Tra i produttori di suoni sperimentali più interessanti della scena internazionale, l’italiano Luigi Turra – sound artist, compositore riduzionista, elettroacustico, esperto di musica concreta – è un’anima pura e sensibile, un artista illuminato e profetico. Invitato a partecipare dal celebre musicista e curatore spagnolo Francisco Lopez, alla mostra collettiva Audiosfera. Audio Experimental Social, Pre e Post-Internet – che si terrà fino a gennaio 2021 presso il Reina Sofia di Madrid – Turra ha presentato un nuovo lavoro che esplora l’equilibrio acustico tra il silenzio e la percezione tattile del suono, temi centrali della sua ricerca. La mostra – ospitata da uno dei musei più famosi al mondo, che vanta una collezione prestigiosa di circa ventunomila opere di arte moderna – è costituita da circa settecento progetti sonori sperimentali avanzati, senza la presenza di oggetti o di immagini, con l’intento di colmare il vuoto storico e culturale intorno alle pratiche sonore dagli anni Ottanta fino a oggi.
L’iniziativa è onestamente di grande risonanza culturale, poiché dà vita a un nuovo spazio di riflessione e di discussione sui cambiamenti avvenuti non solo da un punto di vista artistico, ma soprattutto sociale, con l’avvento delle nuove tecnologie a partire dalla fine del XX secolo. Lopez ha creato un percorso espositivo che si sviluppa in sette listening room (munite di divani), proprio per poter facilitare l’ascolto dello spettatore a livello percettivo ed esperienziale, in modo profondo e prolungato, intorno a diversi topic: da genealogie a network, da mega accessibilità a cyborgizzazione, da esteogenetica a ricombinazione e diritti. L’opera di Turra, Tactile.Surface (2019), indaga in modo radicale e alchemico, l’utilizzo sia delle tecniche analogiche sia digitali per manipolare e riassemblare i suoni – registrati precedentemente in ambienti all’aperto o negli spazi chiusi della propria abitazione. Turra riesce a creare con grande perizia delle stratificazioni, che conferiscono al suono una qualità materica e scultorea, e allo stesso tempo mutevole e modificabile grazie all’autonomia del suono stesso.
Questo interesse per l’imprevedibilità dell’elemento sonoro, dunque della vita e di tutto ciò che ci circonda, è una costante nella speculazione dell’artista, da un punto di vista filosofico e scientifico. Così come la forte attrazione per la materia – che nasce dal background di Turra come pittore – e per le sue trasformazioni nel corso del tempo, attraverso processi di disgregazione o di sovrapposizione, che si possono attuare anche nella dimensione sonica.«Il suono nello spazio” – come afferma l’artista – altro non è che una negazione del silenzio puro», un silenzio che dovremmo ascoltare in modo più responsabile e consapevole, in una società sempre più attraversata da un eccessivo bisogno di gratificazione, attraverso sovra-stimolazioni sonore e visive. Ho chiesto a Turra di poter fare questa intervista e sono stata folgorata dalla sua lungimiranza e profondità. Forse si tratta dello “scultore di suoni” che più di ogni altro mi abbia catturato, in questo periodo imperscrutabile, per bravura e intensità.
Caterina Tomeo: Sei stato invitato da Francisco Lopez a partecipare alla mostra collettiva Audiosfera presso il Reina Sofia di Madrid. Come è nata questa collaborazione? Potresti descrivere la tua opera Tactile.Surface, realizzata in collaborazione con Christopher McFall?
Luigi Turra: Tactile.Surface è un progetto nato sotto il profilo discografico dieci anni fa, quando il disco è stato pubblicato dalla label belga Unfathomless. Francisco Lopez all’uscita del disco ha espresso grande attenzione verso questo lavoro, pertanto è stata una bellissima sorpresa apprendere che lo voleva includere in Audiosfera, assieme al curatore del Reina Sofia, rinnovando il suo interesse. Credo che Tactile.Surface rappresenti uno dei momenti più estremi del mio percorso discografico, poiché è nato come prodotto alchemico, atto a creare una relazione fisica tra due luoghi distanti geograficamente: da una parte i luoghi estesi e aperti del Colorado, dall’altra l’intimità del mio appartamento. Il modus operandi in cui io e McFall abbiamo scolpito il suono è stato radicale, visto che il processo si è basato sulla registrazione tramite nastro e sulla conseguente manipolazione dello stesso attraverso varie metodologie. Per esempio l’ossidazione dei nastri con vari solventi per corroderne letteralmente le molecole, oppure il seppellimento di una grande quantità di nastro registrato per poi assemblarlo una volta riesumato. Si è attuato un processo di progressive registrazioni, sovrapposizioni di layers e successivi deterioramenti, che conducevano lentamente a un “suono memoria”, un “suono detrito” mutevole, ma ancora estremamente fisico, quasi scultoreo – forse ancorato all’idea di innescare processi imprevedibili e in un certo qual modo generati dall’autonomia chimica del residuo.
