Si è conclusa la seconda edizione della Settimana delle Residenze Digitali, sette giornate dedicate alla ricerca espressiva a cavallo tra arte performativa e ambiente digitale, restituzione online dei lavori selezionati e sostenuti dal progetto Residenze Digitali a cadenza annuale, iniziato nel 2020 con l’intento di stimolare gli artisti delle performing arts all’esplorazione dello spazio virtuale e di rete, come ulteriore o diversa declinazione della loro ricerca autoriale.

Residenze Digitali è un progetto promosso dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, la Cooperativa Anghiari Dance Hub, ATCL – Circuito Multidisciplinare del Lazio per Spazio Rossellini, il Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, La Corte Ospitale di Rubiera), la Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova e ZONA K di Milano. 9 realtà, per una partnership allargata rispetto allo scorso anno, e tre tutor di progetto – le studiose Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti – per dare maggiore respiro e un crescente supporto alle progettualità artistiche.

All’interno di uno scenario produttivo ed espositivo a livello nazionale sempre più interessato a forme di rappresentazione corporea performativa delocalizzata, dematerializzata e distribuita (tantissime istituzioni negli ultimi anni hanno investito su questi linguaggi, dall’Impakt di Utrecht al Taipei Performing Art Center, dalle biennale BIAN di Montreal al Lighthouse di Brighton, che sono impossibili da riportare qui nella loro completezza) che solo i più superficiali possono pensare fioriti in seguito alle costrizioni dettate dal periodo pandemico e dal conseguente lockdown – su tutti è sufficiente ricordare le operazioni del Romaeuropa Festival e della sezione Digitalive curata da Federica Patti, le sperimentazioni del festival Centrale Fies e del capitolo INBTWN curato da Claudia D’Alonzo, le attività di supporto alla produzione del progetto Fase XL gestite dal Centro Umbro Residenze Artistiche C.U.R.A. a cura di Linda di Pietro, ma ancora le esperienze a cavallo tra gaming e performance del Arte-19-Virus Virtual Reality Games e quelle su Twitch del Fotonica Festival – e consapevolmente inseriti in un percorso di ricerca e sperimentazione che affonda le sue radici in una pletora di esperienze che sono proliferate nel corso di questo ultimo ventennio nel rapporto tra arte, rete e tecnologia – dal Satellite Arts Project di Kit Galloway e Sherrie Rabinowitz alle performance Ubu Roi e Waiting for Godot nella metropolitana di New York dei Surveillance Camera Players, dalle prime sperimentazioni dei Blast Theory, come nell’incredibile performance Kidnap alla generale attitudine performativa di molti lavori del duo Ubermorgen, ben rappresentata ad esempio dal progetto TortureClassics, fino ad esperienze più recenti come quell del collettivo GobSquad e del loro Super Night Shot, di Choy Ka Fai e del suo Prospectus For a Future Body, di Eva e Franco Mattes e dei loro progetti seminali Synthetic Performances, No Fun, Emily’s Video, Befnoed, nonchè ovviamente delle performance online di Petra Cortright e Molly Soda – Residenze Digitali ha così lanciato un bando la scorsa primavera cui hanno risposto ben 178 compagnie.

7 sono i progetti artistici quindi selezionati, che sono stati presentati la scorsa settimana e a cui il pubblico ha potuto accedere online, vivendo la sperimentazione di nuove forme espressive performative e di decodificati linguaggi del corpo legati a doppia mandata ai linguaggi e alle potenzialità del web contemporaneo: Whatever Happens in a Screen Stays in a Screen di Chiara TavianiThe Critters Room di Jan Voxel, gruppo composto da Lorenzo BelardinelliCinzia PietribiasiLidia ZanelliWOE – Wastage of Events di Giacomo Lilliù/Collettivo ØNAR e Lapis NigerDealing with Absence di Margherita Landi Agnese LanzaSàl│Rite – Studio 0.2 della compagnia fuse*; Into the Woods – La finta nonna di Lorenzo MontaniniSimona Di Maio, Isabel AlbertiniI Am Dancing in a Room_La Fauna 2k21 di Mara Oscar Cassiani. La redazione di Digicult ha seguito il festival online, condividendo con Residenze Digitali il forte interesse per l’impatto che la scienza e le nuove tecnologie hanno sull’arte contemporanea.

