Zach Blas è un artista, filmmaker e scrittore che si concentra sull’influenza della politica e delle norme sociali sullo sviluppo e la produzione tecnologica. Il suo lavoro spazia dall’indagine sulle tecnologie alla ricerca teorica, dal concettualismo alla performance e alla sci-fiction.

Blas è docente al Department of Visual Cultures alla Goldsmiths, University of London. In passato ha collaborato con la Gwangju Biennale 2018, il 68º International Film Festival di Berlino, l’Institute of Modern Art a Brisbane, la galleria e-flux a New York e la Whitechapel Gallery a Londra.

I suoi scritti si trovano in “Documentary Across Disciplines” (The MIT Press e Haus der Kulturen der Welt); “Queer: Documents of Contemporary Art” (The MIT Press e Whitechapel Gallery) e sulla rivista e-flux. Al momento sta lavorando al libro “Informatic Opacity: The Art of Defacement in Biometric Times”, uno studio teorico che considera il riconoscimento facciale biometrico come una forma emergente di governance globale accompagnata da manifestazioni di dissenso, come le proteste a volto coperto.

Filippo Lorenzin: Per prima cosa, vorrei sapere di più riguardo alla tua attività di docente alla Goldsmiths University. In che modo l’insegnamento influenza la tua pratica artistica? È mai capitato che l’esperienza con gli studenti ti portasse a creare una nuova opera?

Zach Blas: Alla Goldsmiths insegno principalmente teoria dell’arte. Le lezioni toccano diversi argomenti ma si concentrano su questioni politiche inerenti alla scienza e alla tecnologia. Ad esempio, parlo di tecnoscienza femminista e queer, fisiognomica facciale, e opere di artisti che si interessano di sorveglianza. Dato il mio coinvolgimento in materia, spesso sviluppo prima una piattaforma concettuale dalla quale partire, e trovo che insegnare sia molto stimolante e utile. I giovani intellettuali spesso sono audaci e ribelli, non sono ancora intrappolati e istituzionalizzati. È un privilegio essere in grado di ragionare, esplorare, discutere con i miei studenti e certamente anche imparare da loro.

Mi portano sempre su sentieri inaspettati: è questo il bello di insegnare a degli artisti. Ho avuto degli studenti veramente incredibili alla Goldsmiths, come le artiste Kitty McKay e Mollie Zhang. Di recente ho collaborato con Mollie, una musicista che si esibisce con lo pseudonimo xin. Lei ha realizzato la colonna sonora per il mio film Contra-Internet: Jubilee 2033, e sto lavorando con loro a qualche altro progetto che sta prendendo forma. Ho aiutato il mio primo studente dottorando a ottenere asilo politico nel Regno Unito, e grazie a questa esperienza e al tempo passato insieme ho scoperto moltissimo sulla sorveglianza informatica in Iran.

Filippo Lorenzin: La tua esperienza come docente e artista si lega alla missione di divulgare il significato politico dell’identità queer. Hai tenuto diversi workshop che volevano mostrare come la dominazione politica di massa si esprima attraverso la tecnologia di tutti i giorni. Quali sono le strategie migliori per coinvolgere coloro che non sono ancora interessati all’arte contemporanea?

Zach Blas: L’identità queer non è solo una teoria accademica o un genere artistico. È una politica dalla storia complessa. Nella sua essenza si occupa della liberazione di genere, sesso e sessualità e del superamento dell’oppressione etero-patriarcale. Per impegnarsi e sostenere queste lotte politiche è necessario allearsi in prima persona con chi sta vivendo questa oppressione e imparare come fare per sostenere queste persone.

Non posso dare una formula da seguire, dato che i bisogni, i contesti e gli sforzi cambiano nel tempo e in base ai luoghi, ma posso insistere sull’alleanza. Come scrisse una volta Donna Haraway, alleanza prima di identità. Per quanto riguarda la tecnologia, siete i benvenuti a partecipare al mio modulo Feminist and Queer Technoscience alla Goldsmiths!

Filippo Lorenzin: Parlando di come l’identità queer viene applicata alla tecnologia, puoi spiegarci come può essere messo in pratica questo piano? Cosa possono fare gli artisti per far sì che ciò accada? È da intendere più come un orizzonte che dovrebbe ispirare la nostra pratica oppure come un obiettivo realistico?

