Incrociando ricerca scientifica e artigianalità, aurèce vettier è un collettivo di artisti fondato nel 2019 da Paul Mouginot e Anis Gandoura, con l’obiettivo di capire come riuscire a ottenere interazioni pertinenti e significative con le macchine e gli algoritmi al fine di oltrepassare i limiti dei processi creativi. La sperimentazione è un fattore cruciale del loro lavoro; le opere sono spesso il risultato di un approccio creativo e rigoroso che seleziona, rimescola e genera nuove forme. Osservando le loro opere, il visitatore non può far altro che rievocare la fantasia e la precisione degli erboristi medievali che catalogavano le piante e i fiori in manoscritti copiati a mano in tutto il mondo conosciuto.

aurèce vettier è formato da Anis Gandoura e Paul Mouginot, due ingegneri la cui expertise in materia di tecnologia di IA fornisce una prospettiva unica sui limiti e i vantaggi di lavorare con l’IA per fare arte. Entrambi vivono e lavorano a Parigi, Francia.

Filippo Lorenzin: Paul, al giorno d’oggi non è così comune trovare collettivi di creativi che lavorano insieme, soprattutto nel campo della cosiddetta “new media art”. Potresti raccontarmi come avete iniziato la collaborazione e che cosa significa per entrambi lavorare come collettivo? Per esempio, come condiziona il processo creativo?

Paul Mouginot: aurèce vettier è a tutti gli effetti un collettivo di artisti che ho fondato nel 2019 con Anis Gandoura. Questa struttura ci aiuta ad attrarre esperti e artigiani in base alla complessità del progetto. In un’epoca in cui la collaborazione è sempre più importante, noi la vediamo come un esperimento organico. Ci conosciamo da tanto tempo e ci siamo seguiti a vicenda nelle nostre prime avventure professionali. Nel 2016 abbiamo co-fondato una società di IA che sfrutta la tecnologia del riconoscimento di immagini nel settore della moda. Prototipando, modificando e implementando tanti modelli di IA, abbiamo iniziato a collaborare con alcuni esperti e creativi che operavano in questo settore al tempo.

Filippo Lorenzin: L’approccio che utilizzate per sviluppare e realizzare opere d’arte mi ricorda come hanno funzionato per secoli i laboratori d’arte: sotto un unico nome si potevano trovare molti artisti specializzati nel proprio settore che lavoravano insieme a tanti e vari pro-getti.

Paul Mouginot: Proprio così, è questo che cerchiamo di raggiungere ad aurèce vettier. Non è uno studio in cui decido tutto io in quanto direttore artistico. È piuttosto un gruppo sperimen-tale. In occasione della nostra prossima mostra a Parigi, che si terrà a dicembre 2021, abbiamo invitato Varhat, un sound artist d’avanguardia, per creare insieme un’installazione generativa e interattiva. Il nostro libro di poesie è stato concepito da un grafico di grande talento di nome Damas Froissart. In quanto alla mostra, stiamo collaborando con storici dell’arte come Zsofi Valy-Nagy, che attualmente è impegnata a scrivere la tesi di dottorato sull’attività di Vera Molnar. È più facile per me lavorare con artisti così diversi e talentuosi creando un’atmosfera simile a quella di un laboratorio. Aiuta a instaurare collaborazioni ben equilibrate. E poi così emergono idee più profonde.

Filippo Lorenzin: Data l’importanza che riveste il mercato della crypto art sull’autorialità e sull’unicità, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa del ruolo giocato dai personaggi di culto nell’arte digitale?

