Le macchine, proprio come gli esseri umani, capiscono ciò che vedono, sentono o percepiscono in base alle conoscenze pregresse (che agiscono come una forma di filtro). Questo concetto è prevalente nella mostra The Question of Intelligence: AI and The Future of Humanity, che avrebbe dovuto essere allestita dal 7 febbraio all’8 aprile allo Sheila C. Johnson Design Center di Parsons/The New School di New York. Si interessava alle relazioni che gli esseri umani intrattengono con le macchine e viceversa e ha portato approfondimenti sui pregiudizi e le potenzialità dell’intelligenza artificiale nello svelare nuove opportunità. La mostra ha chiuso in anticipo a causa delle misure di confinamento del COVID-19, ma avrebbe dovuto chiudersi questa settimana. Diamo uno sguardo al suo contenuto per estendere l’esperienza online.
La varietà dei media colpisce fin da subito. Immagini alle pareti, sculture e installazioni interattive abitano l’open space. La curatrice Christiane Paul accompagna gli spettatori in un viaggio alla scoperta dell’intelligenza artificiale dal punto di vista sensoriale, cominciando con il riconoscimento delle immagini o con l’atto della semplice osservazione di due opere appartenenti alla rassegna in corso di Memo Akten, Learning to see (2019). L’artista ha formato cinque algoritmi di IA con diversi set di dati in modo che ogni rete neurale artificiale interpretasse le immagini da un’angolazione unica. Salviette, cavi e altri oggetti per la casa si trasformano in onde, fiori e fiamme. Il risultato è poetico.
Dopodiché si passa a osservare il ruolo degli algoritmi di riconoscimento delle immagini, che sono portatori di molte discrepanze sociopolitiche dovute a difetti nella raccolta e nell’organizzazione dei dati. Nell’installazione Us, Aggregated 2.0 (2018), Mimi Onuoha ha costruito un mosaico di fotografie che combina un’immagine di sua madre a casa con altre immagini provenienti dal motore di ricerca Google reverse image. La collezione crea un senso di comunità, pur presentando individui non correlati tra loro. Allo stesso modo, Lior Zalmanson offre una panoramica sulla categorizzazione delle immagini. Per la sua mostra Image May Contain (2019), ha riunito le immagini di Facebook che rispondono alla stessa classificazione di fotografie storico-emblematiche. Il risultato è inequivocabile. Il discorso Dream di Martin Luther King Jr. è etichettato come “1 persona, in piedi, cielo, folla, all’aperto”, con le stesse caratteristiche di una marcia del gay pride e di Donald Trump che parla a un rally, e la parata di John F. Kennedy, pochi minuti prima del suo assassinio, corrisponde a “10 persone, auto”. Combinando immagini storiche e quotidiane con i corrispondenti tag in stampe lenticolari, Zalmanson mette in evidenza come, improvvisamente, la nostra memoria collettiva si converte in parole chiave disinteressate, proprio come qualsiasi altra immagine ordinaria. Né più, né meno.
La mostra passa poi a considerare il rapporto delle IA con la parola. Scopriamo come gli artisti creino algoritmi su testi e discorsi orali in modo che i sistemi costruiscano una personalità, degli stati d’animo, dei ricordi e delle narrazioni. Lynn Hershman Leeson ha plasmato il suo memorabile Agent Ruby (1998-2002) per riprodurre il personaggio di Tilda Swinton nel film Teknolust del 2002. Negli archivi apprendiamo come il chat-bot abbia discusso di alcuni argomenti con gli utenti online nel corso degli anni e abbia affinato i suoi tratti unici per diventare la persona con cui interagiamo oggi. Allo stesso modo, Stephanie Dinkins ha addestrato il suo storyteller artificiale Not the Only One (2018) con i pensieri di tre donne di una famiglia afroamericana. La scultura interattiva trasmette la mentalità di un gruppo sottorappresentato mentre risponde a domande biografiche offline.
