Il suo compito [dell’arte, ndr] è […] di riprodurre esteticamente le illusioni e le mistificazioni che costituiscono l’essenza reale di questa civiltà, affinché per ultimo si esprima la Differenza […]. (Gilles Deleuze, “Differenza e ripetizione”, Bologna, Il Mulino, 1972, traduzione G. Guglielmi, p. 465-466)
“Esiste un’arte precaria nel restare fermi per indeterminare questo mondo ostile, oppure per velocizzarlo in maniera inaudita e aprirlo alle possibilità di una vita che diviene. Bisogna dare voce all’emergenza delle nostre vite minuscole.” – Roberto Ciccarelli, “L’emergenza delle nostre vite minuscole”, comparso su “aut aut”, n. 365, 12/04/2014
Uno degli aspetti più interessanti del nostro rapporto con la tecnologia, e di come ci relazioniamo con le altre persone attraverso di essa, è la modalità con cui produciamo senso attorno alla narrazione delle nostre identità. Internet, i social network e le strutture p2p hanno amplificato questo fenomeno favorendo la ramificazione di reti sempre più ampie costruite attorno a singoli individui, alle loro personali narrazioni in rapporto a pubblici virtuali (e reali) selezionati sulla base di processi di valore non solo affettivi ma sempre più sociali, economici e professionali.
Nell’interazione con gli altri in Rete, l’individuo riflette sempre più su sé stesso, selezionando accuratamente i contenuti (personali e non) che vuole che gli altri vedano. Determinando, dunque, un racconto di sé che ridefinisce il concetto stesso di identità, di ripetizione e di differenza.
1 – La rappresentazione del sé, dall’immagine statica al racconto
In accordo alla complessità di questo periodo storico, la rappresentazione del sé non passa solo attraverso la messa in scena della propria persona in un determinato istante, ma si manifesta lungo un intero arco narrativo composto da una pluralità di momenti. Da un’accurata produzione e gestione di contenuti pubblici (immagini, video, articoli, link, etc) che modellano e plasmano la percezione che le altre persone hanno di noi. La tensione è quella di costruire un’immagine di noi in Rete che sia complessa, sfaccettata, un unicum narrativo che racconti la nostra storia. Lo scopo è dare vita ad una persona“specifica”, sebbene invariabilmente costretta nelle maglie di definizioni e comportamenti individuali che sottendono a dinamiche di copia e ripetizione di individualità altre. E per noi rappresentative.
Per Erving Goffman, padre dell’interazionismo simbolico, l’identità ha un caratteristica drammaturgica. Il sé è conseguenza di un atto performativo, il modo in cui ci presentiamo nella vita di tutti i giorni. L’identitàè sostanzialmente proiettata su un pubblico, il pubblico della nostra rappresentazione teatrale in cui presentiamo noi stessi agli altri. Da un lato il performer è totalmente immerso nella propria performance ed è sinceramente convinto che la proiezione di sé stessi verso l’esterno sia corretta; dall’altro, egli è consapevole che l’azione con cui impressiona lo spettatore non è altro che una recita. Il sociologo canadese evidenzia come questo processo sia spesso attivato non solo per un interesse personale, ma nella pura convinzione che esso possa essere utile per il pubblico dei propri pari.
“Quando un individuo interpreta una parte, implicitamente richiede agli astanti di prendere sul serio quanto vedranno accadere sotto i loro occhi. Egli chiede loro di credere che il personaggio che essi vedono possieda effettivamente quegli attributi che sembra possedere, che la sua attività avrà le conseguenze che implicitamente afferma di avere, e che in generale le cose sono quali esse appaiono. (Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, traduzione di Margherita Ciacci, collana Biblioteca, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 29)
La narrazione di ogni individuo è quindi una sorta di gioco, in cui i partecipanti danno per scontate le regole; nel momento in cui si pongono dubbi sulla legittimità di tale processo, mettono in crisi il sistema che lo sottintende. La storia dell’individuo è, dunque, una storia sociale, una rappresentazione esterna e perfetta di noi, a volte follower della morale comune, spesso dogmatica e influenzata dagli interessi più complessi. Non si tratta di un’immagine necessariamente aderente alla sua rappresentazione interiore, bensì di un costrutto che è funzionale allo sviluppo di reti private e professionali. La percezione delle esigenze, speranze e ambizioni vengono modellate da una “società algoritmica” formata da amici, conoscenti e colleghi individuati e determinati da complesse stringhe di codice.