Into the Woods – la finta nonna
Un’esperienza immersiva nelle fiabe della tradizione

10’ a episodio
progetto di Lorenzo Montanini, Simona Di Maio, Isabel Albertini

Una fiaba narrata in sette mini episodi, un dispositivo narrativo multidisciplinare che mette in scena una delle fiabe italiane raccolte da Italo Calvino. Into the woods – la finta nonna è un progetto di Lorenzo Montanini, Isabel Albertini e Simona di Maio, tutti appartenenti al mondo del teatro e della performance. I tre avevano già collaborato su un precedente progetto e, pur conoscendosi appena, decidono di lavorare sull’idea di raccontare una fiaba per bambini. Li influenza fortemente il momento storico della pandemia, con l’impossibilità pratica di fare teatro in modo tradizionale: si trovano a sperimentare altri linguaggi, come il teatro d’oggetti. L’idea è dunque di raccontare in modo originale una storia, unendo le tecniche e i linguaggi specifici di ognuno.

Lorenzo Montanini dirige le riprese con la camera 360 gradi; regista teatrale e attore, dopo una prestigiosa formazione internazionale vive a Londra e collabora con diverse università italiane e festival internazionali. La sua ricerca si divide fra la pratica teatrale e sperimentazioni visuali, tra performance e videoarte. Isabel Albertini si occupa delle scenografie e dei pupazzi, i veri protagonisti dell’azione; parte di Magma Kitchen, duo artigianale a metà tra digitale e analogico, lavora materiali diversi, anche di scarto, cercando di capirne le diverse potenzialità, in un’ottica di riuso creativo e generativo sperimentale. Simona Di Maio anima e dà voce ai protagonisti della storia; regista, attrice e insegnante, è fra le fondatrici della compagnia del Teatro nel Baule, che sviluppa la propria ricerca nel campo del teatro fisico. Codirettrice artistica del Teatro Bellini Kids di Napoli, è lei a muovere la protagonista dell’azione, la piccola Anna, e a darle la voce.

La storia narrata dal trio è infatti la fiaba La finta nonna, di cui è protagonista Anna, bambina coraggiosa e intraprendente. Il racconto è una delle molte versioni tradizionali di Cappuccetto Rosso, ma viene scelta dal trio per una serie di differenze rispetto alla trama della versione più conosciuta. In questa fiaba, Anna va dalla nonna a recuperare un setaccio per la farina attraversando un’oscura foresta, e qui incontra un’orca travestitasi da nonna. Al contrario dell’analogo più conosciuto, Anna non aspetta un cacciatore o un principe che la venga a salvare, ma attraverso la propria intelligenza e la collaborazione con due luoghi-oggetti magici (il fiume Giordano e la porta Rastrello), riesce a tornare a casa sana e salva. Un messaggio decisamente empowering e molto contemporaneo, che il trio artistico sceglie di evidenziare.

La trama si sviluppa in sette brevi episodi, che non spezzano il ritmo narrativo ma creano un piacevole senso di attesa. La storia è ambientata in un “micromondo” creato ad hoc, che prende forma su un lungo tavolo. I personaggi sono pupazzi mossi con le mani, con stecche sottili o fili, mentre il paesaggio è costruito con materiali differenti come cartoni, lane di diverse consistenze, rocchetti di filo, cartoni delle uova. Molti di questi materiali sono di recupero, spesso presi dagli imballaggi delle scatole delle consegne, servizio molto usato durante il lockdown.

Il fitto bosco è reso con una grande quantità di lana grezza che, attraverso l’illuminazione della sala di ambientazione, assume tonalità violacee inquietanti e di grande impatto. L’effetto è quello di una stimolazione tattile, di una grande casa di bambole in cui lo spettatore viene immerso direttamente, e diventa anch’egli personaggio della storia. La particolarità di questa performance è infatti la modalità di ripresa: attraverso una telecamera a 360 gradi e l’utilizzo del suono 3d Bineural, il racconto non viene solo registrato, ma reso un’esperienza immersiva, creando un mondo altro esplorabile in ogni direzione.

