Spreadable Media è l’ultimo libro del professore della University of South California e teorico della cultura della partecipazione, Henry Jenkins, scritto assieme ai due strateghi digitali Sam Ford e Joshua Green.
La copertina del libro, per una volta, è molto comunicativa e spiega subito il contenuto: una serie di taraxacum officinalis (denti di leone, o soffioni) con le spore in movimento. In altri termini, i prodotti dei media digitali, secondo Jenkins, sono come i denti di leone, soffiandoci addosso si diffondono nell’aria. Ma non come dei virus. Una delle qualità migliori del libro è proprio questa: mettere in discussione la retorica dominante sulla circolazione dei testi mediali come virus. Un video su You Tube, un articolo di giornale postato su Twitter, non si diffondono per contagio, ma per una decisione consapevole degli utenti che li fanno circolare.
L’idea dominante del marketing virale e del web 2.0 è che basti ideare una campagna “virale”, produrre un “meme” che funziona e questo si replicherà automaticamente come un virus. La differenza tra un virus e un testo mediale è che il virus ha inscritto nel suo codice l’obiettivo di replicarsi il più velocemente possibile, mentre un testo mediale è un prodotto culturale che si replica solo attraverso l’azione umana. Non è una questione di lana caprina.
Nella concezione dei media come virus è sottintesa una visione degli utenti come consumatori che vengono passivamente contagiati e non possono far altro che trasmettere il virus ai propri vicini. La metafora dell’infezione e del contagio sovrastima il potere dei media e sottostima quello del pubblico. Nell’idea di Jenkins invece la trasmissione da un nodo all’altro della rete, da un utente all’altro, avviene perché utenti attivi decidono autonomamente di far circolare alcuni contenuti e non altri.
Le persone prima di diffondere un contenuto devono affrontare molte decisioni: questo contenuto vale la pena condividerlo? Potrebbe interessare a qualcuno nello specifico? Comunica qualcosa della mia identità, dice qualcosa di me o delle relazioni che ho con gli altri? Quale è il modo migliore per diffonderlo? E’ meglio se lo condivido così o devo accompagnarlo con un messaggio?
L’idea di fondo del libro è che siamo di fronte a un cambio di paradigma della forma in cui i contenuti culturali circolano all’interno di una società. Sta emergendo un modello ibrido di circolazione, frutto del mix tra strategie istituzionali e dall’alto (le corporation mediali che decidono cosa produrre e quando lanciare un film/disco/serie tv-radio/libro-bestseller/evento) e tattiche dal basso. Il controllo sui contenuti prodotti dai media non è più saldamente in mano ad essi, ma è negoziato con il pubblico dei media, oggi connesso in reti e capace di stabilire attraverso la condivisione in rete la popolarità o l’insuccesso di un contenuto.
Come emerge in modo chiaro dal libro, la spreadability è quindi la carattersitica che hanno alcuni testi mediali di essere adatti alla diffusione. Un film che esce nelle sale di tutto il mondo ma non è disponibile in streaming online e non può essere remixato non è spreadable e si presta alla pirateria. L’esempio più classico di cosa significa questa spreadability è il caso di Susan Boyle, aspirante al programma televisivo inglese “Britan got Talent”. Le persone hanno giudicato quell’audizione così straordinaria che il video su You Tube di quel provino è stato condiviso da milioni di persone, e passato di mano in mano, ha raggiunto 77 milioni di visualizzazioni senza l’aiuto di alcuna strategia comunicativa dall’alto.
La cultura digitale, secondo l’autore, è più caratterizzata da quelli che chiama gli user-circulated content, piuttosto che dai tanto abusati user-generated content. Lo spostamento di fuoco, dai contenuti generati dagli utenti, a quelli fatti circolare da essi, ci aiuta ad avere un quadro più ampio e realistico delle proprietà della cultura digitale. Ovviamente questa cultura della condivisione ha anche delle ricadute poco piacevoli per le industrie creative. La capacità del pubblico di condizionare la circolazione dei loro prodotti a volte va in contrasto con le strategie economiche delle aziende dei media: quando un film appena uscito al cinema o un disco appena lanciato iniziano a circolare illegalmente sulle piattaforme peer-to-peer o in streaming non autorizzati, la spreadability si trasforma in pirateria. Tuttavia, come emerge da pagina 16 del testo, “la pirateria è più spesso la conseguenza dell’incapacità aziendale e strategica delle corporation mediali di rendere disponibili i propri contenuti in tempi e modi desiderabili dal pubblico”.
L’ultimo lavoro di Henry Jenkins non rappresenta niente di nuovo rispetto alle sue precedenti pubblicazioni, ma ne è l’ovvia prosecuzione, il tentativo di continuare a fornire strumenti di lettura della cultura digitale in evoluzione. Il punto di vista dell’autore rimane lo stesso dei suoi primi articoli che lo resero famoso – “Textual Poachers: Television Fans & Participatory Culture”, 1992: il pubblico dei media è fatto anche di individui che si appassionano ai prodotti culturali, che vogliono entrare in dialogo con essi, vogliono potersene appropriare, remixarli, usarli per creare nuovi legami sociali e per negoziare la propria identità. Se i produttori di contenuti non gli permettono di fare ciò, il pubblico attivo sarà costretto ad entrare in “clandestinità”, diventare un pirata.
La lezione di Jenkins è, parafrasando un vecchio slogan hacker, questa: “information wants to be streamed”. I contenuti vogliono essere diffusi, spreaded, streamed. Il consumo di contenuti culturali avviene in un ambiente sociale. E’ anacronistico in questo ecosistema fermare la circolazione dei contenuti culturali, così come lo è fermare la libera circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei servizi. Come sostiene anche il sociologo Barry Wellman nel suo recente Networked. Il nuovo sistema operativo sociale (Guerini e Associati, 2012), i contenuti culturali oggi hanno una nuova vita sociale, grazie alle reti digitali sulle quali viaggiano.
In conclusione, il limite di Henry Jenkins è sempre il solito: enfatizza una cultura partecipativa basata principalmente non sulla creazione di contenuti originali dagli utenti, ma sull’appropriazione dei testi mediali da parte dei fan, anche se in questo libro bisogna dire che affronta le critiche dei teorici dello sfruttamento del lavoro digitale degli utenti e quindi dà conto del lato oscuro della partecipazione in rete, che crea nuovo valore per le aziende mediali.
Chi ha della partecipazione una visione massimalista, come Nico Carpentier (autore di Media and Participation. A site of ideological-democratic struggle, Intellect 2011), non è d’accordo con il riduzionismo di Jenkins. Per Carpentier partecipare non significa soltanto interagire con un testo mediale e produrre engagement ma piuttosto significa dare la possibilità al pubblico di prendere parte ai processi decisionali, creare contenuti insieme al pubblico o addirittura farlo partecipare alle decisioni editoriali.
In ogni caso, Spreadable Media rimane un libro molto ben scritto e molto utile per capire il valore sociale della condivisione dei contenuti. Un libro che tutti gli editori di media, soprattutto italiani, dovrebbero leggere per convincersi una volta per tutte, che potranno sopravvivere alla tempesta perfetta solo se libereranno sempre più i loro contenuti, solo se lavoreranno duro sulla costruzione di comunità forti di lettori/ascoltatori/spettatori. Saranno queste comunità a farsi carico della circolazione dei contenuti migliori.
E per esempio, sarebbe ora che il grande archivio audio e video della Rai fosse facilmente accessibile e condivisibile sotto licenze Creative Commons. Perché se un contenuto non è spreadable, come dice Jenkins, è un contenuto morto.