Una “società algoritmica” nata dagli interessi economici e politici di grosse multinazionali, in grado di monitorare la nostra narrazione, di condividerla e plasmarla in relazione a quella delle nostre cerchie virtuali. Di trasformarla in un dato di marketing vendibile al miglior offerente.
2 – Rappresentazione falsata del sé, nel rapporto tra vita privata e professionale
In un periodo storico di crisi economica, di mancanza di condizioni favorevoli nel mercato del lavoro, di esigenza all’autodeterminazione professionale, la rappresentazione dell’individuo in Rete passa attraverso la volontà di raccontarsi manifestando i propri interessi, le attività che svolge, la capacità di creare un profilo riconoscibile che può potenzialmente diventare influencer.
Un processo alimentato dal sistema informatico contemporaneo, per mezzo di strumenti che quantificano tale potenzialità con numeri, classifiche e tag. La possibilità di innescare reti professionali che si confondano con quelle private, che raccontino noi stessi come elementi dotati di interessi singoli che rispecchino non solo gli interessi di una comunità ampia ma anche e soprattutto le aspettative del nostro mondo professionale di riferimento, è una grande possibilità alla quale molti di noi non si sottraggono.
“[…] le ‘arti dell’esistenza’ […] quelle pratiche ragionate e volontarie attraverso le quali gli uomini non solo si fissano dei canoni di comportamento, ma cercano essi stessi di trasformarsi , di modificarsi nella loro essenza singola, di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile. (Michel Foucault, Storia della Sessualità. Vol.2: l’uso dei piaceri. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, collana Universale Economica, Saggi, Milano, 1984, p. 15-16)
Se da un lato questo meccanismo risulta funzionale per molte persone, dall’altro mostra il fianco a criticità e ambigue rappresentazioni del sé. Non potendo e non volendo osservare il fenomeno nella sua complessità sociale, osserviamo al contempo come la modalità attraverso la quale alcuni “intellettuali” a contatto con i mercati dell’arte e della musica contemporanea, della cultura start up, del design e del mondo maker (spesso caratterizzati da reti comuni, strutture mercantili sovrapposte, luoghi di frequentazione deputati, modalità di narrazione condivise) raccontano se stessi, avviene emulando linguaggi propri delle avanguardie e delle controculture. Tale appropriazione è un meccanismo distopico e nocivo sia per quei “lavoratori della conoscenza” che li rappresentano in modo indipendente ogni giorno nel loro lavoro e nella loro vita, sia per la creazione di un nuovo sistema di valori sociali e occasioni professionali che – nel rapporto privilegiato con banche, aziende e mecenati – ripetono il classico schema capitalista del “tanto-dato-a-pochi”.
L’orrore dell’”intellettuale di se stesso” – come lo definisce Roberto Ciccarelli nell’articolo “L’emergenza delle nostre vite minuscole”, comparso su “aut aut”, n. 365, 12/04/2014 – rispetto alla nozione di “lavoratore della conoscenza” “si spiega nel desiderio di essere riconosciuto in quanto soggetto distinto, forte del suo “capitale simbolico”, indipendente dalla “comunità” dei senza parte (o senza meriti). Questa distinzione può essere ottenuta con l’elezione, o la cooptazione, da parte dello Stato. Dove questo non è possibile, la si cerca sul mercato. In entrambi i casi, i “senza parte” non hanno cittadinanza se non nelle narrazioni patetiche, compassionevoli o paternalisiche imbastite dalla cultura social-liberista. L’attitudine media dell’”intellettuale di se stesso”, nell’esibizione grottesca dei suoi buoni sentimenti, rivela le pulsioni autoritarie di chi intende ristabilire la “normalità” del lavoro, della famiglia o della nazione in un mondo comune ingovernabile con questi canoni”.