La fruizione attraverso caschetto per la realtà virtuale o cardboard permette di vivere in pieno l’esperienza, guidati dalla sonorizzazione attenta che porta lo spettatore a voltarsi quando si avvicinano i misteriosi animali del bosco o l’orca spaventosa. Un mondo che però non nega la sua finzione: alzando lo sguardo è possibile osservare i tre artisti manovrare i personaggi, farli parlare, sonorizzare l’ambiente, spostare la telecamera. Il punto di vista, che è quello della telecamera posta in mezzo alla scena, porta lo spettatore non solo a partecipare quasi all’azione, ma anche a percepirsi rimpicciolito sotto lo sguardo e le mani degli artisti.

Un’impressione per nulla inquietante, ma estremamente armonica con il contenuto narrato e il medium utilizzato.  Prima di adottare questa soluzione gli artisti hanno vagliato diverse opzioni, dalla stop motion alla ripresa a camera fissa, optando poi per la soluzione più teatrale, ma anche più sperimentale e curiosa. E infatti, per un bambino deve essere un’esperienza esaltante vivere in questo modo una fiaba, attraversandola sotto gli occhi attenti dei suoi creatori, come lo è per gli adulti, che possono coglierne i diversi dettagli ed espedienti creativi.

Un modo nuovo di far vivere fiabe antiche, una sperimentazione colorata e divertente che incrocia il mondo della realtà virtuale con quello dell’intrattenimento per bambini, creando un nuovo dispositivo narrativo con cui raccontare tante altre storie.

Cecilia Budoni

Whatever Happens in a Screen Stays in a Screen
La percezione del movimento in un’immagine fissa

5-7’ a episodio
progetto di Chiara Taviani

con Ambra Chiarello, Lorenzo De Simone, Marco Quaglia, Giselda Ranieri, Simone Previdi, Natalia Vallebona e Simone Zambelli

Chiara Taviani si forma in danza classica all’Accademia Princesse Grace di Monaco. Matura presto in lei un orientamento più contemporaneo e teatrale: all’Accademia Coline di Istres-Marsiglia incontra molti coreografi contemporanei con cui inizia a collaborare, in Italia dal 2010 è interprete del Balletto Civile di Michela Lucenti e nel 2011 fonda assieme a Carlo Massari la C&C Company, con la quale ottiene numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero.

Le sue esperienze l’hanno portata verso due orizzonti. Da un lato, il teatro le ha permesso di ampliare la visione della performance, cogliendone la poetica drammaturgica. Dall’altro, tutte queste esperienze collettive l’hanno spinta a ricercare una sua identità: dal 2016 diventa artista indipendente e collabora con Marion Alzieu, Henrique Furtado Vieira e coreografa la prima opera della compositrice Alexandra Grimal.

Chiara Taviani approda a Residenze Digitali stimolata dall’interesse che ha per il cinema e in particolare per la realizzazione di un lavoro digitale creato per uno schermo. Partecipa con Whatever happens in a screen stays in a screen, un medio metraggio suddiviso in brevi episodi che vanno dai cinque ai sette minuti, realizzati grazie all’uso del Blue Screen. Il progetto indaga le diverse percezioni dell’essere umano di fronte a un’immagine fissa, al cui interno è inserita una figura in movimento. Una ricerca che mira anche cancellare quel confine che divide performance e cinema.

È un lavoro di regia che approfondisce lo studio digitale sull’immaginazione che Chiara Taviani ha sperimentato, insieme a Henrique Furtado Vieira, anche in That time may cease and midnight never come, realizzato durante il lockdown del 2020. Più che mai, tale circostanza ha permesso di sviluppare l’idea di quel luogo carico di significati che chiamiamo “casa”. Tramite piattaforme digitali come Skype o Zoom – che hanno consentito di mantenere quel filo di socialità e produzione nella staticità della vita quotidiana del momento – i due performer e coreografi hanno creato sceneggiature dall’aspetto poetico di fronte all’apparente banalità dell’ambiente domestico.

