Se intendiamo il design come una serie di processi con una prospettiva di impatto sulla società e non solo come una serie di pratiche con un obiettivo di progettazione di oggetti d’uso da prodursi in serie secondo forme esteticamente valide, è evidente che la possibilità di plasmare il corpo umano con gli strumenti della ricerca tecnologica e scientifica abbia un potenziale enorme per il designer contemporaneo.

Come suggerisce il designer e teorico Tomàs Maldonado già alla fine dello scorso millennio “sarebbe un errore credere che il nuovo corpo sia da giudicarsi artificiale solo ed esclusivamente per la sua capacità di incorporare artefatti elettronici nel suo assetto strutturale. Ci sono altri elementi che svolgono oggi un ruolo, in proposito, non meno importanti. Alludo, per esempio, all’ingegneria genetica” [1]. Così come sarebbe sbagliato limitare il concetto di “protesi” a una visione tecnicistica e medicale, non considerando l’impatto che essa potrà avere nel prossimo futuro non solo in termini “preastazionali” ma in termini che, sempre Maldonado, definisce “conoscitivi”[2]. Gli ambiti del design (in particolare l’Interaction Design, il fashion design, i wearables e i territori del design biomimetico, di cui parleremo in questo paragrafo) si trovano di fronte a nuove sfide che pongono sempre più il corpo al centro della loro ricerca. Come già accaduto in passato, del resto, anche se forse mai all’interno di uno scenario in tale veloce e imprevedibile evoluzione da un punto di vista tecnico, scientifico, sociale ed estetico. Un design che, da un lato deve abbandonare il suo approccio antropocentrico, legato quindi ai bisogni e ai desideri dell’essere umano in modo primario rispetto al contesto che lo circonda, per sposare una filosofia che i teorici e designer Giorgio Casoni e Flaviano Celaschi definiscono “antropocenica”, capace cioè di avere impatto sul reale, nella sua complessità e stratificazione, al di là del concetto di funzione e di forma, oltre quel paradigma “che egli stesso ha pesantemente contribuito a creare”[3].

Il medical design come framework scientifico e culturale

Sebbene a partire dagli inizi del Novecento il corpo umano sia al centro di una serie di riflessioni a livello identitario, sociale, politico che hanno portato alla luce movimenti culturali e filosofici, ma anche artistici e umanistici, di importanza fondamentale per la comprensione delle tesi che sottendono questa ricerca, è stato evidenziato da alcuni studiosi che, in antitesi, il corpo sia stato un elemento di riflessione progettuale sostanzialmente ignorato nella storia del design. Per lo meno fino a quella stagione in cui l’evoluzione tecnologica e scientifica ha spalancato le porte a un’indagine che “si dispiega nella distanza fra il corpo anatomico e il corpo culturale…uno spazio nel quale il corpo è indagato nel suo ambiente, in relazione alle tecniche, alla cultura materiale e ai suoi significati simbolico-culturali[4]. Come suggerisce l’architetto Massimiliano Ciammaichella e come già emerso nel paragrafo precedente, la separazione tra natura e artificio è un concetto superato dalla contemporaneità.

Il corpo naturale e quello artificiale sono una cosa sola e vanno studiati da un punto di vista progettuale e culturale, in dialogo con altri ambiti disciplinari. Ad esempio, attraverso la realizzazione di oggetti tecnologici indossabili in grado di registrare e trasferire dati biometrici del corpo. O ancora, per mezzo di protesi capaci di sostituire o aumentare parti organiche e sensoriali, di tessuti intelligenti in grado di aprire ponti di dialogo tra uomo e altre specie. Nuove tipologie di interfacce uomo-computer che rendono sempre più necessario “capire come queste tecnologie sono progettate per essere usate e veicolate dal corpo e come il design possa determinare il miglior rapporto possibile fra le tecnologie stesse e chi le utilizzerà”[5]. Una condizione che nasce da una graduale consapevolezza degli esseri umani riguardo la superabilità dei confini del proprio corpo, la cui trasparenza è sempre più manifesta grazie a tecnologie di indagine e scansione che lo analizzano fino ai suoi territori più interni e nascosti [6]. Il corpo non è più “limitato” dai confini della pelle che separa l’esterno da un interno sostanzialmente sconosciuto, ma è piuttosto “circoscritto” da una membrana di comunicazione e di raccolta dati. Il corpo, in tutte le sue manifestazioni, è sempre più accettato, celebrato ed estetizzato in quello che Leopoldina Fortunati chiama “l’immaginario umano di una specifica famiglia di figure mostruose” ricco di figure archetipiche del corpo come macchina[7]. Come già evidenziato, è l’ambito medicale il framework scientifico e culturale che ha rappresentato negli ultimi trent’anni la chiave di accesso alla penetrazione del corpo, alla sua invasione tecnologica, alla sua sempre più profonda modellazione grazie al contributo della scienza[8]. Nel nome della prevenzione, della diagnostica e della cura, il corpo è osservato, indagato e analizzato nei suoi meccanismi biologici, genetici e neuronali più fini.