Quello stesso concetto di residuo sonoro, sottilmente fisico e tattile, che ancora oggi ha molta importanza nella mia espressione. In occasione di Audiosfera ho presentato dunque una versione aggiornata del disco anche per ovviare a certe soluzioni sonore e compositive che dopo un decennio apparivano non completamente a fuoco, pur senza snaturare il senso e il clima della registrazione originale. La presentazione di Audiosfera a Madrid si è svolta come esposizione inedita di opere audio, scardinando il paradigma di esposizione di opere artistiche visive. Un’intera ala del Museo Reina Sofia è stata adibita, infatti, a spazio di ascolto dove poter vivere un’esperienza totalmente immersiva.
Caterina Tomeo: Dalla scelta del titolo, si evince una particolare attenzione alla percezione aptica della superficie e della materia sonica. Cos’è per te il suono?
Luigi Turra: È per certi versi una sorta di elemento scultoreo abrasivo, e di conseguenza come accennavo prima tattile, risultante dal contrasto tra assenza e densità, per delineare una forma che tramite un processo di lenta erosione, possa produrre la memoria di ciò che era. Credo che questo approccio sia più evidente a partire dal mio album Alea, pubblicato da Line nel 2016, in cui l’utilizzo della voce umana è resa significante al di là del significato, perché soggetta alla sottile disintegrazione della materia. In questa predisposizione estetica, si evince un legame molto forte con le discipline visive rispetto a quelle sonore, e per certi versi un legame inteso come prosecuzione del mio lavoro pittorico, ormai risalente a molti anni fa, nel quale era primario il linguaggio dell’erosione materica su ampie superfici monocrome, attraverso elementi tattili come sabbia, pigmenti puri e utilizzo di diversi collanti. Un procedimento attuato da stesure cancellate e successivi interventi di colore/materia a loro volta oggetto di ulteriori cancellazioni/erosioni. Sono da sempre molto attratto dalle superfici della materia, e da come semplici agenti atmosferici possano interagire sui metalli, sui legni e sui minerali di fatto trasformandoli. Negli ultimi anni ho riflettuto su come questa qualità scultorea sia presente nel suono della voce, nei suoi variegati timbri, e su come questo aspetto sia fortemente presente quando la voce viene registrata, in quanto ha una forte espressività anche se svincolata dal messaggio e dal significato. Indubbiamente ciò deriva dalla grande influenza che il lavoro di Emilio Isgrò ha avuto su di me e sul mio operare con le voci, in parte disgregandole fino a lasciarne sottili pulviscoli nel paradosso linguistico di mettere in evidenza certi elementi, proprio attraverso la loro cancellazione.
Caterina Tomeo: Sei un artista transdisciplinare che si muove con grande abilità tra il campo delle arti visive e le pratiche sonore. Quali sono le figure che hanno maggiormente influenzato il tuo pensiero e lavoro sull’arte?