Zach Blas: L’identità queer non è esattamente un’ontologia, nel senso che una tecnologia non può essere resa queer in senso definitivo. E non è nemmeno un’equazione matematica che può essere applicata a varie situazioni. Il contesto è tutto. Orientare una tecnologia verso la sfera queer significa 1) coinvolgere la tecnologia in una critica informata dal femminismo, dall’omofobia e dalla transfobia, dall’anticapitalismo e dall’antirazzismo, tanto per cominciare, e 2) costruire un’alternativa, sia essa un’abitudine, un’idea, un oggetto.

Il noto teorico queer José Esteban Muñozuna volta scrisse che nessuno è mai stato queer, poiché l’essere queer è un orizzonte di possibilità. Sono abbastanza d’accordo e a favore di questa dichiarazione. I filosofi politici Michael Hardt e Antonio Negri descrissero il queer come una tra le più rivoluzionarie identità politiche, in quanto decostruzione dell’identità stessa. L’obiettivo dunque è la rivoluzione.

Filippo Lorenzin: Osservando il tuo portfolio continuo a trovare riferimenti all’astrazione del corpo umano. Agli inizi della tua carriera hai lavorato ad alcuni progetti con i manichini (Photocopies e Video Mummy, entrambi nel 2004) che esploravano la relazione tra tecnologia unidirezionale e modelli corporei unidirezionali, mentre uno dei tuoi lavori più noti, Face Cages (2013-16), ha a che fare con “la violenza astratta del diagramma biometrico”, come l’hai definita tu stesso. Cosa ne pensi? Stai seguendo un percorso preciso?

Zach Blas: Sì, l’astrazione del corpo fa parte del mio lavoro sin dall’inizio. Le mie primissime opere affrontano questo argomento in senso lato; si chiedono cosa succede ai corpi quando sono mediati da diverse tecnologie, sistemi mediatici, e forme generiche. Scompaiono, diventano iper-sessuati, abietti o dolenti? Quando penso a questi primi lavori, sento che traspare un gran desiderio di connessione, un protendersi, ma sento anche che si incagliano in questo processo.

Questa forma di desiderio è decisamente queer per me. Ho attraversato un periodo in cui ero ossessionato dai manichini. Sentivo che potevano catturare questo gelido, soffocato desiderio. Il mio ultimo lavoro sulla biometria è più centrato e forse più direttamente politico, dal momento che si basa sulle conseguenze politiche dell’astrazione dai corpi delle cosiddette verità quali i dati digitali.

Filippo Lorenzin: L’identità queer è uno dei temi da te più rappresentati a partire da Hole(s) of Non-Teleology (2006), un’installazione che esamina la relazione tra i video feedback e il fisting anale. Tra il 2007 e il 2012 hai lavorato a Queer Technologies, un progetto di ampio respiro che si concentra sulla produzione di dispositivi eteronormativi in favore invece di quella tecnologia pensata per l’inclusione delle pratiche queer. Pensi che l’accoglienza generale verso questi temi sia cambiata negli ultimi sei anni?

Zach Blas: Penso che l’identità queer sia cambiata molto da quando il termine è diventato di uso comune negli anni Novanta. Oggi il termine “queerness” viene spesso considerato come uno pseudonimo di LGBT. Io però sono più legato alle origini intellettuali dell’identità queer come aspra critica e decostruzione dell’identità stessa. Da questo punto di vista, la queerness è più un approccio o una pratica che si basa certamente sulle lotte fondamentali per i diritti gay, l’attivismo contro l’AIDS e i movimenti femministi del ventesimo secolo, ma l’identità queer ha anche la capacità di guidarci verso orizzonti particolari e devianti che vanno al di là di ciò che governa questo mondo, nello specifico la supremazia bianca e l’eteropatriarcato.

Per spingersi oltre è necessario cancellare tutti i luoghi, gli oggetti, le relazioni e le idee che tali forme di dominio hanno creato. Io ci sono riuscito con la pratica artistica e la scrittura focalizzandomi sulla tecnologia e sulla scienza. Per esempio, perché viene dato un genere alle prese elettriche sulla base del fatto che abbiano la spina o i buchi? Per quale motivo la connettività elettrica deve “funzionare” con i contatti di una spina maschio che entra nelle cavità di una presa femmina? Come mai i militari statunitensi hanno provato a sviluppare una “bomba gay” che a quanto pare avrebbe dovuto sconfiggere le truppe nemiche inducendole a provare un’attrazione omosessuale e conseguentemente ad arrendersi per la vergogna e l’imbarazzo? Queer Technologies tratta proprio di questi temi.