Il Medical Design è da anni uno degli ambiti di progettazione più importanti per realizzare non solo oggetti diagnostici ma vere modalità di relazione e interazione tra corpo e strumento. Anche se da solo non è sicuramente in grado di gestire la complessa e spesso invisibile, stratificazione di messaggi biologici, culturali e sociali che il corpo umano scambia con il contesto, ha comunque contribuito alla figurazione di quelli che Ciammaichella indica come “due diversi tipi di cyborg: il riparatore e il potenziato”. Appare quindi quanto mai necessaria una sua integrazione con altri ambiti del design corpo-tecnologia-scienza, in cui il desiderio di “superare i normali processi o persino acquisire nuove funzioni che non erano originariamente presenti” suggerisce nuove strategie per unire “la propria condizione naturale all’artificiale, per ibridarsi nella realizzazione della macchina perfetta” [9].

Verso un design postumano

Come suggerisce il titolo di un articolo della piattaforma online “Fast Company”, media brand di riferimento in campo economico con un importante focus su innovazione, tecnologia, creatività e design, un mondo postumano è in arrivo e il design non ha mai avuto un’importanza così grande. All’interno del pezzo si avanza l’idea che i progettisti dovranno progressivamente “trascendere i limiti del design centrato sull’uomo, dato che le nostre vite potrebbero dipendere da questo”[10]. Al di là di qualsiasi retorica, è intuibile pensare che i designer giocheranno un ruolo cruciale nel plasmare il nostro futuro, rispondendo alle esigenze di una società che chiederà con crescente frequenza la progettazione non solo di strumenti, ma anche di nuove modalità di relazione tra il sé organico e l’elemento inorganico. I progettisti saranno chiamati a gestire le implicazioni che questa relazione determinerà a livello identitario e sociale, modulando le possibilità di interazione tra essere umano e contesto circostante.

E’ intuitivo pensare che la progettazione delle interfacce e dei protocolli che regolano il corpo umano in rapporto a una macchina o un’altra specie, dovranno essere riformulati secondo regole nuove e non ancora del tutto codificate. I designer dovranno valutare sempre più un approccio progettuale che sappia realizzare modelli in grado di mettere differenti tipologie di intelligenze in dialogo. Man mano che l’intelligenza adattiva dei sistemi informatici crescerà le pratiche di progettazione che enfatizzano gli aspetti umani del design dell’interfaccia “si estenderanno oltre la prospettiva unilaterale dell’usabilità delle macchine, verso una relazione reciproca che valorizzi i sistemi intelligenti come partner”[11], nell’indagine di quello che la teorica Keller Easterling chiama more than human che non intende rinnegare le basi del tradizionale Human-Centered Design (HCD) ma che piuttosto le moltiplicherà in ambiti differenti. Per poter contare su molte diverse istanze progettuali, piuttosto che su una sola[12].  Mentre regoliamo le nostre comprensioni fondamentali della conoscenza umana e non umana e dei modi di essere nel mondo, è probabile che svilupperemo metodi di progettazione e pratiche che affronteranno al meglio le sfide cui faremo fronte in quanto esseri viventi inseriti all’interno di un contesto con il quale creare ponti di dialogo trasformativi.


[1] T. Maldonado, “Corpo: artificializzazione e trasparenza”, in L. Fortunati, J. Katz, R. Riccini (a cura di), Corpo futuro. Il corpo umano tra tecnologie, comunicazione e moda, Franco Angeli, Milano 1997, pag. 26.

[2] Ibidem.