Luigi Turra: È forse un paradosso, ma la maggior parte di queste figure non appartengono a contesti musicali. Direi che le influenze più determinanti sono derivate dai progetti architettonici di Tadao Ando, dalle opere di Jannis Kounellis, Joseph Beuys, Richard Long, Alberto Burri, Emilio Scanavino e dall’opera cinematografica di Andrej Tarkovskij. Ora a priori non saprei in che modo queste espressioni abbiano influenzato il mio percorso, poiché di rado mi soffermo ad analizzare gli elementi che producono determinati processi mentali. Sono semplicemente cose che ho sempre sentito mie e facenti parte della mia vita. Trovo, ad esempio, estremamente interessante quando si stabilisce una connessione con un artista durante l’età della formazione, cioè quando si è liberi da qualsiasi struttura culturale, scevri da qualsiasi preconcetto. A me è accaduto quando ero adolescente con i quadri del pittore tedesco Lyonel Feininger, con il quale ho stabilito istintivamente una forte empatia, seppur fossi privo di riferimenti storico-artistici per coglierne la vera poetica. Un’empatia analoga, anche se mosso da un bagaglio culturale differente, l’ho colta recentemente con l’opera del bravissimo scultore Simone Negri. Ancora oggi mi suggestionano ed ispirano maggiormente le opere di artisti visivi, perché è come se istintivamente vi associassi un suono.
Caterina Tomeo: La tua ricerca verte sulla pausa e sull’intervallo tra i diversi elementi sonori, evocando una estetica del vuoto e dell’invisibile, che affonda le radici nelle culture estremo orientali. Come sei entrato in contatto con la cultura giapponese – e cinese – che è diventata il filo rosso della tua indagine?
Luigi Turra: Si tratta di un’attrazione molto spontanea e naturale – che ho avuto già quando ero molto giovane – in particolare per la poesia Giapponese del XVII secolo. Le immagini spesso in equilibrio tra simbologia e vita reale, mi hanno permesso di accostarmi in un primo momento all’architettura Giapponese (quella popolare) e successivamente alla musica tradizionale, soprattutto quella eseguita con Flauto di bambù. Il bilanciamento tra assenza ed austerità presente in queste musiche, così come nelle architetture tradizionali, è diventato oggetto di una profonda ammirazione, che inevitabilmente è confluita nel mio pensiero espressivo. Queste influenze hanno indubbiamente dato un senso al mio lavoro ed hanno alimentato la mia attitudine naturale nel ridurre la forma, sia sonora sia visiva, fino a renderla spoglia da tutto ciò che è effettivamente ininfluente a livello strutturale, rendendo punto di forza l’elemento del vuoto e dell’intervallo, intenso come elemento rafforzativo del linguaggio. Da questo punto di vista l’accostamento agli artisti americani esponenti del minimalismo degli anni Cinquanta, è stato un passo piuttosto logico, soprattutto se penso all’impatto che hanno avuto su di me quadri quali quelli di Frank Stella e di Ad Reinhardt. Così come il lavoro di Franz Kline che nel suo segno gestuale aveva insita la potenza ideogrammatica della calligrafia Giapponese, che a sua volta mi ha spinto ad amare i grandi Maestri delle opere Shodo.
Caterina Tomeo: Tra le molteplici collaborazioni, quella con il bravissimo Fabio Perletta ha dato vita a produzioni sublimi, in particolare l’album titolato MA – che in giapponese significa appunto “intervallo”. Si tratta della rielaborazione di uno studio sonoro con registrazioni effettuate in vari progetti architettonici di Tadao Ando. Potresti descrivere questo lavoro focalizzato sull’esperienza dell’ascolto nello spazio (inesistente)?
Luigi Turra: MA è un progetto germogliato non tanto dalla musica, ma da lunghe riflessioni e dialoghi sul suono, avvenuti tra me e Fabio Perletta durante gli ultimi anni. Più precisamente è nato dall’esperienza dello spazio attraverso il suono, e da come il suono possa interagire in particolare con lo spazio architettonico. Ricordo che tantissimi anni fa – credo all’epoca non avessi più di tredici anni – ho visitato una mostra fotografica. La mia attenzione in quell’occasione è stata una sorta di sonorizzazione invisibile, come un alone sonoro etereo e impercettibile, che ad un certo punto ho pensato potesse esistere soltanto nella mia immaginazione, per quanto fosse dilatato e soffuso. Il suo essere tutt’uno con lo spazio espositivo mi ha colpito tantissimo. Questa analisi a livello di ascolto, è stata estremamente educativa poiché per la prima volta ho attuato, seppur in modo acerbo, una riflessione su come un suono possa essere presente ed assente allo stesso tempo, e come l’attenzione possa diventare strumento realmente attivo, se viene focalizzata su ciò che è percepito come assenza di un qualcosa e quindi di attesa tra intervalli di tempo estremamente lunghi.