Paul Mouginot: L’autorialità e l’unicità sono davvero valori specifici del mercato della crypto art? Direi che a causa del decentramento, che è il vero concetto dietro la crypto art, emergono tre fenomeni chiave. Il primo è l’effetto di una scarsa attenzione internazionale. Da quando si sono ridotti gli ostacoli all’ingresso, un numero significativo di attori si sta affermando nello spazio: artisti, collezionisti, curatori. Tuttavia, la quantità di tempo da passare su Twitter o leggendo le pubblicazioni artistiche, ascoltando e scoprendo nuovi artisti è limitata, anche se si tratta di ventiquattro ore al giorno; la quantità complessiva di attenzione è scarsa. Perciò, all’interno di questa rete, un’attenzione maggiore è data naturalmente ai “pionieri”, ai collezionisti di spicco, alle celebrità che arrivano nello spazio o alle persone con storie eccezionali. Li chiameremmo i “nodi del sistema”, e crediamo che il loro potere di influenza possa crescere nel futuro, riproducendo i meccanismi del mondo dell’arte tradizionale. Dato l’elevato numero di persone coinvolte, crediamo davvero che “farcela” nello spazio della crypto art piuttosto che in uno reale potrebbe essere più difficile nel futuro.
In secondo luogo, la potenzialità del network. La maggior parte delle odierne superstar dello spazio NFT  erano pressoché sconosciute un anno fa. Grazie all’effetto network, sono state scoperte, promosse e la loro carriera sta crescendo in misura esponenziale e più rapida rispetto a quella di molti artisti del passato. Alcune di loro vengono oggi chiamate gli “OG”(originali) o pionieri e hanno suscitato molto interesse. Le case d’asta contribuiscono alla stratificazione, come è successo qualche anno fa con l’emergere della “AI art”. È straordinario vedere come la crypto art abbia cambiato la vita di molti creativi sinora trascurati e generato un dialogo positivo sull’impatto ambientale o sulla rappresentazione delle minoranze nello spazio dell’arte. Ma gli algoritmi, l’IA e gli NFT sono strumenti o, nel migliore dei casi, mezzi di comunicazione. I pionieri della fotografia come Nicéphore Niépce o William Henry Fox Talbot non hanno prodotto le migliori fotografie, sebbene abbiano fatto la storia. Quindi crediamo che in questo campo il meglio debba ancora venire; con ogni probabilità i media verranno sempre più esplorati e messi in discussione, e questo è solo l’inizio. Infine, la necessità di autopromuoversi. In un modo o nell’altro, gli artisti devono promuovere il proprio lavoro per raggiungere gli obiettivi di vendita senza intermediari. Questa è la parte che ci mette più a disagio. Per quanto ci riguarda, possiamo avere molti ruoli o interessi, ma finiamo col diventare dei commercianti. Non per l’aspetto finanziario di una vendita, ma perché la mediazione è fondamentale nell’arte: per dare un contesto, per raccontare storie e per trovare l’opera giusta. Qualunque siano le nostre valutazioni presenti o future, vogliamo restarne distaccati. Speriamo che iniziative come quella del DiverseNFTArtists possano continuare a prosperare in futuro, per offrire ulteriori prospettive curatoriali allo spazio.

Filippo Lorenzin: Come vede il ruolo giocato dall’IA nella sua professione? Come un sofisticato assistente artificiale, ma fondamentalmente “muto”, che vi aiuta a realizzare ciò che non sareste in grado di fare da soli o è più come il terzo membro attivo dell’aurèce vettier?

Paul Mouginot: Noi ci occupiamo di ricerca. Quindi, usando l’IA, cerchiamo di non ricreare ciò che già esiste da un punto di vista teorico, concettuale ed estetico. Come grandi estimatori di pionieri come Eliane Radigue, Vera Molnar o Peter Türk, tra molti altri, valutiamo ciò che la loro ricerca generativa ci ha portato negli anni 60 e in quelli seguenti. Per proporre nuovi paradigmi, cerchiamo di raggiungere il massimo ibridismo tra la curation umana e la competenza tecnologica. Non direi che l’IA è un assistente “muto”, o almeno lo è quanto noi. Dipende dalla qualità del nostro dataset e dei nostri modelli, ma non è assolutamente l’ennesimo membro dell’aurèce vettier. L’IA, ripeto, è uno strumento. Nel nostro caso, gli strumenti e il processo sono problemi secondari. La nostra principale preoccupazione è quella di restare in costante e precario equilibrio sul confine tra un immaginario spazio dati multidimensionale e la nostra meravigliosa natura analogica.

Filippo Lorenzin: Credo che molto spesso il grande pubblico sia interessato all’arte generata dall’IA nello stesso modo in cui lo sarebbe verso un trucco di magia; accade qualcosa dietro le quinte e, a noi spettatori, ci è concesso di beneficiare solo di ciò che l’artista/performer ci lascia vedere. Se pensiamo all’IA come a un qualsiasi altro strumento, suggerirei una differenza principale tra essa e, diciamo, un martello o un pennello; questi sono strumenti che sono stati usati per molti secoli e tutti sanno come funzionano, almeno a un livello base. L’IA è relativamente nuova e solo gli esperti sanno esattamente come viene sviluppata e utilizzata per creare contenuti, che siano immagini, testi o musica. In altre parole, mi chiedo se l’arte generata dall’IA risulterebbe così affascinante quanto lo è spesso ora se il pubblico ne sapesse di più in termini pratici. Cosa ne pensa?