Al centro dello spazio espositivo, l’opera pionieristica di David Rokeby, The Giver of Names (1990), sintetizza il riconoscimento delle immagini e l’elaborazione del linguaggio. Dopo averci fatto scegliere una selezione di oggetti di forme e colori diversi da esporre sul piedistallo dell’installazione, il sistema lavora per identificarli sulla base di un apprendimento precedente. Attraverso associazioni di parole, idee e concetti, costruisce connessioni tra gli oggetti e crea una narrazione che li collega tra loro. Uno schermo visualizza la forma mentis dell’IA in modo che gli spettatori possano osservare sia la logica dell’algoritmo che la sua creatività. Questo pezzo funge da punto di transizione, introducendo la seconda sezione della mostra dedicata alla creatività e al lavoro. Questo pezzo funge da punto di transizione, introducendo la seconda sezione della mostra dedicata alla creatività e al lavoro. Così, smettiamo di guardare all’impatto dell’uomo sull’IA e sulla sua sensibilità e ci concentriamo invece sulla conoscenza che questa tecnologia porta alle persone.
La creatività è un campo in cui l’IA può essere una compagna eccellente. Vediamo che gli artisti possono, per esempio, usare l’input vocale per ottenere una IA che disegna elementi sotto forma di mappa mentale, come nel caso della AI Mappa Mundi (2018-2019) di Baoyang Chen e altri. Questo generatore di mappe interattive mostra la sua immaginazione nel costruire composizioni assurde come quelle dei dadaisti. Allo stesso modo, Harold Cohen rivela anche le dinamiche creative tra uomo e macchina, collaborando con il suo assistente artistico AARON (1973-). Il pionieristico software di Intelligenza Artificiale ha accompagnato l’artista durante tutta la sua carriera e si è evoluto per perfezionare i suoi mezzi di produzione, le tecniche di disegno e di pittura e l’uso dei colori. Nella mostra, AARON realizza una nuova opera d’arte ogni 10-15 minuti. Accanto a esso, il [Grace:AI] (2019) di Mary Flanagan è composto dai ritratti di Frankenstein – il famoso personaggio dell’omonimo romanzo di Mary Shelley del 1818. L’artista ha prodotto questa serie utilizzando Reti Generative Avversarie o GAN, una tecnica che oggi sta guadagnano una notevole visibilità. Ha addestrato la sua macchina con una serie di dipinti di artiste. Questa visione informa la personalità dell’IA, contrastando così le finzioni dominate da uomini nella creazione di raccapriccianti umanoidi.
Ora ci dirigiamo verso l’altra installazione centrale della mostra, Deep Swamp (2018) di Tega Brain, una novità americana. L’opera è composta da tre terrari di piante delle zone umide governate da agenti artificiali. I tre sistemi computazionali dimostrano una conoscenza competitiva nella gestione di parametri oggettivi come la luce, il flusso dell’acqua, la nebbia e le sostanze nutritive. Ma, ancora una volta, queste IA hanno anche caratteristiche individuali. Nicholas vuole essere originale e attirare l’attenzione, Hans costruisce una zona umida dall’aspetto naturale e Harrison produce un’opera d’arte. Di conseguenza, i territori paludosi hanno un aspetto un po’ insolito, il che induce a chiedersi quale sia lo scopo che dovrebbe guidare i processi di ottimizzazione, in particolare nel contesto del cambiamento climatico. Allo stesso modo, AlphaGarden (2020 -) di Ken Goldberg e altri incarica l’intelligenza artificiale di migliorare la risposta ecologica. Un software di apprendimento profondo, addestrato alla simulazione e alle manifestazioni umane, suggerisce a un robot come mantenere un giardino all’Università di Berkeley. Scopriamo i progressi in tempo reale su uno schermo ed esploriamo le insidie e le circostanze favorevoli che la macchina incontra nello sviluppo della sua policoltura.
