Passeggiare nel quartiere di Westminster a Londra, in un pomeriggio soleggiato ma dall’aria frizzantina, è uno dei pochi piaceri che i londinesi si concedono in un tempo in cui la distanza sociale, le mascherine e i virus sono all’ordine del giorno. Controllo il cellulare, è mezzogiorno. “Oh no, le luci potrebbero essere ancora spente”. Attraverso la strada, supero alcuni ciclisti, alzo lo sguardo e vedo cinque persone ferme lì di fronte, braccia al cielo, telefoni in mano, immobili come statue.
In quel momento ho avvertito un barlume di speranza: Remembering a brave new world, l’installazione realizzata da Chila Kumari Singh Burman nel 2020 in occasione della quarta edizione della Winter Commission alla Tate Britain, forse era illuminata. E lo era davvero.
Quindici le persone davanti alla facciata decorata della galleria che più tardi sarebbe apparsa di continuo tra i post del mio feed Instagram. Tutto è proprio come in fotografia: il portico in stile classico, progettato dall’architetto Sydney R. J. Smith nei primi anni novanta dell’Ottocento e arricchito da luci al neon che danno l’illusione di ammirare delle figure sospese; il vinile stampato a colori che avvolge le colonne; i dischi ondeggianti sul tetto che le danno l’aspetto di una gonna di paillettes. Nonostante la riflessione sul colonialismo proposta dall’installazione attraverso l’accostamento di identità architettonica e riferimenti bollywoodiani mi avesse affascinata, ho distolto lo sguardo dalla versione eccentrica e “tatuata” della Tate Britain e ho iniziato a osservare l’atteggiamento dei visitatori alla sua presenza. Selfie, foto, scatti, storie Instagram tutte incentrate su questa opera d’arte, sento pronunciare la frase “è super instagrammabile!” guardando la tigre al neon.
Instagram, basato prevalentemente sulla condivisione di contenuti visivi, è una delle piattaforme social con il bacino di utenti più attivo insieme a Facebook, YouTube e Whatsapp. Mentre cibo, animali, viaggi, citazioni motivazionali e ritratti sono le categorie dei post con più visualizzazioni, l’arte è una delle nuove tendenze che negli ultimi anni ha assistito a un aumento di popolarità. Quali sono le ragioni? E quali le ripercussioni della condivisione di materiale artistico online?
Sin dalla notte dei tempi, l’arte ha rappresentato uno status symbol. La storia è ricca di esempi dell’alta borghesia che ha sempre acquistato, collezionato e commissionato opere in grado di esprimere potere e ricchezza. Re e regine del passato si sono serviti di sculture e dipinti per richiamare alla mente dei sudditi l’autorità del regno e intimidire i nemici; allo stesso modo, oggi, molti aristocratici prendono parte alle aste e collezionano opere d’arte per ottenere uno status economico, altri invece lo fanno da veri appassionati.
Sarah Thornton racconta vividamente la sua testimonianza di un’asta d’arte da Christie’s nel suo libro Seven Days in the Art World (2008) e fa capire al lettore che questi eventi riguardano il denaro, l’arte e le offerte, così come il gossip, lo scandalo e lo status quo.
Paragonare l’idea di possedere un’opera d’arte a quella di postarla è irrealistico, ma il motivo per cui facciamo entrambe le cose e, in qualche misura, la conseguenza di entrambe le azioni possono essere più simili di quanto pensiamo. A livello sociale, potresti essere l’uomo del momento per aver fatto un’offerta su un Marlene Dumas per oltre 1.100.000 dollari, rendendola “una delle tre artisti viventi le cui opere sono state vendute a oltre un milione di dollari”, come racconta Sarah Thornton, così come potresti sentirti l’uomo del momento quando il tuo post di Remembering a Brave New World (2020) raggiunge i 265.000 like. In entrambe le situazioni, nonostante siano molto diverse e avvengano in due dimensioni separate, c’è un senso di convalida, di mettersi in gioco per guadagnare popolarità e sentire un senso di potere che può prendere la forma di sussulti e sussurri durante un’asta o di like e commenti su un post.