Paul Mouginot: L’arte non è ingegneria, quindi tendiamo a non essere d’accordo. Certo, a volte potrebbe essere interessante rivelare quali algoritmi sono stati utilizzati, che si tratti di StyleGAN, Clip o qualsiasi altra cosa. Sarebbe fantastico descrivere le notevoli quantità di lavoro necessarie per creare i nostri dataset, dato che spesso rappresenta il 95% del carico di lavoro. Potrebbe essere interessante mostrare come abbiamo interagito con artigiani e métiers d’art per creare pezzi che sono fuori dal mondo. Ma alla fine, ciò che conta è il risultato. Vogliamo che il pubblico visiti le nostre mostre, non necessariamente il nostro atelier. Vogliamo che il pubblico incontri i nostri pezzi, non necessariamente il nostro processo, anche se molto del nostro lavoro è concettuale.

Filippo Lorenzin: Elegia Machina (2019) è un libro di poesie scritte con l’aiuto di una catena di Markov, processo matematico utilizzato molte volte in passato, in particolare nella musica. Tra i tanti, lei cita giustamente l’influenza di Paul Verlaine, Tristan Tzara e Guillaume Apollinaire, poeti che hanno vissuto quella che può essere vista come la fase iniziale della modernità. Potrebbe dirmi di più su questo lavoro e sul suo punto di vista riguardo l’eredità di certi esperimenti modernisti nell’arte?

Paul Mouginot: È stata più di un’influenza, abbiamo letteralmente formato catene di Markov basandoci, tra le altre, sulle opere di questi poeti. Ma siamo molto ispirati da movimenti quali Fluxus, OuLiPo, dalle opere che giocano con la tipografia come quelle di Carl Andre, Guy de Cointet o dalla poesia generativa più moderna. Damas Froissart, il grafico di Elegia Machina ci ha anche fatto conoscere Typoésie, sublime libro di Jerôme Peignot che ora è una costante nella nostra mente. Passiamo molto tempo a leggere e scoprire nuove proposte nel campo, non per scopi di benchmarking ma piuttosto perché a volte è eccitante costruire parte della ricerca sulle proposte di altri. Tuttavia, non abbiamo visto molti artisti intraprendere viaggi in avanti e indietro tra spazi reali e dati per creare testi e immagini super ibride, quindi in questo campo sembra che stiamo aprendo una nuova via.

Filippo Lorenzin: In Latent Botanist Writings (2020) ha addestrato i suoi GAN con antichi erbari e generato un nuovo alfabeto. Il risultato è bellissimo: le lettere sembrano stili di scrittura dimenticati da tempo che si intrecciano in modo organico con piante e rami. Può parlarci del processo tecnico dietro questo lavoro?

Paul Mouginot: Quando abbiamo programmato i GAN sugli erbari, si sono generati non solo fiori impossibili e colorimetri distorti, ma anche strani tentativi di riprodurre quelle che dovevano essere le note scritte dai botanici. Il tutto in un nuovo tipo di alfabeto, meraviglioso da vedere.

Effettivamente, nella mostra ci saranno riproduzioni di queste “scritture impossibili” grezze come dipinti a olio. Così ho raccolto molte note generate dal GAN e ho estratto manualmente una quantità significativa di lettere, sulla base di considerazioni puramente estetiche. Poi, ho creato un nuovo carattere, chiamato “Latent Botanist”, che ora è parte della mia professione. Cerco di averlo su un solo computer off-line perché non voglio che venga diffuso. È una specie di segreto industriale per me.

Di recente, sono stato invitato a partecipare a Twelve, un progetto di crypto-letteratura iniziato da Kalen Iwamoto. Per questo progetto, ho proposto una poesia scritta con l’aiuto delle catene di Markov, utilizzando lo stesso processo del mio libro di poesia Elegia Machina ma in Latent Botanist. L’opera è stata presentata su Twitter senza molte informazioni e, pochi minuti dopo, Rishabh Chakrabarty, ricercatore dello studio Refik Anadol, stava già cercando di decodificarlo. Mobilitando molti amici ed esperti intorno a lui, trascorse quasi un giorno sull’enigma. A volte, seppellisco parti di una stele di Rosetta, sia nella blockchain che in opere fisiche. Come lei giustamente dice, molte delle mie opere o testi sono profondamente intrecciati.

Filippo Lorenzin:
La necessità di tradurre e trasferire dati dal mondo fisico all’IA e viceversa sembra giocare un ruolo centrale nella sua ricerca; per esempio, in We Will Make You Bow To The Delicate (2020) ha usato l’alfabeto generato dai GAN per scrivere una poesia su piccole tavolette di arenaria. Quando ha iniziato a sviluppare questo approccio fisico?

