio nel quale si muove. Negli ambienti lo spazio è spazio assoluto dell’opera e lo spettatore ne entra a far parte. Cosa mi puoi dire in proposito?

Antonio Barrese: Hai ragione. Anch’io ho usato la parola intimo per definire il rapporto che si crea con alcuni miei oggetti, che non è sufficiente guardare nel manifestarsi della loro va­riabilità visiva, come, per esempio avviene con quelli del Gruppo T. I miei oggetti devono essere toccati, manovrati, e per farlo occorre andar loro mol­to vicino, superando l’area di rispetto prossemica e creando appunto un rapporto intimo.Alcuni di questi addirittura, come i Generatori Stroboscopici (http://www.antoniobarrese.it/ITA/GSLED.php) o come StroBox (http://www.youtube.com/wacch?v=VXLvgWGlkak) per le loro dimensioni possono essere tenuti sulle ginocchia, stando seduti, e acca­rezzati come si farebbe con il gattino di casa. Passare da una dimensione spaziale all’altra non è necessariamente un’evoluzione, anche se è evidente che dedicarsi a cose grandi richieda impegno ed esperienza.

Forse l’idea di un’opera come Albero di luce (http://www.youtube.com/wacch?v=8jOXJu977nc) nasce dalla lettura del libro L’immagine della città di Kevin Lynch, un urbanista americano che nel 1960 ha analizzato i segni del territorio speigandone i significati e le relazioni, il senso spaziale, percettivo, i modi di organizzazione e strutturazione ambientale; ma sicuramente è stata condizionata dall’interesse che ho avuto per la Land Art e dall’ammirazione per Christo e Jeanne-Claude che mi hanno sempre entusiasmato con le loro installazioni ambientali. In anni recenti sono stato letteralmente folgorato dalle opere a scala urbana di A-nish Kapoor che sento molto vicino in quanto è capace di sovvertire l’ambiente col carisma di un’opera.

Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Albero di Luce è un lavoro differente da altre tue precedenti opere o am­bienti. Si pone con una certa monumentalità all’interno del tessuto urbano. Per monumento intendo qualcosa che si pone nel contesto a rappresentare se stesso, in maniera anche un po’ spettacolare, e mostra un proprio discor­so autonomo rispetto all’ambiente che lo circonda. Al di là delle caratteristiche proprie dell’opera, che tipo di studio hai intra­preso rispetto al contesto nel quale l’opera era collocata? In che modo interagiva con il contesto della città, in che modo ha modifica­to la percezione di quell’angolo di Milano?

Antonio Barrese: Anche questa volta hai ragione, volevo che l’Albero di luce avesse una dimensione – e un ruolo – monumentale che, come dici tu, si ponesse nel contesto e rappre­sentasse se stesso. Hai ragione anche quando sostieni che rimaneva autonomo dall’ambiente. Ti ricor­do prima di tutto che l’Albero di luce è nato per essere itinerante, e quindi autono­mo dagli spazi che lo ospitano. Lo scopo dell’Albero di luce per quanto sciaguratamente collocato in un contesto natalizio così da renderlo un grottesco e tecnologico alberone di Natale, era quindi innanzitutto di affermare la centralità dell’Esperienza estetica che esiste prima di qualsiasi significato, di qualsiasi confronto e funzione. Per que­sto e solo per questo, ho voluto che fosse così grande, visibile, impossibile da tra­scurare, denso di carisma e persino un po’ fonte di paura.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Sicuramente non ti sfuggirà la portata pionieristica dei tuoi lavori e di quelli di tutto il movimento Cinetico e Programmato, delle esperienze della Nova Tendencija in senso molto più ampio, la loro riscoperta e celebrazione so­prattutto negli anni dell’avvento delle tecnologie interattive e di sinte-si/gestione audiovisiva. Ci sono chiari riferimenti del vostro percorso di ri­cerca in artisti digitali di primissimo livello, dai Granular Synthesis a Rjoiji I­keda, da Carsten Nicolai a Otolab. Quale è il tuo pensiero a riguardo?

Antonio Barrese: Certo non mi sfugge la portata pionieristica del mio lavoro! Non vorrei sembrarti arrogante, ma ne sono sempre stato consapevole. Per capire la difficile, e per lungo tempo ignota, continuità tra le opere del MID e l’arte di oggi bisogna partire da lontano, esattamente dai motivi per cui l’ACeP è finita inopinatamente: oggettiva difficoltà a essere esposta ; rifiuto del mercato da parte della quasi totalità degli artisti ; fragilità delle opere per il loro carattere sperimentale ; scarsa produzione, che non garantiva la continuità commerciale auspicata dai galleristi ; eccessivo successo e conseguente banalizzazione

;impossibilità di reggere il confronto con la Pop Art, l’Arte Povera e la Minimal Art, assai più facili da commentare da parte dei critici ; battaglia persa col velleitarismo sessantottino ; passaggio di alcuni dei protagonisti verso il design (oltre a noi del MID, Munari, Mari e altri), verso la didattica (Anceschi, Massironi, Boriani), tra le braccia della ri­voluzione (Chiggio, Castellani) ; esaurimento delle ricerche e conseguente ripetitività.