3 – Rappresentazione del sé come meccanismo di appartenenza
La precarietà e l’ansia derivante dalla condizione economica del nostro paese ha determinato nuove forme di rappresentazione del sé in Rete. Forme distopiche che da un lato osservano le criticità dei mercati e delle strutture politiche e culturali del nostro paese, ma che al contempo sottostanno a logiche di “appartenenza” a precise caste socio-economiche in nome delle quali si modificano le proprie reti sociali in funzione di meccanismi di utilità e di nuova rappresentazione. Si determina in sostanza l’abbandono di una vecchia narrazione del sé in funzione di una nuova, che seleziona alcune esperienze e le altera verso una versione di noi stessi più prestante, efficace, a contatto con le istanze mercantili e politiche del contemporaneo.
A tal proposito, Gilles Deleuze suggerisce l’idea post-moderna secondo cui la realtà delle nostre vite deve essere pensata come un gioco di differenze, rompendo i meccanismi mentali tradizionali per i quali ci comportiamo e agiamo in termini di somiglianza, analogia e identità. In Differenza e Ripetizione, invita a imparare a trattare noi stessi, la vita e gli eventi che ci accadono come dei simulacri (travestimenti, spostamenti, ripetizioni “vestite”), possibilmente unici nella loro differenza. Il rischio è che “la macchina dell’assimilazione”, della copia e dell’analogia possa altrimenti soffocare le nostra identità trascinandole in un mondo fittizio, illusorio, fatto di automatismi e ripetizioni cosiddette “nude”.
“Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione […] della differenza, si deve dunque dire che la si fa, o che si fa, come nell’espressione «fare la differenza»“. (Gilles Deleuze, “Differenza e ripetizione”, Bologna, Il Mulino, 1972, traduzione G. Guglielmi)
La pagina Web in cui ogni utente visualizza tutti i i materiali caricati dagli altri, è uno spazio in cui confluiscono due modalità di selezione: da una parte quella soggettiva nel momento in cui si decide quali informazioni delle proprie esperienze pubblicare e rendere visibili ai propri contatti; dall’altra, quella esercitata dalla stessa piattaforma online, che analizza i materiali caricati per mostrarci solo quelli potenzialmente più interessanti per noi. Questa meccanica avviene sulla base di diversi parametri, come il numero di interazioni che si sono generate fino ad allora tra l’utente e i propri contatti, la potenziale carica virale del contenuto stesso e l’insieme degli argomenti che ci attraggono maggiormente.
Vediamo come, dunque, il montaggio di questi materiali non sia scevro da interventi esterni e che, anzi, è fortemente influenzato dalla logica quantificante del servizio online. Le due selezioni, portano spesso ad un appiattimento dei significanti: la maggior parte dei materiali visualizzati, sia perché vengono realizzati in modo da essere potenzialmente virali, sia perché perché vengono premiati quelli che lo sono effettivamente, condividono linguaggi e modalità di comunicazione. La narrazione delle proprie memorie e della propria esistenza si inserisce dunque in un flusso di immagini (e quindi di rappresentazioni) simili tra loro, in cui l’originalità ricercata dalla maggior parte degli utenti porta all’appiattimento dei significanti.
Lo stesso Michel Foucault favorisce la dissoluzione del concetto di identità, piuttosto che il suo mantenimento o ancor peggio la sua creazione. Egli considera l’identità come una forma di soggiogamento, nonchè una modalità di esercizio del potere, per impedire al singolo individuo di uscire fuori dai confini prefissati dalla morale comune, dalla società, dal contesto socio-politico dominante.