I sette episodi di Whatever happens in a screen stays in a screen hanno tutti protagonisti diversi e sono gli unici elementi in movimento del mini film. Le scene si susseguono lentamente, sfondi naturali si alternano con ambienti chiusi. Le scenografie digitali hanno uno sguardo vintage – come la stessa trasposizione dell’interprete sul background – che amplia l’aspetto artigianale dell’intero lavoro. Gli attori infatti hanno realizzato tutti gli episodi tramite un PC portatile, posizionato davanti al telo Blue Screen: accesa la webcam, si va in scena.

I personaggi sono in situazioni di reale quotidianità, interagiscono con gli elementi statici e con lo spettatore. Fanno parte dell’immagine. C’è chi aspetta la metro, chi osserva un uomo dipingere, chi ha colto di sorpresa un cervo, che ora lo osserva. E l’impressione che si ha guardando, è che da un momento all’altro arrivi il treno, o che il cervo salti via spaventato. Ci chiediamo: quanto può cambiare la percezione di un’immagine? Non esiste una sola interpretazione, le immagini nella nostra mente mutano a prescindere dalla consapevolezza che davanti a noi c’è una fotografia.

È proprio questo che fa il cinema: mostra una realtà, non la realtà. Pone l’attenzione sui dettagli e permette di cogliere prospettive che forse non avremmo preso in considerazione.

Negli episodi si affrontano temi sociali, si apre al dibattito sull’arte contemporanea e al suo inevitabile rapporto con il passato (in fondo, “contemporaneo significa che avviene nel presente. L’arte fatta nel 1543 era contemporanea) e si guarda al futuro. Un futuro molto veloce che spesso ci trova impreparati. Le nuove tecnologie si sviluppano rapidamente, dobbiamo solo scegliere se stare al passo con loro o creare un nuovo punto d’incontro (in questo caso artistico) senza percepire la tecnologia come unica realtà possibile. E nessuna scelta sarà mai sbagliata.

Il lavoro si conclude con Loretta, che un po’ demoralizzata guarda il neonato che ha in braccio e si chiede come sarà il mondo. Potrebbe essere semplice: “immaginiamo e creiamo un posto in cui ci piacerebbe vivere”.

Valentina Foti

Dealing with absence
Il corpo nella pseudocecità virtuale

20’
progetto di Margherita Landi, Agnese Lanza
regia VR Margherita Landi

con Lucrezia Gabrieli, Francesca Santamaria, Cora Gasparotti

Margherita Landi (coreografa, media artist, e antropologa) e Agnese Lanza (danzatrice e coreografa) intrecciano i loro background artistici e culturali nella performance Dealing with absence, un delivery coreografico che sfrutta la distanza (fisica e mediale) per descrivere l’assenza. L’idea di delivery si ritrova sotto varie forme: l’atto performativo è consegnato “a distanza” tra le tre ballerine Lucrezia Gabrieli, Francesca Santamaria e Cora Gasparotti, che si sono individualmente riprese in spazi differenti ed hanno poi inviato al montaggio i loro video; il prodotto finale è stato poi consegnato agli spettatori che hanno potuto assistere in differita, riproducendo la performance sui loro dispositivi in qualsiasi momento.

I condizionamenti che l’esperienza sensoriale subisce nel contatto con i devices sono sin dal 2018 un leitmotiv nella riflessione di Landi e Lanza, che a metà novembre hanno vinto il prestigioso Auggie Award Competition (Santa Clara, California) con l’installazione Peaceful Places, in cui l’utilizzo della realtà virtuale amplifica l’eco emotiva di un gesto semplice ma, in tempi di pandemia, eccezionale, quale l’abbraccio.

In Dealing with absence il visore, indossato dalle danzatrici per tutta la durata dell’atto performativo, impedisce loro la vista del reale sostituendola con la proiezione di scene di film che guidano e ispirano i movimenti coreografici. I gesti, in cui la fotografia cinematografica si sovrappone alla vita organica, intessono così una rete di richiami colti che spaziano dalla filmografia di Andrei Tarkovsky a quella di Ingmar Bergman.