Circostanze che sono state addebitate come una colpa, al punto che l’ACeP fu letteralmente cancellata dai libri di storia dell’arte – a volte in modo addirittura grottesco – da un’edizione all’altra rimossa e sostituita con gli epigoni o semplicemente lasciando un vuoto, come se il periodo non fosse esistito. Mi è capitato di vedere un grosso ed impegnativo volume dove in una pagina c’era Fontana e Manzoni e in quella successiva Ontani, quasi che in mezzo non fosse successo nulla. Insomma, un vero e proprio caso di rimozione culturale.

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Per aiutare a capire il clima di confusione morale e intellettuale che ha segnato la fine dell’ACeP, il Sessantotto, l’arrembaggio alla pseudo-rivoluzione e il contemporaneo ingresso nel professionalismo e in quella che sarebbe diventata la Milano-dabere, voglio si sappia che i miei ex compagni del MID – dopo che li ho abbandonati al loro destino – non hanno trovato di meglio da fare che buttare in discarica tutte gli oggetti e le grandi strutture che erano rimaste in studio (trovandole ingombranti, non avendone mai capito il senso).

Ti racconto qualche altra esperienza personale, che considero più illuminante di qualsiasi spiegazione teorica. Lea Vergine, che agli inizi degli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo esibiva la sua beltà tra una mostra e l’altra – che conobbi nel 1965 a Zagabria, in occasione della mostra di Nova Tendencija 3 – fu la prima curatrice ad occuparsi intensamente del mio lavoro, a scrivere saggi e a curare le prime personali del Gruppo MID.

La Vergine, nel 1983, curò una mostra a Palazzo Reale di Milano dal titolo Arte Programmata 1953-1963 escludendo completamente il MID, ma anche la maggior parte del lavoro degli altri artisti che, tutti, avevano continuato a lavorare almeno fino ai primi anni ’70. Lea si arrogò il diritto di circoscrivere l’epoca al decennio in cui fu operativo il marito Enzo Mari. In tempi più recenti, nel 2007, quando ho presentato in Triennale MID. Alle origini della multimedialità. Dall’arte programmata all’arte interattiva, spedii l’invito e una copia del volume anche a Lea Vergine. La risposta arrivò un anno dopo.

Una lettera scritta a mano sul retro della carta intestata di un albergo di Capri, il cui contenuto era (cito a memoria): “Caro Barrese, mi spiace di non aver potuto presenziare. Non ho più alcun interesse per l’arte programmata. Anzi mi vergogno di essermene interessata negli anni Sessanta, agli inizi della mia carriera, ma a mia discolpa bisogna considerare che ero una ragazza di provincia e, giunta a Milano, mi sono trovata immersa in un’atmosfera che mi parve molto interessante e divertente. Adesso penso che l’Arte Cinetica e Programmata abbia prodotto solo attrazioni vetrinistiche. Per fortuna dopo ho avuto modo di occuparti di forme d’arte più serie. Auguro a Lei e a Laura di avere successo ecc…”.

Insomma, è stato a causa di fatti simili, oltre che per i più seri motivi che ho prima elencato, che si è permesso il disinteresse successivo, fino a farlo diventare un vero e proprio ostracismo, un rimosso e un vuoto che ha reso incomprensibile e orfana molta dell’arte attuale. Per fortuna la continuità tra l’ACeP e l’Arte Digitale è stata ricordata e storicamente stigmatizzata da Peter Weibel con il complesso delle sue opere e con le tante e belle mostre che ha curato per lo ZKM – Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe.

Fosse stato per i critici e gli storici italiani, tranne poche e rare ecce­zioni tra cui Marco Meneguzzo e Volker Faierabend, tutto si sarebbe perso nel ma­linconico e velleitario provincialismo italico. Grazie a loro, artisti come Granular Synthesis, Rjoiji Ikeda, Carsten Nicolai e Otolab hanno potuto godere dell’eredità dell’ACeP e, lo dico con orgoglio, anche del mio lavoro.