“[…] le tecnologie del sé permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere un stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione. o immortalità”. (a cura di Martin Luter H., Gutman Huck, Hutton Patrick, Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, Bollati Bordigheri Editore, Torino, 1992, p.13)
4 – Rappresentazione come nuova espressione di divisione sociale
Come abbiamo ricordato nelle righe precedenti, dallo scorso 1 Maggio 2015 l’Italia ospita uno dei più grandi eventi culturali e commerciali del mondo, l’Esposizione Universale Milano 2015, inaugurata lo stesso giorno della Festa del Lavoro nella città che da oltre 20 anni ospita la May Day Parade, ovvero l’evento di rappresentanza nazionale dei movimenti controculturali, antagonisti e artistici italiani. La concomitanza dei due eventi è stata forzatamente esplosiva: il racconto delle proteste e delle devastazioni, nonché le conseguenti riflessioni e polemiche, è stato il trand topic della Rete per oltre 72 ore.
Lo scorso 1 Maggio 2015 ha rappresentato uno spartiacque nella storia politica e culturale del nostro paese: è stato il giorno in cui si è presa coscienza di una nuova divisione sociale, di una nuova spaccatura che non afferisce più alle classiche divisioni politiche del passato (“destra” e “sinistra”, “poveri” e “ricchi”, “popolo” e “borghesia”) ma che fa riferimento a quei processi identitari di narrazione, ripetizione e omologazione, a quei modelli socio-economici liquidi cui si accennava precedentemente. Una frattura che ha coinvolto anche coloro che dai mondi dell’arte, della sperimentazione, delle controculture provenivano e la cui appartenenza rivendono oggi al miglior offerente sul mercato, raccontando se stessi secondo logiche ricompensa e non di differenza.
Le più recenti teorie sull’identità analizzano puntualmente i singoli individui all’interno di una comunità di pari, di nodi. L’attenzione si sposta dalle elaborazioni personali, tipiche dei processi narrativi, verso delle prospettive più ampie in cui le relazioni con gli altri determinano in modo esponenziale la costruzione dell’identità stessa. In questo senso Georgie J. McCall e J.L.Simmons nel loro saggio “Identities and Interactions: An Examination of Human Associations in Everyday Life”, Free Press, 1978 affermano che “i ruoli di maggior successo sono quelli che vengono supportati non solo dai singoli individui, ma dalla comunità di riferimento che li circonda, fornendo loro una ricompensa significativa, sia intrinseca che estrinseca.” (traduzione letteraria a cura di Marco Mancuso)
La modalità di narrazione delle proteste (e di se stessi, nell’interpretazione del topic) da parte di una certa fetta di popolazione si è rivelata inevitabilmente diversa dalla narrazione di coloro che hanno cercato di capire le ragioni della protesta stessa, accettarne le conseguenze e comprenderne la complessità. Il mondo dell’arte non ha preso colpevolmente posizione: anzi, non esponendosi eccessivamente contro quel sistema economico-politico che ne determina la propria sussistenza economica, ha commesso forse il reato più grande.
Senza – in tutto ciò – voler dimenticare l’aspetto estetico della rappresentazione (dalla ragazza in posa appoggiata alla macchina bruciata e rovesciata ai ragazzi in nero incappucciati e in posizione plastica nell’atto di lanciare oggetti), anche i simboli, le icone in Rete di questa giornata sembrano raccontare le tensioni opposte che si vivono oggi nel nostro paese. Ma questo è un altro capitolo, forse meno interessante, forse di più. Solo osservando sapremo capire.
L’articolo è stato pubblicato in origine sul sito web del Goethe Institut Italia
http://www.goethe.de/ins/it/it/lp/kul/prj/str/20567881.html