L’ultimo segmento considera l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla nostra economia digitale. In Truckers (2020), Brett Wallace offre una visione delle condizioni di lavoro dei camionisti ora che l’intelligenza artificiale è stata integrata nelle loro cabine. Mentre l’altra sua opera in mostra, Future of Works (2018), presenta un collage di dati sulle diverse professioni che sono cambiate drasticamente a causa delle nuove tecnologie. Concludiamo la mostra con un capolavoro, la BitSoil Popup Tax & Hack Campaign (2018) di LarbitSisters, che ha vinto la Golden Nica per l’Arte Interattiva al Prix Ars Electronica del 2018. Il sistema di IA, addestrato su AI-Watson Natural Language Classifier di IBM, presenta un sistema di tassazione alternativo che ricompensa gli utenti di Twitter per i dati da loro prodotti. In definitiva, la mostra offre una visione completa del rapporto uomo-macchina al giorno d’oggi. Conciliamo l’apprendimento automatico con i principi della sensibilità e dell’individualità e lasciamo che lo spettacolo venga conquistato dalla crescente interdipendenza tra l’intelligenza artificiale e le persone. Naturalmente, un contenuto così entusiasmante richiede ulteriori domande, che, con piacere, abbiamo avuto modo di rivolgere alla curatrice Christiane Paul.
Marie Chatel: Può dirci qualcosa di più su come ha organizzato le opere? Avete affrontato sfide entusiasmanti nell’organizzazione della mostra?
Christiane Paul: Le opere in mostra sono disposte in gruppi e sequenze che riflettono sull’automazione dei nostri sensi e sull’effetto che questa automazione ha sulla creatività e sul lavoro. Camminando per la galleria, si incontrano opere che riflettono sull’automazione della visione, della parola e della conoscenza – che sono tutte aree importanti in cui l’intelligenza artificiale viene sviluppata dalle aziende – e progetti che creano IA artistiche. L’uso della creatività e dell’IA è poi legato a pezzi che cercano di controllare e ottimizzare gli ambienti naturali, così come opere d’arte che esplorano come l’IA ha influenzato gli ambienti di lavoro o come potrebbe essere usata in modelli alternativi per un’economia digitale. Volevo creare un ambiente in cui il pubblico incontrasse algoritmi che parlano con lui. Una volta entrati nello spazio espositivo, si potevano ascoltare diverse opere parlare in silenzio, attraversando le iterazioni e cercare di dare un senso a ciò che percepivano.
Uno degli aspetti che mi piacciono di più del curare arte digitale è che questa pone sempre sfide interessanti per via delle sue interfacce tecnologiche, dell’interattività o della dipendenza da piattaforme di rete e dalla natura in tempo reale e partecipativa, tra le altre cose. Come nel caso di molte altre mostre digitali, The Question of Intelligence è stata installata così da incoraggiare l’interazione con le opere d’arte, sia attraverso sistemazioni fisiche che istruzioni. Le opere più impegnative si sono rivelate Deep Swamp di Tega Brain per cui ci siamo presi cura di tre “terreni umidi” innaffiando regolarmente le piante con un tubo nascosto dietro il muro della galleria e tirato fuori quando necessario, e anche Bitsoil Popup Tax e Hack Campaign di LabiritsSisters che, essendo in esposizione negli Stati Uniti per la prima volta, ha richiesto la conversione dell’impianto elettrico dal voltaggio europeo a quello degli Stati Uniti. L’acqua per il nebulizzatore incorporato nella griglia del vassoio ha rappresentato un’altra sfida poiché doveva essere filtrata per evitare che l’acqua piuttosto dura di New York non creasse residui di calcio che potessero danneggiare le componenti interne dell’istallazione.
Marie Chatel: La mostra solleva domande sull’intelligenza delle reti artificiali in contrapposizione con noi stessi, specialmente in termini di senzienza. In che modo dobbiamo aspettarci che intelligenza umana e artificiale siano complementari?