In questo processo, è lo spettatore l’unico ad avere il controllo dello spazio reale in cui quei corpi si muovono incerti e disorientati dalla loro cecità virtuale. L’occhio esterno dello spettatore percepisce un processo di uscita ed entrata tra spazi angusti a spazi aperti, un processo che però rimane ignoto alle protagoniste, che restano chiuse nella vista che il visore offre loro e nell’esperienza in cui i loro corpi traducono quella vista.  A scandire gli atti della performance, come un vero e proprio calendario della percezione, il feed di Instagram che porta il nome del progetto: le didascalie dei post vengono infatti proposte a commento di quanto si vede in video. Attraverso l’uso dei social media, la performance diventa un’operazione costruita collaborativamente con la community che, seguendo il profilo ha ricevuto “spoiler” e aggiornamenti sul progetto quando ancora era in fase di realizzazione: un prodotto finale che sembra raccontare di diverse forme di assenza cela così un apparato di supporto proveniente da tante “presenze” online, i followers.

La complessità di Dealing with Absence si ritrova quindi nelle sue diverse sfaccettature, che portano a domandarsi con quale forma di assenza si sta facendo i conti. La domanda riceve una risposta nell’affermazione finale: quella che è stata mostrata non è l’assenza della vista, perché con il visore “si coprono gli occhi ma continui a vedere”.

Ad ognuno non resta quindi che trovare, e affrontare, la propria assenza.

Chiara Di Giambattista

Sàl / Rite – studio 0.2
La dissoluzione della percezione nella meditazione online

75’
progetto di fuse*
concept Roberto Ferrari
sound design Nicola Berselli

Con il nome Sàl, una parola islandese che vuol dire “anima”, il collettivo fuse* ha presentato a Residenze Digitali la sua nuova live media performance come parte integrante di un percorso di sperimentazione che, attraverso i due capitoli precedenti Ljós (“Luce”, 2014) e Dökk (“Buio”, 2017), esplora il mutamento della percezione nel corso dell’esistenza. Attivo dal 2007, fuse* è uno studio e una compagnia di produzione indipendente che si dedica all’approfondimento dei fenomeni psichici e naturali attraverso l’uso sperimentale delle nuove tecnologie. Se in una fase iniziale questa riflessione è stata veicolata da performance e installazioni multimediali, negli ultimi anni un approccio più olistico ha mosso la sperimentazione verso un annullamento dei confini tra suono, spazio e luce attraverso l’adozione di strumenti mediali alternativi.

Coerentemente con questo approccio, Sàl/Rite si presenta come una sessione di meditazione online, guidata dalla voce del mindfulness trainer Roberto Ferrari, a cui è possibile partecipare a distanza attraverso l’uso di un computer o tablet. Alla voce si accosta un accompagnamento sonoro che scandisce le fasi della meditazione, mentre sullo schermo è possibile leggere i parametri biometrici dei due partecipanti live alla sessione, rilevati attraverso due caschetti.

Il progetto, nella forma in cui è stato presentato a Residenze Digitali, può essere definito un prototipo digitale di ciò che più ampiamente rappresenterà Sàl. In particolare, esso coinvolge tre livelli di esperienza che fuse* sta sviluppando parallelamente: il primo è Live, uno spettacolo teatrale ancora work in progress, previsto per il 2023; Rite, appunto, è il secondo livello in cui il movimento, la luce e il suono interagiscono non più sullo spazio del palcoscenico, ma nelle stanze da cui i partecipanti alla meditazione si collegano online. I dati biologici raccolti durante entrambi i livelli confluiscono nel terzo, Archive, uno spazio astratto in cui le informazioni si combinano a creare una mappa delle sensazioni individuali, e da essa definire una forma di sensibilità collettiva.

In questo processo, Sàl ha il ruolo di avviare chi prende parte alla meditazione in un percorso di autoconsapevolezza fisica, di liberazione intellettuale e di sospensione del giudizio individuale, per rimpossessarsi dell’anima intesa come percezione consapevole del reale.