Spesso mi sono trovato ad ascoltare il suono degli ambienti, delle abitazioni, così come quello delle grandi architetture, trovando interessante partire proprio da questi suoni presunti. Il suono degli spazi altro non è che una negazione del silenzio puro. C’e molto suono nell’esperienza architettonica e progettuale di Tadao Ando, una concezione di spazio-pieno che ha in sé l’idea di suono più prossimo al silenzio che io abbia mai incontrato. Ecco perché lo spazio sonoro in questo disco viene inteso come elemento architettonico e al contempo come contenitore di memoria, o più precisamente come luogo transitorio per una immersione intima, meditativa, che prende in considerazione anche la condizione del rapporto ombra-luce (caratteristico nei progetti del Maestro Giapponese) come parametro sensoriale importante, quanto quello del rapporto tra superfice fisica e spazio aperto. Con MA di fatto abbiamo cercato di trattare l’architettura come se fosse uno strumento per comporre. Uno spazio compositivo che ha in sé quella qualità aptica di cui parlavamo prima. È architettura tattile, infatti, quella di Tadao Ando, fatta di cemento a vista e di ardesia. È tattile e materica nel momento in cui la superfice di pietra grezza si relaziona in modo del tutto naturale con la quiete degli spazi vuoti.
Potrei dire che MA (e credo che Fabio possa essere d’accordo) rappresenti una scelta estetica di assenza, dove il contesto diventa la principale fonte dei suoni – visto che ogni singolo suono è stato colto all’interno degli spazi progettati da Ando tra Germania, Italia, Francia e Giappone – e al tempo stesso un amplificatore naturale in cui silenzio e rumore diventano vivi e pulsanti. Di MA abbiamo concepito anche un’installazione sonora e una durational performance che avrebbero dovuto essere presentate a Milano ad ottobre, ma l’emergenza Covid ha fatto slittare tutto ad altra data da definirsi. Sia l’installazione che la performance hanno lo scopo di far vivere lo spazio per mezzo del suono e al contempo di far vivere il suono attraverso lo spazio. La performance in modo particolare opererà una trasfigurazione acustica dello spazio in cui verrà ospitata, alternando concetti apparentemente antitetici come forma e non-forma, suono e silenzio, prossimità e distanza, suono riprodotto, suono creato in tempo reale e suono pre-esistente nell’ambiente al fine di modellare lentamente la percezione del luogo performativo.
Caterina Tomeo: Pensi sia importante recuperare una capacità di ascolto più consapevole e responsabile, attraverso nuove dimensioni uditive e immersive nel futuro?
Luigi Turra: E’ innegabile che la possibilità di ascoltare una grande quantità di musica – soprattutto grazie alle piattaforme streaming – abbia concesso un carattere esplorativo senza precedenti, ma sono fermamente convinto che spesso questa potenziale quantità diventi espressione di bulimia musicale, nella quale viene vanificata una seria esperienza di ascolto e di approfondimento. Credo in un certo senso che i nostri meccanismi percettivi siano orami anestetizzati, meno capaci di focalizzarsi su qualcosa di preciso e di sondarne con calma ogni dettaglio. Siamo piuttosto alla ricerca di input sensoriali sempre più massimalisti, che producono una sorta di massiccio disorientamento culturale. Esiste molto più materiale da ascoltare rispetto al tempo che abbiamo a disposizione o che possiamo dedicare ad esso.
Purtroppo si tratta di un rapporto completamente sbilanciato. D’altronde l’incalcolabile proposta del web altro non è che una ragnatela in cui il ragno stesso, percependo la vibrazione delle prede intrappolate, si lascia morire di fame poiché incerto sulla direzione da intraprendere. Auspico che il tempo concesso all’ascolto possa aumentare, in termini di qualità e quantità, perché il recupero del tempo è la chiave per il recupero della nostra consapevolezza, e allo stesso temo costituisce la palestra in cui essa si rafforza. Io non mi considero un grande esploratore dello streaming, visto che la mia esperienza d’ascoltatore negli ultimi anni sì è focalizzata su una rada manciata di dischi ai quali dedico davvero molta attenzione. Un atteggiamento esplorativo che secondo me non è necessariamente legato alla continua ricerca di differenti esperienze di ascolto, ma alla dimensione del perlustrare ciò che è già sentito, scoprendo dettagli nuovi che sono fonte di grande gratificazione. Ma forse tutto questo è anche legato ad un aspetto generazionale, poiché quando mi sono interessato attivamente alla musica, non c’era modo di avere tutto e subito, pertanto avere il disco tanto desiderato significava ascoltarlo per un numero incalcolabile di volte.