Christiane Paul: È un’ottima domanda ma allo stesso tempo molto impegnativa che è alla base della mostra. Non penso ci sia una risposta facile e il primo passo per provare a rispondere è capire in che modo intelligenza umana e delle macchine differiscono. Aspetto fondamentale sottolineato dalla mostra. Le macchine sono “intelligenti” per il fatto che riescono a trattare e localizzare schemi in serie di dati in modo molto più veloce dell’uomo. Però quest’azione dipende da noi umani che creiamo serie di dati che sono eticamente sicure, diverse e inclusive e ciò rappresenta una sfida continua. Molti errori nel campo del machine learning provengono dalla diversità di dati. Come dimostrato da alcune delle opere della mostra The Question of Intelligence, le intelligenze artificiali notoriamente non sono capaci di capire i contesti storici e le complesse sfumature culturali che devono invece essere insegnate dagli umani. Non so se sarà mai possibile raggiungere il lontano obbiettivo di un’intelligenza artificiale generale che riesca a compiere tutti i compiti intellettuali che solo un umano può gestire. Gli umani riescono a negoziare contendendosi perspettive su compiti incredibilmente complessi e senza soluzione e a passare da uno all’altra mentre sviluppano pensieri. Le intelligenze artificiali non ci riescono e la grande domanda è, è lecito chiedergli di fare questo? Usufruire di un’intelligenza umana complementare a quella artificiale sembra essere un approccio più proficuo.
Marie Chatel: L’esibizione dà molta importanza ai fraintendimenti che gli algoritmi continuano a causare che è un modo straordinario di educare il pubblico. C’è anche una lunga storia di artisti che discutono le loro idee con aziende del campo tecnologico. C’è qualche artista attualmente in esposizione che sta collaborando con i laboratori di ricerca per implementare più diversità e equità? Potrebbe approfondire sull’influenza che gli artisti hanno o hanno già avuto sull’utilizzo pratico dell’intelligenza artificiale negli ambienti tecnologici?
Christiane Paul: Negli ultimi decenni le aziende del campo tecnologico si sono sempre più aperte agli artisti o addirittura hanno commissionato attivamente opere d’arte perché hanno capito che l’arte può essere coinvolta nelle esplorazioni sperimentali delle tecnologie non solo da un punto di vista estetico, filosofico e umanistico ma anche da prospettive etiche e politiche, fornendo una verifica critica della realtà o aprendo nuove porte per sviluppi futuri. Ad esempio Lynn Herschmann ha lavorato con laboratori di ricerca e aziende tecnologiche su molti dei loro pezzi come The Infinity Engine, per la quale ha creato una replica funzionale di un laboratorio di genetica in collaborazione con scienziati famosi. Stephanie Dinkins è stata molto impegnata nelle discussioni sulla diversità razziale e l’equità nell’IA e ha creato AI.Assembly, che è iniziato come incontro al NEW INC, l’incubatore di arte e tecnologia presso il New Museum di NYC, nel 2017 e ha continuato presso altre istituzioni e organizzazioni, tra cui il Data & Society Research Institute.
Lior Zalmanson, i cui progetti di IA si sono concentrati, in particolare, sugli algoritmi sviluppati per le persone con disabilità, ha anche lavorato con il Data & Society Research Institute e ha avuto contatti con Google riguardo al loro software di sottotitolaggio.
Marie Chatel: Ha presentato diverse opere di pionieri nell’uso dell’intelligenza artificiale. Potrebbe dirci qualcosa di più sui precursori come, per esempio, Harold Cohen, David Rokeby e Lynn Hershman Leeson, e sul loro ruolo nell’elaborare i pensieri riguardo all’uso dell’intelligenza artificiale? Come giustificherebbe il fatto che ora gli artisti costruiscono sulla base di questa eredità?