Chiara Di Giambattista

Olga legge i critters
Quando immaginare significa fare politica

60′
progetto di Lorenzo Belardinelli, Cinzia Pietribiasi, Lidia Zanelli
in collaborazione con Compagnia Pietribiasi/Tedeschi e Mikroradio

Il collettivo Jan Voxel è un gruppo multidisciplinare di recente formazione composto dalla performer e regista teatrale Cinzia Pietribiasi, il fisico e programmatore Lorenzo Belardinelli e la danzatrice e coreografa Lidia Zanelli. Dal 2019, si dedicano alla realizzazione di opere di grafica generativa, di arte algoritmica e di video art. Il risultato è un prodotto artistico fatto di tanti saperi e saper fare, un modo innovativo non solo per creare arte attraverso la scienza e le nuove tecnologie, ma in grado autogenerare l’opera stessa.

La loro visione del mondo amplia l’aspetto ibrido, la continua metamorfosi del complesso sistema delle interrelazioni tra umano e non umano, vivente e non vivente. Credono in una rinnovata forma dell’arte politica, fondamentale nell’epoca dell’Antropocene in cui la priorità sembra essere il singolo: nel momento dell’urgente crisi climatica, c’è quindi la volontà di creare un’arte più inclusiva e di dare una nuova responsabilità all’artista.

A Residenze Digitali si presentano con uno sorprendente progetto: Olga legge i critters è un live radiofonico tratto da The critters room, un’installazione multimediale interattiva dedicata al regno dell’invisibile. Partecipando al bando, hanno voluto completare l’opera con un lavoro totalmente digitale, che indagasse da altre prospettive il rapporto tra arte e scienza.

Al centro di entrambi i progetti ci sono le polveri sottili (PM10) misurate da centraline auto-costruite e di libero accesso, raccolte in vetrini, micro-fotografate e catalogate. È stato così creato un ampio archivio di immagini di critters – la parola critters fa riferimento al pensiero della filosofa statunitense Donna Haraway, secondo la quale i critters sono tutte quelle creature viventi e non con cui gli esseri umani devono entrare in relazione simbiotica.

Jan Voxel ha quindi trasformato l’invisibile in visibile. Gli organismi con cui coabitiamo senza accorgercene mutano forma e diventano dati, suoni, intelligenze.

In Olga legge i critters lo spettatore indossa delle buone cuffie, apre il sito web e aspetta che la performance live inizi. Il primo quesito che ci poniamo è: chi è Olga? Olga è “una persona speciale”, un messaggio vocale custodito con cura perché apre un’incredibile porta sull’immaginazione. Messa davanti alle fotografie dei microrganismi, Olga ha raccontato quello che il suo inconscio le suggeriva. Niente a che fare con le polveri sottili.

Da questa esperienza prendono voce altre letture creative. Uomini e donne rivelano i propri pensieri di fronte alle immagini dei vetrini, le opinioni della gente diventano quasi una melodica ballad. Le parole sono accompagnate spesso da suoni che avvolgono l’ascoltatore: sono i rumori captati dalle centraline. Si colgono suoni generici – come ronzii, gorgoglii d’acqua e canti d’uccelli – e altri ben distinti – una manifestazione a favore dei rider, un’altra che apre il dibattito dei (dimenticati) professionisti dello spettacolo.

Scrollando la pagina, anche lo spettatore prova a fare questo esercizio di immaginazione. In un mondo in cui la mente umana è abituata al motore di ricerca, che offre un sapere accessibile sempre e subito, immaginare è un allenamento fondamentale. Perché chi non immagina più “cade vittima di chi controlla le immagini al posto suo”: per questo, creare immaginazione significa fare politica.

Per realizzare questo progetto, Jan Voxel ha stretto intense collaborazioni con comunità di attivisti ambientali. Sono proprio queste associazioni che hanno permesso al gruppo di conoscere per la prima volta le centraline per il controllo dell’aria. Obiettivo comune è quello di mostrare ciò che esiste ma che non vediamo, di comprendere la materialità dell’invisibile e di prendersi cura del mondo in cui si vive, facendo attenzione a ogni singolarità, anche la più impercettibile.