A livello artistico, in entrambi gli scenari addirittura si mercifica e si consuma l’opera. Proprio come gli oggetti d’arte venduti alle aste diventano merci perché sono trattati come beni che possono essere acquistati a un valore monetario, Instagram mercifica le installazioni immersive o le performance che coinvolgono un’esperienza artistica invece che un oggetto, che raramente può essere posseduto da qualcuno, dando loro un valore sotto forma di visualizzazioni e like. Installazioni come Remembering a Brave New World (2020) sono le opere d’arte che vengono instagrammate di più, sia perché sono sfondi perfetti davanti ai quali posare, sia perché sono esteticamente impressionanti e quindi servono per creare un meraviglioso contenuto per il proprio profilo. In entrambi i casi stiamo compulsivamente condividendo l’esperienza che l’opera d’arte ci regala, il che riflette la tendenza odierna ad acquisire più esperienze rispetto ai beni e, di conseguenza, a condividerle sui social media. Dopo tutto, che valore ha l’esperienza se non viene condivisa e convalidata dai nostri followers? Questa ragione principale che giustifica la nostra compulsione a condividere l’arte digitalmente non nasconde la disapprovazione che questa azione potrebbe portare all’opera d’arte stessa.
Il fatto che vedere un’opera d’arte sui nostri schermi sia diverso dal vederla di persona è un dato di fatto, ma vedere l’installazione di Bruman sulle storie Instagram di un amico prima di vederla di persona deve alterare la mia esperienza. Affermare che modifica completamente la mia percezione dell’opera significherebbe sminuire il potere dell’installazione. Tuttavia, non posso fare a meno di chiedermi se sarebbe stata ancora più incisiva se non avessi visto il trailer. Qualcosa che viene compromesso su Instagram è l’aura dell’oggetto d’arte. Per Walter Benjamin l’aura di un’opera d’arte è la sua unicità nello spazio in cui è fisicamente presente ora. Infatti, nel suo saggio The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction (1936) già esprimeva la sua preoccupazione con la fotografia all’epoca e come il suo utilizzo per documentare l’arte potesse essere problematico in quanto abbatteva la qualità atmosferica dell’opera d’arte.
Detto questo, il problema di fotografare l’arte oggi si estende a come la possibilità di immortalare qualsiasi cosa intorno a noi con il telefono distorca il coinvolgimento dello spettatore con l’arte. Se cercate #tatebritain su Instagram, vengono fuori 218 000 post e se li scorrete noterete che approssimativamente sette post su nove sono immagini dell’opera di Bruman. Questa è un’ulteriore prova di come gli spettatori siano coinvolti con la sua installazione. Ne scattano una foto e se ne vanno. Il più delle volte non c’è un senso di contemplazione e riflessione profonda sull’opera. È questa la nuova qualità di cui l’arte ha bisogno affinché le istituzioni artistiche non solo abbiano dei visitatori, ma li coinvolgano effettivamente nell’arte?
Le istituzioni artistiche stanno selezionando sempre più opere e mostre Instagram friendly. L’Aten Reigh (2013) di James Turell al Guggenheim di New York, Infinity Mirror Room (2017-2018) di Yayoi Kusama al The Broad Museum di Los Angeles che la Tate Modern ha in programma di ospitare nel 2021, In Real Life (2019) di Olafur Eliasson alla Tate Modern e Space Shifters (2020) alla Hayward Gallery di Londra sono solo alcuni degli esempi che vengono in mente quando si pensa a mostre popolari su Instagram. Se consideriamo che la National Gallery ha tolto il divieto di fotografare nel 2014, sembra che le istituzioni si stiano aprendo all’idea di essere set da selfie. D’altra parte, la maggior parte dei curatori dichiara ancora che il loro obiettivo non è quello di rendere le loro mostre delle Instagram sensations.
