Mentre il coronavirus sta creando una nuova realtà intorno a noi, la MU ha trovato un modo per guidarci virtualmente in un insieme di mondi paralleli. Soprattutto ora, gli universi immaginari possono essere un sollievo. Tuttavia, i mondi queer, utopistici, distopici, in germinazione e irriconciliabili che dal 22 aprile al 12 giugno si rivelano alla MU come Worlding Worlds, offrono più che semplice divertimento.
In un coro di voci critiche e ottimistiche, tredici artisti e designer mettono in dubbio visioni dominanti, contrapponendole a possibilità inaspettate e creando quello spazio che può essere difficile da trovare nella società così come la conosciamo. Va detto che l’uso del verbo ‘to world’– I world, you world, we world – è un fenomeno elusivo. Il buon senso presto ci fa chiedere innanzitutto che cos’è worlded e da chi. Quando la parola ‘worlding’ fu introdotta nella filosofia del dodicesimo secolo, era stata concepita per descrivere l’importante evoluzione del mondo nel tempo. Ciò potrebbe sembrare piuttosto complesso, ma grazie alla crescita degli algoritmi di autoapprendimento e dell’intelligenza artificiale, è diventato più semplice immaginare un mondo che è in costante stato di evoluzione.
Pochi artisti collocano il concetto di worlding al centro della loro professione come Ian Cheng. Egli è costantemente alla ricerca di metodi per creare mondi che continuino a fiorire da soli, una volta che il loro designer ha indietreggiato. In The Emissary’s Guide to Worlding, scaricabile gratuitamente durante la mostra, Ian Cheng conclude che esisterà un mondo finché le persone vi investiranno. Abbiamo bisogno di essere coinvolti, divertiti, emozionati, stupiti o ipnotizzati. E il worlding può assumere molte forme.
Per esempio, in Paysages Possibles di Joanie Lemercier, un semplice dispositivo per il disegno è comandato da un piccolo computer e da un algoritmo. Riga per riga, prende forma un paesaggio, foglio per foglio, finché la parete è occupata da un mondo grafico di montagne e acqua. Nel frattempo, la vita conquista il centro della scena in Eye of the Dream di David OReilly, che si sviluppa in tutta la sua complessità dal Big Bang all’era moderna come una danza mozzafiato, ripetutamente, mai uguale.
Valentine in Things City, l’animazione di Viviane Komati trasporta questo ciclo a una conclusione logica in un immenso magazzino popolato da droni, convogliatori, ascensori, robot logistici e pacchi – una coreografia sbalorditiva che esclude la vita umana finché non arriva una ragazza, alla ricerca di una consegna persa. Più distopico è Flesh Nest, una serie di animazioni di Andrew Thomas Huang che evoca un incubo post apocalittico di un purgatorio digitale, ispirato ai quadri di Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel.
Creare un mondo è un gesto potente. Lo si chieda alla comunità LGBT, o a chiunque non rispetti le regole tramandateci da secoli dalle varie religioni. Per esempio, la dualità rigorosa stabilita dalla Genesi 1:27-28, che determina le persone o come uomini, o come donne (in una missione di moltiplicazione) sarà abolita solo quando storie nuove e diverse la metteranno in dubbio. Nonostante nelle discipline umanistiche e nella cultura popolare esista un’attenzione crescente per le esperienze gender anticonformiste, siamo ancora molto lontani dal creare un mondo alternativo convincente.
Ci sono precedenti, come il pianeta Winter in The Left Hand of Darkness di Ursula Le Guin, del 1969, in cui persone asessuate possono scegliere nei loro periodi fertili se essere uomini o donne. Nonostante le crescenti sfide, però, quell’immagine duplice dell’umanità è lenta a scomparire. Quanto ciò sia problematico e minaccioso, diventa tangibile in “Ressurection Land” Pro League di Danielle Brathwaite-Shirley (@ladydangfua), in cui una squadra di transgender di colore deve proteggere gli antenati risorti dal turismo trans dei “consumatori”. Da spettatori, la vostra motivazione viene più e più volte messa in discussione: cosa ci fate in questo spazio “pro neri, pro trans”?
Gli esseri umani sono considerati i sovrani della terra e di tutto ciò che vive in essa in molti sistemi di potere che abbiamo ereditato (patriarcato, capitalismo, colonialismo, ecc); visione antropocentrica del mondo che deve essere urgentemente sovvertita. In Staying with the Trouble, del 2016, Donna Haraway descrive il worlding come un interesse di tutte le creature, grandi e piccole. Questa consapevolezza di essere tutti collegati in una miriade di modi, di dare forma e un senso di dipendenza reciproca al mondo, si può trovare anche in Host, un’installazione di Amanda Baum & Rose Leahy. In collaborazione con Richard Beckett sono stati creati cuscini, decorazioni da parete e sfere di vetro piene di microbi e batteri, portandoci volutamente a stretto contatto con i microrganismi già presenti dentro e sopra i nostri corpi.
Liam Young presenta una proposta completamente diversa. Nella sua Planet City tutti gli uomini della terra si rifugiano in un’unica gigantesca città di 7 miliardi di abitanti, per restituire il resto del pianeta alla natura. Questo potrebbe essere uno stile di vita sostenibile? Come sarebbe un mondo non progettato secondo gli scenari distopici occidentali? In modo diverso, questi temi appaiono anche in Earth Mother, Sky Father di Kordea Jatafa Henry. Lo street dancer Storyboard P ammansisce un tecno-demone in un’Africa del 2030, non più sfruttata dalla Cina o dall’Occidente, che utilizza invece i suoi rari minerali per la propria crescita e il proprio sviluppo.
In misura minore, la crescita è al centro della Weightless Collaboration di Soft Bodies, un giardino virtuale in cui si può collaborare per lavorare la terra, innaffiare le piante e godere dei frutti del proprio lavoro. L’esperienza di una realtà virtuale condivisa anticipa nuovi modi di vivere e lavorare insieme per le persone separate dalla distanza fisica. Stream City di Stéphane LAB, studente della Design Academy immagina il nostro futuro habitat in un paesaggio urbano virtuale, consentendo di poter volare nel cielo con una tuta alare. Labile, anarchico, quasi trasparente, conferisce più valore all’esperienza e alla collaborazione con gli altri che ai possedimenti individuali.
E ancora, creare un mondo non significa solo costruirlo. Il concetto di worlding, essendo un continuo dispiegarsi del mondo, contiene anche un elemento di distruzione. Lo si percepisce chiaramente in due delle opere più personali di Worlding Worlds. Ferenj, The Installation di Ainslee Alem Robson, è composta da nuvole di punti basate su immagini di Addis Abeba e del ristorante Cleveland dei genitori di Robson. Mentre ci si muove in uno spazio virtuale, si vedono mondi che appaiono e scompaiono incessantemente come ricordi inafferrabili. L’installazione Flotsam Jetsam, Lagan and Derelict, realizzata dall’iraniana Mehraneh Atashi, è fatta di ricordi, storie, oggetti trovati e animazioni. L’artista vede l’opera come uno stato di continuo divenire: “un paesaggio di sconvolgimento, che porta in sé il potenziale di trasformazione”.