Christiane Paul: Per me è stato importante includere queste opere pionieristiche, dato che l’arte dell’IA ha guadagnato solo di recente una certa attenzione da parte del pubblico e molte persone credono che l’esplorazione artistica in questo settore sia una tendenza molto recente, per cui le prime opere sono spesso dimenticate. AARON di Harold Cohen, che iniziò a creare alla fine degli anni Sessanta, è stato il primo sistema di pittura o disegno di IA e, anche se il codice basilare può non essere così sofisticato dal punto di vista della programmazione, il progetto ha posto le basi per tutte le attuali sperimentazioni con le IA come artisti. È curioso che Harold ha investito maggiormente nel potenziale della collaborazione tra uomo e macchina. The Giver of Names di David Rokeby, secondo me, è invecchiato incredibilmente bene ed è ancora intrigante proprio come 30 anni fa. Anche se David potrebbe decidere un’impostazione leggermente diversa e più pratica per l’opera se la ricreasse oggi, rimane unica nel presentare il processo di transizione dall’oggetto reale all’ oggetto immaginario a idee e metafore associate, riflettendo sulla percezione e sul linguaggio. Considerato quanto siamo abituati alle chatbot come Siri e Alexa, Agent Ruby di Lynn Hershman, ideato alla fine degli anni Novanta, può oggi non sorprenderci come avrebbe fatto invece vent’anni fa, ma Lynn ha contribuito a portare le chatbot al livello successivo. Ruby è ancora interessante come bot conversazionale, che è più in sintonia con l’apprendimento della cultura rispetto al rispondere alle vostre richieste di suonare certa musica, abbassare la luce, o dirvi i tempi di preparazione dei vostri piatti.
Marie Chatel: La mostra guarda anche all’uso attuale dell’intelligenza artificiale per scopi creativi. Quando si tratta di opere d’arte prodotte con reti generative avversarie, gli stili visivi potrebbero apparire omogenei ad alcuni di noi. Dove colloca le sue aspettative sull’intelligenza artificiale come strumento?
Christiane Paul: L’uso delle reti generative avversarie (GAN) nella creazione di opere d’arte è emerso recentemente come una tendenza, che ha portato persino alla conazione del termine GANismo. Una rete generativa avversaria (GAN) utilizza algoritmi generativi formati da una specifica raccolta di dati per produrre nuove immagini originali con le stesse caratteristiche del set di formazione. Quest’ultime vengono poi valutate da algoritmi discriminanti che, sulla base della loro formazione, stabiliscono se i dati appena prodotti sembrano autentici. Anche se non direi che lo stile visivo del GANismo sia molto omogeneo, sebbene ci sia una certa sfuocatura estetica nel modo in cui l’IA impara a dipingere o a disegnare, la struttura concettuale per quel tipo di arte è stato certamente e correttamente standardizzata: usare una raccolta di dati di formazione per creare un’IA che dipinge come un artista del Rinascimento o un espressionista astratto o come lo si chiami. Penso che questo approccio si esaurisca alquanto rapidamente, e la domanda è perché dovremmo essere interessati a replicare forme artistiche dell’IA consolidate o a creare opere che soddisfino un denominatore comune in ciò che il pubblico percepisce come esteticamente piacevole.
A quel livello, avrei basse aspettative per l’IA come strumento. Ho aspettative molto più elevate quando si tratta di usare l’IA per collaborare con un artista umano o per esplorare prospettive che un essere umano potrebbe non avere o per riflettere sulle capacità intrinseche dell’IA. Mary Flanagan [Grace:AI], per esempio, ha usato un GAN addestrato solo su opere di pittrici donne, che è una prospettiva che nessun umano e solo un algoritmo esposto a una specifica fetta di storia dell’arte potrebbe avere. AI Mappa Mundi, creato da un collettivo cinese, esplora in modo specifico come si possa codificare una IA con “immaginazione”: in questo caso infondendo nel codice una dose di dadaismo. Penso che l’IA possa essere uno strumento estremamente interessante per riflettere sul proprio stato di esistenza e quindi su cosa significhi essere un algoritmo piuttosto che un essere umano.