[3] G. Casoni, F. Celaschi, “Il designer allo specchio”, in G. Casoni, F. Celaschi (a cura di), Human Body Design. Corpo e progetto nell’economia della trasformatività, Franco Angeli, Milano 2020, p.12.

[4] R. Riccini, “Artificio e trasparenza. Il corpo sulla scena degli oggetti”, in M. Ciammaichella (a cura di), Il corpo umano sulla scena del design, Materiali IUAV, Il Poligrafo, Padova 2015, pp. 13-15.

[5] M. Ciammaichella, R. Riccini, in M. Ciammaichella (a cura di), op.cit, p. 7.

[6] M. Ciammaichella, “Rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica”, in M. Ciammaichella (a cura di), op.cit, p. 196.

[7] L. Fortunati, “Verso il corpo artificiale”, in L. Fortunati, J. Katz, R. Riccini (a cura di), op. cit, p. 98.

[8] Ibidem, p. 96.

[9] M. Ciammaichella, “Rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica”, in M. Ciammaichella (a cura di), op.cit, pp. 196-209.

[10] H. Faste, A Post-Human World Is Coming. Design Has Never Mattered More, in “Fast Company”, 6 Settembre 2016, Mansueto Ventures, https://www.fastcompany.com/3060742/a-post-human-world-is-coming-design-has-never-mattered-more

[11] Ibidem.

[12] K. Easterling, No You’re Not, in B. Colomina, N. Hirsch, A. Vidokle, M. Wigley (a cura di), “Superhumanity”, Istanbul Design Biennial “Are We Human?”, 22 Ottobre – 20 Novembre 2016, E-Flux Architecture, https://www.e-flux.com/architecture/superhumanity/66720/no-you-re-not/

[13] L. Forlano, Posthumanism and Design, in “She Ji: The Journal of Design, Economics, and Innovation”, vol. 3, n. 1, Tonji University Press, Shanghai 2017, pp. 16-29.

[14] F. Bergamo, Verso un’estetica ecologica per il design dell’interazione, Università IUAV di Venezia, Scuola di Dottorato, XXV Ciclo, 2010-2012, p. 5.

[15] B. Moggridge, Designing Interactions, MIT Press, Cambridge (MA) 2006.

[16] B. A. Myers. A Brief History of Human Computer Interaction Technology, in “ACM Interactions”. vol. 5, n. 2, Association for Computing Machinery, New York 1996, pp. 44-54.

[17] P. Dourish, Where The Action Is: The Foundations of Embodied Interaction, MIT Press, Cambridge (MA) 2001, p. 5.

[18] F. Bergamo, Verso un’estetica ecologica per il design dell’interazione, cit., pp. 12-18.

[19] L.E. Udsen, A.H. Jørgensen, The Aesthetic Turn: Unravelling recent aesthetic approaches to human-computer interaction, in “Digital Creativity”, vol. 16, n. 4, Routledge, Londra 2005, pp. 205-216.

[20] D. Svanæs, Interaction Design for and with the lived body: Some implications of merleau-ponty’s phenomenology, inACM Transaction on Computer Human Interaction”, vol. 20, n. 1, art. n. 8, Association for Computing Machinery, New York 2013, pp. 8-30.

[21] P. Dourish, Embodied Interaction: Exploring the Foundations of a New Approach to HCI, Xerox Palo Alto Research Center, 1999, p.8.

[22] P. Dourish, Where The Action Is: The Foundations of Embodied Interaction, cit., p. 22.

[23] S. Lee-Cultura, M. Giannakos, Embodied Interaction and Spatial Skills: A Systematic Review of Empirical Studies, in “Interacting with Computers”, vol. 32, n. 4, Oxford University Press, Oxford, 2021, pp. 331-332.

[24] D. Svanæs, Interaction Design for and with the lived body: Some implications of merleau-ponty’s phenomenology, inACM Transaction on Computer Human Interaction”, vol. 20, n. 1, art. n. 8, Association for Computing Machinery, New York 2013, pp. 8-30.

[25] H.L. Dreyfus, Husserl, Intentionality and Cognitive Science, MIT Press, 1982 e P. Dourish, Where The Action Is: The Foundations of Embodied Interaction, MIT Press, Cambridge (MA) 2001, p. 104.

[26] P. Dourish, Where The Action Is: The Foundations of Embodied Interaction, cit., p. 104.