Cliff Lauson, uno dei curatori di Space Shifters (2020), ha spiegato al The Art Newspaper la propria posizione a riguardo dicendo che la mostra “è incentrata sul fatto che gli artisti abbiano utilizzato dei materiali innovativi in modo da dare vita a un’esperienza unica che faccia sentire il visitatore come parte dell’opera stessa. L’impulso di documentare, fotografare e condividere con i propri amici potrebbe rappresentare un’estensione di questo concetto, poiché oggi viviamo immersi in un’economia che si basa sull’esperienza.”2 Il fatto che Lauson sia convinto che pubblicare opere d’arte su Instagram non è altro che una conseguenza dell’uso comune della piattaforma è comprensibile; inoltre, io credo che siano i curatori stessi a essere più consapevoli del modo in cui i visitatori interagiscono con l’arte, e che questa consapevolezza li porti a rivoluzionare le installazioni per renderle più Instagrammabili e, quindi, più accattivanti per il pubblico in generale e per le nuove generazioni.
Sono stati oltre due milioni i visitatori della mostra In Real Life (2019) di Olafur Eliasson al Tate Modern (e se voi non siete tra questi avrete sicuramente visto le foto sui post dei vostri amici), mentre la tanto acclamata mostra dedicata a Leonardo da Vinci al Louvre di Parigi (ottobre 2019 – febbraio 2020) ne ha visti appena la metà. Questi dati dimostrano che un’istituzione che sostiene gli artisti che allestiscono esperienze Instagram-friendly venderà più biglietti di quelle che si limitano a “mostrare solo l’arte tradizionale”.
Sebbene la maggior parte di noi sia colpevole di condividere troppo sui social media e di postare le visite ai musei, io sento un disperato bisogno di riflettere su come contempliamo l’arte. Se provassimo a spegnere il cellulare all’ingresso di una galleria, la nostra esperienza cambierebbe radicalmente. Siamo tutti spinti da quello che sembra essere entusiasmo nei confronti dell’arte, e anche da un atto generoso di condivisione di ciò che vediamo, ma non ci accorgiamo del fatto che così facendo non compromettiamo solo l’essenza dell’opera d’arte, ma anche il modo in cui noi stessi ne fruiamo. Qualcuno potrebbe obiettare che non esiste un modo corretto di vivere l’arte, e io non potrei dargli torto.
In effetti, tornare al tempo in cui ci si poteva godere la vita senza uno schermo tra i piedi sembra tanto romantico quanto impossibile, soprattutto se consideriamo che dopo un anno di smart working, videoconferenze e appuntamenti per fare aperitivo con gli amici su FaceTime, le persone sentono ancora il bisogno di tirare fuori il telefono per fare uno scatto a Remembering a brave new world (2020). Dopotutto, abbiamo trovato un modo di commercializzare e fruire questo tipo di arte basata sull’esperienza che cerca di sfuggire a questo destino con la stessa nonchalance che avremmo nell’ordinare un cono gelato.
1 Sarah Thornton, Seven Days in the Art World, (London: Granta Books, 2008), p. 22-23.
2 Ben Luke, “Art in the age of Instagram and the power of going viral”, The Art newspaper, (2019), https://www.theartnewspaper.com/feature/art-in-the-age-of-instagram-and-the-power-of-going-viral.
Bibliography:
Walter Benjamin, “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction”, (1936).
Sarah Thornton, Seven Days in the Art World, (London: Granta Books, 2008).
Trebor Scholz, “Platform Cooperativism”, Rosa Luxemburg Stiftung: New York Office, (2015).
Ben Luke, “Art in the age of Instagram and the power of going viral”, The Art newspaper, (2019).
Christian Fuchs, “Communicative Socialism/Digital Socialism”, tripleC, (2020).
Pita Arreola-Burns and Elliott Burns, “Volume: Social Media Metrics in Digital Curation”, (2020).