Valentina Foti

WOE – Wastage of Event
Un tour di (ir)realtà virtuale tra reperti digitali

40’

progetto di e con Giacomo Lilliù e Lapis Niger
produzione MALTE

Giacomo Lilliù è attore e registra teatrale, con una formazione accademica tra l’Italia e Londra. Dal 2014 collabora con la compagnia Malte e dal 2015 è tra i fondatori del Collettivo ØNAR, gruppo di sperimentazione multidisciplinare, per cui cura la progettualità teatrale. Lapis Niger – pseudonimo di Matteo Palma, voce della band Uochi Toki – è disegnatore e scrittore, con un percorso artistico poliedrico e una poetica immaginifica.

Per il loro primo progetto insieme, i due artisti iniziano a collaborare spinti dall’interesse comune per il mondo performativo e per la condivisione di gusti letterari, musicali, cinematografici e video ludici. In particolare, l’obiettivo di questo lavoro digitale è quello di teatralizzare la tecnica già rodata dagli Uochi Toki del concerto disegnato in realtà virtuale e farlo germogliare in un terreno esclusivamente digitale.

Il duo si presenta a Residenze Digitali con WOE – Wastage of Event, un progetto di (ir)realtà virtuale che richiama apertamente la graphic novel The Cage di Martin Vaughn-James, gioiello dello sperimentalismo grafico e narrativo degli anni Settanta. L’intera performance è un tour attraverso macerie digitali e immaginifiche in un ambiente alieno, privo di limiti spaziali.

Per godere al meglio della performance sono necessarie delle cuffie e uno schermo più grande possibile. Si parte dall’esterno, in un paesaggio desertico fatto di entità poligonali rischiarate da un sole elettrico. La scenografia digitale si alterna con la parte testuale, impersonificata da una voce robotizzata: saranno le uniche due componenti della performance.

Presto l’ambiente esterno lascia il posto a un edificio, apparentemente una scuola. Il labirinto di corridoi al suo interno è spoglio, illuminato con luci a neon, e la visuale dello spettatore ricorda il mondo del gaming.

Spesso viene ripresa l’esecuzione del disegno, in cui l’autore ci mostra come nasce e come si realizza un prodotto grafico digitale. Sulle pareti, ci sono poster di floppy, chiavette usb da 4 giga-byte e altri elementi delle origini tecnologiche che sembrano ormai reperti da museo, oggetti da ricordare. Oggetti che un’intera generazione probabilmente non ha mai visto di persona.

La narrazione ripercorre la storia di un prodotto digitale: creato, spostato, cestinato, recuperato, rinominato… un’enorme quantità di dati che ogni giorno vengono generati dall’uso di un computer, immagazzinati e talvolta dimenticati. Ma quanto può sopportare una memoria digitale? Nel momento in cui il narratore parla di una “tregua” tra il terminale e l’utente, fa recepire quanto possa essere difficile relazionarsi con una macchina. In fondo, anche i dispositivi elettronici hanno dei limiti.

A un certo punto, il narratore robotico alza bruscamente il volume della voce, le parole si fanno più caotiche, ma presto capiamo cosa sta succedendo: “file corrotto”, pronuncia, “necessario formattare il disco”. L’agitazione che trasmette è la stessa che proviamo tutti di fronte a un errore o un danno informatico. Se non alimentata per lunghi periodi, per esempio, una chiavetta si azzera e perde la memoria, distruggendo tutte le informazioni contenute. E dove finiscono le “scorie degli eventi?” È possibile trovare la sorgente nel dimenticatoio?

Sono queste le domande che cercano risposta in WOE – Wastage of Event: un concentrato di brainstorming per far emergere nuove idee al fine della risoluzione di un problema. Tutto sommato, e “se l’hardisk avesse un’immaginazione?

Valentina Foti

I Am Dancing in a Room_La Fauna 2k21

Wi-Fi performance, memestetica e Tik Tok liveness

45’

progetto di Mara Oscar Cassiani

con Mara Oscar Cassiani, Diana Anselmo, Eric Tsai, Eugene Poogene, Huang Ding Yun, Tseng Chih Wei, Roland Gunst

Mara Oscar Cassiani è artista wi-fi based che lavora nel campo della performance, della coreografia, dei nuovi linguaggi digitali, dei social media e del ritual clubbing. La sua ricerca è focalizzata sull’elaborazione di ambienti e progetti performativi, un melting pot tra estratti di pop, approccio rituale, internet culture e folklore digitale che negli ultimi progetti si è ulteriormente esteso ad un indagine dei riti collettivi, distribuiti e condivisi come serie di azioni coreografate e variamente codificate da un linguaggio del web in costante e inarrestabile mutazione.