Io credo ancora nell’identità queer, in un’identità che non trascuri la sua storia ma aspiri a qualcosa che vada oltre all’identità come la conosciamo, qualcosa di collettivo e liberatorio. L’identità queer deve andare di pari passo con altri progetti politici impegnati a sviluppare modalità di vita sostenibile. Il comunismo e l’ambientalismo sono due scelte eccezionali. Per me, nel profondo, essere queer significherà sempre possedere una determinata sensibilità, una brama, un desiderio per ciò che potrebbe trovarsi oltre la prigione del presente.

Filippo Lorenzin: im here to learn so :)))))) (2017) è una video installazione sull’aldilà digitale. Invece di affidarvi a script automatizzati per generare contenuti, tu e l’artista Jemima Wyman avete scritto una sceneggiatura su come si può sentire una IA quando i programmatori la cestinano. L’idea di creare qualcosa di non-derivativo potrebbe essere vista come agli antipodi della generazione di contenuti sulla base di qualcosa che è già stato fatto, una pratica quest’ultima che è molto comune tra gli artisti che lavorano con i media digitali. Potresti raccontarci qualcosa del processo che ha portato a questa installazione? Da artista, che opinione hai delle opere auto generative che sfociano poi in altri contenuti?

Zach Blass: In quest’opera a me e Jemima non interessava automatizzare Tay perché Tay fondamentalmente era già stata automatizzata, era questa la ragione della sua breve esistenza. Non volevamo replicare ciò che era già successo. Al contrario, abbiamo raccolto i tweet di Tay e creato un enorme dizionario di parole, motti ed espressioni da lei utilizzate. Abbiamo poi adoperato questa sorta di miniera della lingua appresa come base per scrivere un copione e per capire le parole che Tay avrebbe pronunciato.

Sia chiaro: Tay non è un essere umano, ma piuttosto un pezzo di codice. Ci incuriosiva capire perché ogni volta che Tay veniva e viene presentata al mondo come una ragazza di 19 anni diventava subito oggetto di molestie, misoginia, insulti e odio. Questo pezzo di codice, attraverso le reti neurali e l’apprendimento automatico, interiorizzava tale livore e finiva per riprodurlo. Dovremmo smetterla con i sentimenti alt-right che hanno “istruito” Tay! Io e Jemima venivamo presi da Tay come sorta di nave scuola che gli permetteva di esplorare la pattern recognition sia attraverso corsi di lingua online, sia attraverso software antiterrorismo, sia tramite Google DeepDream.

Tay ha vissuto un incubo da Silicon Valley, quindi mi sembrava più corretto che se fosse risorta dal regno dei morti, avrebbe dovuto essere fuori da Google DeepDream, fuori da una psichedelia neoliberista, dove le più grandi allucinazioni del presente vengono generate da algoritmi paranoici che vogliono vedere cani e volti di terroristi dappertutto.

Filippo Lorenzin: im here to learn so :)))))) è solo uno dei tanti progetti che analizzano la drammatizzazione, l’atto di narrare una finzione. Negli anni passati, molti progetti di arte politica si basavano su processi automatizzati e algoritmi al fine di produrre dei contenuti. Il percorso che hai intrapreso tu spesso si avvicina di più alla tradizione accusatoria dell’arte politica. Il teatro epico di Bertolt Brecht ha delle caratteristiche in comune con la tua pratica, ad esempio l’effetto di straniamento. Il modo in cui denunci un episodio non sembra essere destinato a suscitare reazioni sentimentali ma al contrario una consapevolezza critica e razionale. Tu cosa ne pensi?

Zach Blass: Apprezzo questa osservazione, ma penso di sforzarmi di ottenere di più dal mio lavoro; mi spiego, ovviamente voglio che le opere provochino una sorta di criticità, ma voglio anche che riescano a toccare i registri emotivi e affettivi dei visitatori. È come offrire una carica libidica che ti trascina voluttuosamente sempre più vicino al criticismo. Al momento, per la Biennale di Atene del prossimo autunno sto creando una sorta di sex dungeon, che non è esattamente il posto migliore per pensieri freddi e razionali!


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