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Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Nella tua biografia è segnalato un periodo di collaborazione, tra il 1970-73, con la RAI per la realizzazione di programmi sperimentali. Visto che quel periodo breve ma sicuramente interessante della Radiotele­visione Italiana è molto poco conosciuto, in pochi hanno avuto occasione di visionare materiali e poco o nulla si sa attualmente del destino di quelle o­pere, potresti raccontarcelo attraverso la tua esperienza?

Antonio Barrese: Da alcuni anni avevo sviluppato un forte interesse per la cinematografia, non solo quella sperimentale elaborata nel MID, ma per il cinema vero, da sala cinematogra­fica. Con un gruppo di cinefili milanesi (Rezoagli, Marchesini, Rapetti, Buttafava. Quadri, Freri, Cavigioglio e altri) avevo dato vita al Cineforum Momenti del cinema di ricerca, (ospitato al cinema De Amicis, allora di proprietà di Alfonso Grassi) che ebbe un clamoroso successo anche perché il primo indipendente e aperto, a diffe­renza dell’allora stitica Cineteca. La passione era tanta e volevo dedicarmi alla regia.

Cominciai collaborando al pro­gramma Tuttilibri, prodotto dal Centro di Produzione TV di Milano e provai in seguito il grande passo con la Direzione dei Programmi Sperimentali di Roma da cui sono passati quasi tutti i registi della mia generazione: se non ricordo male Bertolucci, Faenza, Bellocchio, Del Monte, Agosti, Amelio… Mi stancai presto però del clima romano, della gestione del tempo dei funzionari Rai e della ritualità dei salotti. Tornai a Milano e mi dedicai al design

Claudia D’Alonzo e Marco Mancuso: Milano degli anni 60: i gruppi di Arte Cinetica e Programmata, Berio, Munari. Ci racconti come hai vissuto quel momento di storia culturale e artistica del­la città? E rispetto a questo, come vedi la situazione attuale? Milano è ancora uno dei simboli del design internazionale, ma quali sono secondo te le differenze rispetto a quel periodo?

Antonio Barrese: Bella domanda! Ai gruppi dell’ACeP, a Berio e a Munari aggiungerei Bruno Maderna e il suo Laboratorio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, Gianfranco Bettetini, il Laboratorio di Cinematografia ultraveloce del Politecnico di Milano. Aggiungerei alcuni di coloro che mi hanno preceduto; Ponti, Fontana, Manzoni, i fratelli Castiglioni, Enzo Mari, Bruno Munari, Ludovico Magistretti, AG Fronzoni, Marco Zanuso, Mario Bellini, Pio Manzù, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini e altri. Avevo legami di amicizia con molti di questi Maestri e, grazie a loro e all’ambiente culturale, mi sono dedicato al design strategico e di comunicazione.

I galleristi (Cardazzo, Le Noci, i fratelli Somaré, Beatrice Monti, Vismara, Palazzoli e numerosissimi altri). I critici, gli scrittori, i giornalisti, gli stilisti di moda… Non trascurerei neppure il complesso della cultura industriale (Olivetti, Pirelli) e assieme a loro tutti gli intellettuali che gravitavano in quell’orbita (Volponi, Sinisgalli e molti altri). E poi le riviste (Domus, Casabella, Ottagono, Forme, Alfabeta). Non si dovrebbe di­menticare l’ambiente universitario (tra gli altri Marcello Cesa Bianchi, Ludovico Geymonat). Figure come Umberto Eco, Cesare Musatti, Silvio Ceccato… Per finire nominerei anche la miriade di artigiani che hanno reso possibile il design, l’ACeP, la Moda. Milano attraversò un magico, unico ed irripetibile momento di fulgore.

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Di tutto quello non resta nulla. Milano si è estinta con la fine delle fabbriche negli anni Settanta, per i ladrocini degli affaristi socialisti negli anni Ottanta, per non aver capito il cambio di paradigma nei primi anni Novanta (la delocalizzazione, l’avvento dell’era digitale, il crollo del muro di Berlino, la necessità di trovare un nuovo equilibrio con il Terzo Mondo e i Paesi arabi), per l’università di massa che ha ucciso le profes­sioni, per aver trasformato le arti in mestieri, per la vuota pletoricità degli studenti, per non aver configurato la propria identità, per il crollo delle ideologie e l’estinzione della politica.

Milano sta mostrando il suo vero volto di città senz’anima (anzi, di anima ordinaria e gretta), non riesce neppure a nascondere l’indole razzista e la vocazione fascista. Metà di questi motivi sono causati da un deficit della visione artistica avendo, i mi­lanesi, trasformato l’arte in mercimonio da televendita notturna tra un canale porno e TeleMaria, e trasformato gli artisti nelle migliaia di disgraziati che affollano acca­demie e scuole serali.


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