Caterina Tomeo: Nonostante il tuo lavoro, in my opinion, sia fortemente spirituale, hai affermato che non sei interessato ad una esperienza trascendentale, ma alla frantumazione brutale degli equilibri percettivi dello spettatore. Qual è il ruolo del pubblico nelle tue installazioni e live performance?
Luigi Turra: Di fatto non mi presento quasi mai al pubblico (almeno quando mi è possibile) in occasione delle mie installazioni e in modo paritetico non eseguo (se non in rarissimi casi) concerti o live performance. Tuttavia sono molto interessato nel focalizzare il puro atto di ascolto dello spettatore su improvvisi accumuli di rumore in crescendo, che lascino poi spazio a squarci di silenzio improvviso. Grazie a frantumazioni improvvise del suono, nel suo rapporto indeterminato tra rumore-silenzio, si possono veicolare tempi di attesa, strappi e ripartenze sonore improvvise che in un certo qual modo possono destabilizzare il flusso di attenzione dell’ascoltatore. Negli ultimi progetti installativi ho cercato inoltre di estremizzare questo concetto tramite riproduzioni sonore totalmente aleatorie, di fatto costruite in tempo reale attraverso miriadi di piccoli frammenti di suono/silenzio/rumore stilizzati, che si compongono in modalità assolutamente indeterminata e casuale, in modo da destabilizzare la mia stessa percezione del suono in relazione allo spazio espositivo.
Questa è indubbiamente un’influenza derivante da un approccio indeterminato in parte derivante dallo Zen, che nel mio lavoro si traduce nel tentativo di uscire dallo schema del prefissato, per permettere di svincolarsi dai concetti di scelta e di decisione. La mancanza di un ordine prefissato è un modo sottointeso di accentuare l’attenzione, perché ogni accostamento sonoro delegato all’aleatorietà sarà nel tempo raro e unico, se non irripetibile. Nel caso specifico dell’installazione Alea c’era un corrispettivo visivo, poiché presentavo in quell’occasione una grande quantità di frammenti di testo tratti da un romanzo di Marguerite Duras, letteralmente fatto a brandelli, che il visitatore stesso era invitato a ricomporre/riassemblare pescandone porzioni in modo casuale al fine di creare nuovi e differenti messaggi. In questo caso quindi il pubblico aveva un ruolo attivo, un invito a toccare con mano l’opera per farla in un certo senso propria.
Caterina Tomeo: Durante il lockdown hai coinvolto sette artisti nel progetto Fukinsei Variations, il cui ricavato è stato devoluto come supporto contro la diffusione del COVID19 in Italia. Chi sono gli artisti coinvolti in questa nobile iniziativa?
Luigi Turra: Il progetto Variations è nato su iniziativa di Yukitomo Hamasaki, il gestore della label giapponese mAtter, sono stato davvero felice di accoglierlo. Gli artisti che si sono prodotti in queste variazioni sono Richard Chartier, France Jobin, David Sani, Kenneth Kirschner, Tomas Philips, Dale Lloyd e Fabio Perletta. In effetti si tratta di figure che da anni sono coinvolte nella mia vita, rivestendo una grande importanza per affinità di intenti poetici – seppur con divergenze linguistiche ed espressive. Il risultato delle singole variazioni come prevedevo è stato piuttosto radicale ed è stato interessante osservare come alcuni dei nomi coinvolti, abbiano operato prescindendo dai loro stilemi per prodursi in decostruzioni-ricostruzioni realmente sorprendenti e talvolta (per me) spiazzanti. Il continuo riutilizzo delle stesse sonorità è un aspetto che mi interessa molto e che io stesso pratico quasi sempre perché sono convinto che gli elementi di sottofondo di un lavoro possano diventare elementi principali in un progetto successivo se riutilizzati con approcci differenti. Personalmente trovo molto più interessante questo lavoro rispetto al Fukinsei originale. Recentemente ho lavorato con Richard Chartier, suonando un breve pezzo di piano nel suo recente Leaving everything to be desire uscito a nome Pinkcourtesyphone e pubblicato da Room40.