I Am Dancing in a Room è una performance incentrata sulla liveness performativa ispirata al tipico funzionamento di TikTok, dove lo scroll down consente di entrare in diverse stanze virtuali: è un lavoro che parte dagli spazi privati dei performer e dona un certo senso di equilibrio tra elementi di condivisione, partecipazione ma al contempo di distanza, immaterialità e virtualità tipici della rete. Il lavoro è un capitolo del progetto più esteso La Fauna, intesa come parte dell’habitat della rete e delle sue manifestazioni: lo studio segue il percorso inaugurato con la performance a webcam aperta sviluppata per il Roma Europa Festival (I Am Dancing in a Room_La fauna 2k21, ndr). Attraverso la performance della durata di quasi un’ora, l’artista utilizza lo strumento digitale come un vero e proprio ambiente, fatto di elementi di liveness e approcci gestuali e comunicativi legati agli internet languages e in cui tutti i performer coinvolti si producono in uno chillstream costante che indaga l’eterno riverberarsi dei gesti in rete, le forme di contatto tra ambienti reciprocamente intimi, la fruizione e la condivisione delle emozioni in costante mutazione, il rapporto sempre più complesso e stratificato tra spazi privati e spazi pubblici (si rimanda qui a un bella intervista alla Cassiani per approfondire ulteriormente il suo pensiero e la sua ricerca). Come nelle parole dell’artista infatti «il gesto in rete è ormai una coreografia che non ha mai fine, espressione performativa di milioni di utenti. Il gesto vaga per mimesi da una stanza all’altra, spesso senza nessuna variazione a parte il suo nuovo habitat: il corpo dell’esecutore e la stanza, che lo ospitano».

Ciascun partecipante ha accettato quindi di aprire un proprio ambiente interiore, emotivo o personale, a noi che guardavamo la performance. I am Dancing in a Room ci ricorda con gusto e ironia come, grazie alla rete e alle piattaforme performative social, possiamo essere nella stanza di qualcuno anche senza esserci mai stati, essere connessi a milioni di chilometri di distanza e attivare comunque una sorta di legame emozionale. I performer effettuano lo streaming dalla propria stanza lontanissima da dove abitiamo, eppure è come se fossero lì con noi, aprono la propria stanza a un pubblico curioso: gli spazi intimi diventano quindi pubblici, si ha la possibilità di essere in una casa di Taipei e al tempo stesso essere in un appartamento di New York o di Johannesburg.

Una ricerca che da sempre trova nella performatività, nei linguaggi di Rete e nelle sottoculture, gli elementi cardine per unire mondi lontani e creare un innovativo linguaggio espressivo di digital art. Un linguaggio che non si sofferma su “un’ingenua visione hi-tech delle cose”, come conferma la stessa artista, ma che spesso autogenera l’opera. La sfera artistica si è già trasformata radicalmente grazie all’uso delle nuove tecnologie: ora è lo stesso utente che ha in mano il potere creativo (la colossale produzione di meme e gif ne è prova evidente) e la società attuale può solo che aspettarsi una continua evoluzione di questo fenomeno artistico e performativo.

Supportata da Residenze Digitali e dalle tutor Laura Gemini, Federica Patti e Annamaria Monteverdi, nella parte teorica di questo studio Mara Oscar Cassiani ha avuto anche il supporto di Valentina Tanni. In occasione della performance è stato anche organizzato un talk di approfondimento dal titolo “I am dancing in a room, La Fauna 2k21; Wi-Fi performance, memestetica e Tik Tok liveness” sul canale YouTube e sui canali social di Teatro della Tosse, in cui l’artista ha dialogato con Kamilia Kard, docente presso le Accademie di Brera e Carrara, ricercatrice e artista digitale, e con Valentina Tanni, storica dell’arte, curatrice e docente.

Bianca Pellissone