Curato da: Sam Bardaouil and Till Fellrath
La mostra Staging Film: the relation of image and space in video art sfrutta la reputazione di Busan, considerata una città del cinema a livello internazionale, e la sua eredità come ospite di uno dei più importanti festival cinematografici mondiali. L’esibizione tenta di esplorare il nesso tra i film visti nei tradizionali contesti cinematografici e quelli che invece si conoscono sottoforma di installazione in uno spazio museale.
Se il cubismo ha permesso all’immagine dipinta di esistere lungo molteplici punti di vista, e se le gocce di colore di Pollock, insieme al suo corpo in movimento sulla tela, hanno introdotto la temporalità nell’atto del dipingere, analogamente la videoarte ha portato via con sé l’immobilità delle immagini fisse e dei film tradizionali, facendone collassare prospettiva centrale e narrativa lineare.
L’esibizione si fonda su due assi curatoriali principali. Il primo evidenzia l’atto vero e proprio della produzione filmica, nel corso del quale ognuno degli artisti menzionati progetta e presenta il/i loro video all’interno di uno spazio fisico separato. Il secondo, metaforico, pone l’accento sul processo con cui gli artisti espongono i propri temi all’interno dei film stessi.
È un obiettivo che raggiungono sia in maniera diretta, richiamando scenografie teatrali o cinematografiche, sia indiretta, consapevolmente organizzandoli in modo da incoraggiare lo sguardo voyeuristico dello spettatore. Ognuno dei 12 artisti partecipanti alla mostra è rappresentato da un’installazione principale che occupa un proprio ambiente distinto.
Da un loop di 45 secondi a un racconto di 85 minuti, i film si avvalgono di un approccio diverso alla relazione tra l’immagine proiettata e lo spazio fisico in cui vengono allestiti. La mostra, che comprende opere datate tra i primi anni ’90 e oggi, mette in luce come negli ultimi vent’anni gli artisti di videoarte abbiano sovvertito le caratteristiche tecniche e formali del cinema, al fine di contestarne i limiti e dunque ampliare l’esperienza dello spettatore in termini di forma, spazio e tempo.
L’installazione di Anri Sala Unravel (2013), che comprende due film, è intesa a occupare due ambienti: uno schermo al plasma posizionato nel corridoio che porta allo spazio principale, dove la seconda pellicola è proiettata su un’imponente superficie fissa.
The Lovers (2005) di Bill Viola è esposta su un dispositivo al plasma montato verticalmente. La superficie stretta dello schermo aumenta la nostra percezione della reclusione dei due amanti nel film.
In Staging Silence (2) (2013), Hans Op de Beeck ha ricostruito gli scenari dei numerosi luoghi pubblici da lui visitati il cui ricordo permaneva nella sua memoria. L’ampiezza della proiezione sulla parete posteriore dello spazio accresce la qualità provocatoria dell’atto di produzione artificiale.
In Muslimgauze R.I.P. (2010), opera monocanale di Hassan Khan, l’immagine è proiettata su una superficie fissa che, attraverso uno stile filmico differente, aumenta la sospensione del momento nel presente a cui è giunto l’artista.
SeaWomen (2012–13) di Mikhail Karikis è un’installazione video e sonora rispettivamente a due e a dodici canali sulle cosiddette haenyeo, anziane lavoratrici del mare dell’isola di Jeju, nella Corea del Sud. L’opera è allestita all’interno di una scenografia informale a favorire un coinvolgimento prolungato, intensificato da un paesaggio sonoro stile concerto.
In El Fin del Mundo (2012) di Moon Kyungwon & Jeon Joonho due schermi si trovano uno accanto all’altro, toccandosi grazie a una leggera inclinazione. La posizione degli schermi accresce la fusione tra temporalità, appiattendo i contorni che definiscono passato, presente e futuro.
Caryatid (Red, Yellow, Blue) (2008) di Paul Pfeiffer è presentata su tre monitor personalizzati, posti sul pavimento e osservati dall’alto. Questo arricchisce l’esperienza visiva dello spettatore nel guardare la sequenza a rotazione di alcuni giocatori di calcio che cadono pesantemente sul campo.
The Hidden Dimension (2013) di Sarah Choo è un’installazione immersiva dove diversi schermi sono allineati l’uno contro l’altro, ognuno raffigurante una scena di individui alle prese con attività domestiche. Questo ci porta a credere di entrare in uno spazio abitabile.
Rapture (1999) di Shirin Neshat è un video a due canali diviso secondo parametri di genere, dove gli uomini sono proiettati sulla parete sinistra della galleria e le donne sulla destra. Ciò rende impossibile cogliere l’azione di una scena senza dare le spalle all’altra.
Ad Act of Affect (2013) di Siren Eun Young Jung, un’installazione monocanale sulla tipologia teatrale sudcoreana yeosung gukguek, si accedere attraverso un sipario. Il rapporto tra lo schermo e lo spazio fa venir meno i confini tra reale e virtuale.
L’opera a due canali Ashes (2013) di Steve McQueen è presentata su un grosso schermo appeso al centro di una stanza oscurata, sul quale è proiettato il filmato superotto di un giovane a bordo di una barca. Lo schermo fluttuante moltiplica l’effetto dei movimenti tremolanti della barca, aumentando la nostra percezione della fragilità dell’uomo.
L’installazione a due canali The Looks (2015) di Wu Tsang parla di Bliss, popstar di giorno e artista underground di notte. Come prima cosa ci troviamo di fronte a uno schermo autoportante che raffigura Bliss dietro le quinte. Oltrepassandolo da qualsiasi lato veniamo inghiottiti da una proiezione molto più grande di Bliss durante una delle sue performance. Una presentazione di questo tipo rafforza l’interdipendenza tra il privato e l’allestito.