Nel cuore del quartiere San Lorenzo di Roma, si trova il Pastificio Cerere che costituisce un importante spazio di sperimentazione per la capitale, ospitando alcuni studi di noti artisti, la Fondazione Pastificio Cerere, la Scuola di fotografia ISFCI e la nuova sede di RUFA – Rome University of Fine Arts. Negli anni Settanta il Pastifico Cerere è stato trasformato da spazio industriale – fabbrica di farina e di pane che riforniva la capitale – a luogo deputato all’arte con un unico obiettivo: condividere l’ideologia del fare e dell’operare come terreno culturale nel quale discutere e incontrarsi ogni giorno.
Ad oggi l’identità non è cambiata e i progetti culturali riprendono il leit motiv della prima grande mostra di Achille Bonito Oliva negli anni Ottanta, dedicata alla speculazione di quelle figure che non appartenevano solo ad un gruppo artistico, ad una unica poetica o disciplina, ma si aprivano alla commistione tra i vari linguaggi artistici contemporanei. La sensibilità per la multidisciplinarietà – collegata all’utopia di un’arte totale – contraddistingue ancora oggi le scelte curatoriali della Fondazione Pastificio Cerere, che propone costantemente un programma ricco e intenso, ma soprattutto ibrido.
La mostra della curatrice e scrittrice indipendente Manuela Pacella – allestita dal 25 settembre fino al 20 novembre 2019 – si è focalizzata sulle immagini del suono “come tentativi di rappresentare i suoni stessi”[1]. La mostra Objects and Sounds ha presentato in particolare il lavoro di Joanna Kina (1984), un’artista finlandese straordinaria, che coniuga suono, linguaggio e immagine, attraverso la realizzazione di film, installazioni, opere sonore e fotografie. Per la prima volta in mostra a Roma, l’artista ha esposto in numerose personali e collettive presso i maggiori musei del mondo, tra cui Tokio Photographic Art Museum, Kunsthalle Helsinki, Moscow International Biennale for Young Art, Helsinki Art Museum eccetera. Il progetto per la Fondazione – realizzato con il patrocinio dell’Ambasciata di Finlandia a Roma, reso possibile grazie al Project Grant 2019 di Frame Contemporary Art Finland e al sostegno di SKR (Finnish Cultural Foundation) e Arts Promotion Centre Finland (Taike) – ha indagato le potenzialità sia linguistiche sia comunicative del suono e delle immagini, attraverso un lavoro fotografico ed audiovisivo in cui arte, musica e cinema dialogano, rendendo visibili e tangibili gli effetti sonori.
Un progetto espositivo ben allestito e curato nei minimi dettagli, a partire dal testo introduttivo in cui Pacella storicizza l’avvento della notazione musicale nel IX secolo, le prime testimonianze grafiche relative alla musica nei dipinti tombali del secondo Millennio, gli ideogrammi raffiguranti gli effetti sonori negli spazi architettonici in area mesopotamica, i soggetti sonori nei dipinti rupestri. Fino ad arrivare alla musica sperimentale del compositore britannico Cornelius Cardew, che tra il 1963 e il 1967 realizzò lo spartito Treatise, composto da centonovantatre pagine con forme geometriche e astratte, e con simboli e linee, ma senza istruzioni precise per i musicisti – che dovevano eseguire lo spartito in piena libertà. Partendo dall’opera di Cardew e ovviamente dal lavoro più celebre di John Cage, 4’33” – che ha trasformato l’esibizione musicale in una performance artistica ante litteram – la musica occidentale ha sperimentato a partire dagli anni Cinquanta, nuovi modi di pensare ed eseguire una composizione, seguendo soprattutto il caso (della pittura surrealista e dell’action painting) e l’improvvisazione (della musica Jazz). Questi esperimenti nel campo della musica e dell’arte hanno dato la possibilità alle generazioni successive di sperimentare liberamente il suono, (ri)creando nuove esperienze, anche dentro il silenzio della nostra mente.
Il suono e la sua raffigurazione – attraverso le fotografie di oggetti utilizzati nel cinema per produrre rumori – sono il campo di indagine dell’opera Foley objects (2013), che Joanna Kina ha dedicato in particolare a Jack Donovan Foley (da cui deriva il termine Foley artist), pioniere degli effetti sonori per la radio e per il primo cinema sonoro degli anni Venti. Kina si è focalizzata sul lavoro dei rumoristi – mai realizzato in presa diretta, ma sempre in post-produzione – che ha permesso allo spettatore di fare un’esperienza il più verosimile possibile, entrando dentro la narrazione filmica, attraverso il suono. L’artista ha scelto alcuni oggetti – che sono utilizzati dai rumoristi finlandesi con cui ha collaborato – e li ha fotografati nel proprio studio, mettendo in evidenza in maniera quasi chirurgica perfino le parti usurate, che permettono di immaginarne l’uso e allo stesso tempo il suono peculiare che producono.