Paul Mouginot: La necessità di proiettare calcoli virtuali, modellazione o generazioni in oggetti fisici è un aspetto strutturale della mia professione. Tuttavia, quando lavoro con la tecnologia, non sento il bisogno di trasformare tutto in un capriccioso, urlante, circo post-Internet. Tutto il contrario. Voglio essere in un monastero, in un giardino, in una stanza silenziosa da qualche parte in un ryokan. Voglio essere in montagna, con uccelli che volano alti e mentre guardo in su, voglio incantarmi davanti a un albero sconosciuto dalla forma strana. Infatti, ho scritto un poema su una delle tavolette di arenaria. Ma dall’altra parte, ho scritto la diagnosi che mi è stata fatta un po’ di mesi fa in ospedale. Quindi posso dire due cose: amo molto queste opere e mi fanno emozionare, quindi ci ho messo un po’ a lasciarle andare e fortunatamente i collezionisti d’arte contemporanea che le hanno prese sono dei buoni amici. Non sono sicuro che l’equilibrio sarebbe stato raggiunto senza l’utilizzo dell’arenaria e la segretezza raffinata offerta dalle scritte del Latent Botanist. Durante la mostra, non lavoro soltanto con opere materiali. I dipinti sono stati creati in collaborazione con un artigiano di origini cinesi chiamato Jack Lee. Le cinque grandi sculture di bronzo sono state create in collaborazione con Fonderie Fusions, una métier d’art situata in Alvernia, in Francia. Questi oggetti saranno di qualità eccellente, il che è fondamentale per me. Infine, le opere che produciamo non sono mai “medium-native” ma piuttosto dei tipi di ibridizzazione. Ad esempio, i nostri dipinti a olio sono interattivi. La cornice di legno contiene molte informazioni aggiuntive e possibili avventure.

Filippo Lorenzin: Fino a che punto pensa che l’utilizzo dell’IA nell’arte sia collegata allo sviluppo tecnico? In altre parole, le nuove scoperte ingegneristiche creeranno opere e progetti artistici impossibili da immaginare con la tecnologia attuale o non è importante quanto la ricerca teorica e filosofica che le viene applicata?

Paul Mouginot: Di solito non mi piace rispondere così ma credo davvero che l’utilizzo dell’IA sia e non sia, allo stesso tempo, collegato al suo sviluppo tecnico. Da una parte, la ricerca sull’IA non è un campo nuovo e gli artisti generativi non hanno aspettato che spuntassero le GAN per fare ricerche su queste tecnologie. Talvolta, anche gli artisti avevano delle idee e potevano realizzarle qualche anno dopo, creando una “doppia datazione” sulle opere d’arte. Ad esempio, questo è il caso di Vera Molnar. Dall’altra, ho potuto assistere alla nascita di nuovi tipi di processi, di estetica e di esperienze intorno all’IA. Recentemente, mi ha colpito quest’opera di James Yu, in cui due IA cercano di darsi appuntamento e trovano sempre delle scuse. Ad esempio, penso che non sarebbe stato possibile crearla in modo pertinente e artistico senza la nascita del GPT-3. Per quanto mi riguarda, l’esordio di un’opera può essere tecnico, in quanto cerco di utilizzare strumenti sofisticati o personali, quando gioco con un’idea con cui costruisco qualcosa. In ogni caso, questo è solo l’inizio. Ora, ad esempio, mi sto occupando di algoritmi che generano immagini dal testo come CLIP, o il “deep daze” di Phil Wang e cerco di adattarli al mio gusto e all’ecosistema visivo. Il mio libro di poesie Elegia Machina è, in un certo senso, un viaggio immaginario e ho scelto quattordici passi importanti, come una Via Crucis. Genero immagini per rappresentarla e poi le trasformerò in piccoli dipinti a olio, come delle preziose icone del post-Surrealismo.

Filippo Lorenzin: A cosa sta lavorando ora?

Paul Mouginot: Oltre all’esposizione di dicembre, sto lavorando a diverse collaborazioni e sto finendo un progetto molto ambizioso con la Galerie Gismondi a Parigi. Cerco di andare al mio ritmo, leggere tanto e ovviamente seguire quello che succede ma senza farmi coinvolgere troppo dalla foga attuale. L’ultima opera a cui ho lavorato era un esperimento personale e ho utilizzato un’implementazione dell’algoritmo “deep daze”. Si chiama “un uomo con la barba che lavora a un dipinto tutto beige (AV-2021-U-120)”. Mi è piaciuto molto il risultato dell’algoritmo. Lo trasformerò in un dipinto con l’aiuto di Jack Lee e potrei anche tenerlo per un po’.


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