Caterina Tomeo: Siamo alle porte, forse, di un nuovo isolamento. Come stai vivendo questo momento di forte autoritarismo e controllo degli spazi di libertà? Alcuni giorni fa parlavamo dei nostri figli e del disinteresse verso la cura dei giovani, che dovrebbero essere tutelati e protetti maggiormente…
Luigi Turra: Sì, la mia preoccupazione più grande è rivolta ai ragazzi. Di come realmente ci sia scarsissima analisi e attenzione di quello che questo blocco (che di fatto si traduce in empasse mentale, non soltanto fisico) comporta e che in modo estremamente critico comporterà in futuro. In modo particolare penso ai bambini più piccoli per i quali l’isolamento e la distanza sociale assume fin d’ora la valenza di una inquietante abitudine. La tutela per le classi più deboli non è minimamente presa in considerazione dalle classi dirigenti e lo sarà sempre meno anche in futuro. La politica abituata da sempre a tergiversare, non sa prendere le decisioni giuste nel momento esatto in cui deve farlo. Inoltre con disappunto verifico ogni giorno che nessuno mai chiede alla Cina di assumersi la responsabilità o perlomeno chiedere un chiarimento a proposito di questo disastro.
Caterina Tomeo: Hai realizzato recentemente Small Divinities, un’opera ibrida nata dalla collaborazione con lo scrittore Barry G. Nichols. Un libro con Cd in edizione limitata, che affianca il suono alle parole, più che alle immagini. Hai creato dei “non luoghi sonori” che, come accennavi in una intervista, evocano geografie immaginarie con “una qualità emotiva arcaica”. È un lavoro sulla memoria (non visiva)?
Luigi Turra: Small Divinities è un progetto che nasce dal concetto di memoria visiva, e solo nell’aspetto sonoro assume invece un ruolo di memoria non visiva. In questa opera editoriale Barry G. Nichols ha composto una serie di testi (che lui non definisce poetici, ma piuttosto incantations) ispirati a oggetti in bronzo e osso trovati a Flag Fen, un sito dell’età del bronzo a est di Peterborough in Inghilterra. Oggetti riportati alla luce quindi e pertanto già carichi di una valenza simbolica legata alla memoria spirituale, poiché erano oggetti legati a culti religiosi arcaici con offerte votive, forse propiziatorie. In un certo senso i testi di Barry G. Nichols per Small Divinities affrontano il tema della trasformazione, poiché una volta lasciati incustoditi, questi antichi insediamenti sono stati consumati lentamente, modificati dagli agenti del tempo e dagli agenti atmosferici. Curioso, ma nemmeno troppo, che ci sia attinenza con quanto discusso nelle precedenti domande.
Questa è se vogliamo una forma di alchimia e un modo per ribadire che la vita è un continuo momento di transizione. Per questa pubblicazione editoriale Nichols ha fatto una riflessione circa l’associazione tra suono e parole, dunque mi ha coinvolto invitandomi a creare una sorta di colonna sonora per la lettura, che avesse una certa qualità atmosferica ed evocativa. Dopo una lunga serie di riflessioni su come concretizzare questo pensiero sonoro, ho coinvolto un quartetto d’archi del conservatorio di Vicenza, per produrre una lunga serie di improvvisazioni e per registrare le partiture che avevo preparato, con l’obbiettivo di trattare quanto ottenuto con un modus operandi non dissimile da quanto fatto per Tactile.Surface. Ovvero attuando una disgregazione sonora delle fonti originarie, al fine di ottenere una sorta di rarefazione, in cui si possa percepire delle esecuzioni originali solo la memoria e il residuo, mantenendo viva e presente la vibrante qualità degli strumenti utilizzati. Che cosa accade quando di un suono conserviamo solo il ricordo di ciò che era in origine? La musica creata per Small Divinities è in parte la risposta a questa domanda che mi sono posto. Osservare oggi quello che in un certo senso è una forma utopica oramai perduta.
https://unfathomless.bandcamp.com/album/tactile-surface
https://lineimprint.bandcamp.com/album/alea
https://matterlabel.bandcamp.com/album/fukinsei