Nelle venti fotografie selezionate per la mostra, su una serie di ventisei, Kina ha ritratto oggetti perfettamente illuminati e corredati da didascalie assurde o ironiche, proprio per ricordare l’utilizzo di utensili strani e bizzarri nella creazione di determinati rumori (l’ananas ad esempio è titolata Pelle di dinosauro). Lo spettatore è sorpreso da questo “cortocircuito linguistico e percettivo”, come lo definisce la stessa curatrice, grazie al quale le fotografie “mute” prendono vita, dando vita a suoni e rumori. Lo spettatore fa una esperienza percettiva e sinestetica, associando un oggetto a un suono e viceversa. L’artista intende stimolare la percezione del pubblico, attraverso una partecipazione attiva, durante la quale può esplorare la complessità del linguaggio sonoro e la sua relazione con l’immagine.
Il corto proiettato nell’ultimo ambiente della Fondazione, Arr. For a Scene (2017) – che ha vinto il premio “Best Nordic Short Film” selezionato da Nordisk Panorama – invitava il pubblico a entrare nello spazio fittizio del video, per prendere parte alle azioni ordinarie dei protagonisti, che mantenevano lo sguardo fisso, mettendo fortemente a disagio chi guardava. In piedi di fronte a un tavolo, i rumoristi Elodie Fiat e Gilles Marsalet utilizzavano oggetti comuni, producendo suoni (con il supporto del sound technician Maxence Dussere e del sound mixing di Kirsi Korhonen) che inizialmente non sembravano attirare l’attenzione, fino a quando il fruitore riconosce la colonna sonora dell’omicidio sotto la doccia del celebre film Psycho (1960) di Hitchcock, e la tensione improvvisamente cala. La mente dello spettatore – secondo schemi di abitudine percettiva, per citare Hernst Gombrich – si rilassa proprio nel momento in cui la sua mente comprende l’operare dei foley artist e la realtà che hanno saputo creare con la loro arte.
I suoni prodotti durante il cortometraggio – che è stato girato in 35 mm – sono l’oggetto di un altro lavoro, Score for Arr. for a Scene, in cui Kina fa il processo inverso, trasformando la colonna sonora in una composizione visiva, che si ispira al sistema di annotazione usata nella danza barocca e negli esperimenti grafici e visivi di Cornelius Cardew. Grazie alla collaborazione con il compositore Lauri Supponen, ha reso infatti visibili gli effetti sonori e musicali, con una sequenza di rumori annotati per mezzo della penna su carta. Così costituisce un trittico di stampe con la partitura delle strutture e delle forme che sono state utilizzate dagli stessi attori. Il suono e la sua rappresentazione sono in grado di attivare esperienze multisensoriali e percettive che spingono l’utente ad andare oltre il visibile, riscoprendo quella capacità di ascolto interiore, mentale, percettivo e psicologico che appartiene da sempre alla storia dell’umanità.
Il lavoro straordinario dei rumoristi è stato raccontato in Italia dal documentarista Milo Adami, circa due anni fa, nel prezioso video Il colore del suono, confrontando un grande rumorista del cinema italiano, Enzo di Liberto, con uno dei compositori americani più noti di musica concreta, Alvin Curran. L’autore avvisa: dove “l’esperienza visiva e percettiva lascia alle immagini e ai suoni la possibilità di esprimersi senza vincoli di genere, in quanto sfuggendo alle immagini, il suono, per essere raccontato, richiede alla forma stessa del documentario di ripensarsi”. Sono immagini che generano associazioni sonore nella nostra mente, “lì dove le immagini cedono il posto all’immaginario per raccontare storie di chi dedica la propria vita a quel qualcosa che non ha né forma né immagine, all’immateriale per definizione, il suono”[2]. Il mondo materiale, aptico, immateriale, immaginario e fisico viene raccontato attraverso il mondo percettivo dei suoni, scoprendo ad esempio che si può accomunare “l’universo sonoro sottomarino di un palombaro al mondo sonoro immersivo di un non vedente” oppure è possibile collegare “una fabbrica di metronomi meccanici a un rave party”. In tutte queste storie – molto eterogenee e diverse tra loro – il suono dà un significato e una tridimensionalità alle immagini, mentre le immagini rappresentano i suoni stessi, prendendo forma nella mente dello spettatore.
[1] S. J. Waller, Intentionality of Rock-art Placement Deduced from Acoustical Measurements and Echo Miths in C. Scarre & Graeme Lawson, Archaeoacustics, McDonald Institute for Archeological Research, University of Cambridge , 2006, p. 36
[2] M. Adami, Il Colore del suono, documentario. Cfr: https://vimeo.com/93900365