Non esiste luce senza ombra. Nulla è visibile senza oscurità. Solamente la luminosità delle stelle appare chiara rispetto al nero della notte. Quindi è lo sfondo ideale per cose e idee luminose di conseguenza scure, non meno nell’arte. Dal Rinascimento, il contrasto chiaroscuro ha reso i colori più intensi, gli spazi e le figure più multidimensionali. Inoltre, il nero dell’oscurità ha la sua propria semantica nell’arte, rappresentando lo spirituale, l’immateriale e il misterioso. Più di un centinaio di anni fa, Kazimir Malevich fece riferimento a tali metafore nel suo Quadrato Nero, stabilendo il punto zero assoluto di un modernismo libero da vincoli figurativi oggettivi.
La mostra Dark Matter unisce le opere individuali di vari artisti contemporanei, spaziando dalla fotografia, il collage, la pittura alla scultura, i quali tutti utilizzano il colore nero e i suoi diversi ambiti di significato al fine di trasmettere connotazioni multiformi.
Lo scultore Björn Dahlem, operante a Potsdam (classe 1974), contribuisce alla mostra con un pezzo enigmatico quanto criptico, che viene percepito come il totem di una civilizzazione extraterrestre mentre non sono altro che oggetti trovati molto terreni e simili materiali profani di tutti i giorni, ognuno dei quali è stato pitturato semplicemente di nero.
Allo stesso modo, un dipinto senza titolo dell’artista berlinese Thomas Helbig (classe 1967) raffigura regni interstellari, il segno di una vernice spray bianca che luccica sul suo sfondo a olio scuro come la coda di una cometa o una nube galattica. La cornice intagliata ovviamente a mano e laccata di nero sottolinea il carattere barocco dell’opera, una caratteristica che la collega alla scultura di Björn Dahlem, contenendo entrambe le opere un equilibrio di serietà e umorismo in un modo molto simile.
Al contrario, il collage digitale in bianco e nero Erinnerung (Memory) di Markus Selg (classe 1974) ci fa scendere sulla terra. Come una scura e misteriosa giungla in pixel, l’opera evoca associazioni con i siti sommersi dei Maya o il mito di Eldorado, perfino lo scenario rappresentato potrebbe avere origine da qualche altra parte, forse addirittura in un sogno o una visione di un futuro ancora lontano.
La stampa in gelatina d’argento esposta dall’artista fotografico di base a Vienna Erwin Kneihsl (classe 1952), ricorda a sua volta un’immagine presa da una storia fantascientifica distopica, anche se in realtà è la riproduzione fotografica di una vera torre di una chiesa a Berlino. L’utilizzo volontario dell’effetto sfocato e del contrasto muta la struttura in un fenomeno pittorico astratto fino a farla diventare quasi spettrale.
Un’altra fotografia è opera del francese, poco conosciuto, Marcel Bascoulard (1913-1978), il quale, per più di quattro decenni, ha realizzato ritratti di sé in abiti femminili; non per il mercato artistico, ma, ciò nonostante, come lui stesso ha affermato, al di fuori di una “necessità artistica”.
All’inizio degli anni Settanta, una serie di fotografie sono state scattate, compresa la fotografia in esposizione, che mostrano il quasi sessantenne, nella sua solita discreta, concreta posa con uno sguardo diretto e sicuro di sé dentro la macchina fotografica proprio in straordinarie creazioni eccentriche fatte di lattice scuro, elemento che dà una componente sia fetish che modernista agli autoritratti, spesso concisi e asessuali, di questo di recente scoperto rappresentante del transgender nell’arte.
Black Pattex (SA), un’opera in due parti dell’artista di base a Berlino, Thomas Zipp (classe 1966), che consiste in un dipinto in gran formato e un disegno incorniciato, è percepito come un pezzo ampiamente carico, legato a riferimenti autobiografici. Zipp è originario della valle del Reno nel sud dell’Hesse, una regione con una topografia che corrisponde piuttosto da vicino all’orizzonte basso e ai poco elevati dorsali collinari nel suo dipinto. Il cielo scuro sopra, cosparso di raggi neri, è un riferimento alla vicina centrale nucleare di Biblis, ma anche alle prime esperienze con la droga dell’artista sniffando colla.
L’elemento psichedelico si è ulteriormente amplificato con l’opera su carta che l’accompagna, la quale si basa su un ritratto fotografico di un noto psicoterapista della prima metà del Ventesimo secolo, negli occhi del quale Thomas Zipp ha inserito chiodi rivestiti di argento al posto delle pupille e dalla cui bocca esce un palloncino pitturato di nero come un fumetto muto, scuro.
Nel caso dell’artista newyorkese Rashid Johnson (classe 1977), l’uso del colore nero è un aspetto fondamentale del trattamento dei racconti biografici nella sua attività, con riferimento al suo ruolo all’interno della popolazione afroamericana degli Stati Uniti. Inoltre, il materiale utilizzato per creare lo sfondo del suo oggetto immagine non è nessuna pittura ordinaria ma cera colorata con il Black Soap, un prodotto per la cura della pelle originario dell’Africa occidentale.
I mirini che Jhonson ha spruzzato-disegnato in oro al centro del quadrato scuro sono un riferimento ai suoi esordi artistici nella cultura dei graffiti. Prima di tutto, tuttavia, sono un omaggio pop-culturale, attingendo dal logo dei Public Enemy, gruppo di formazione hip hop di New York, e prestando il dovuto rispetto agli attivisti musicali del Black Power con una foglia d’oro simbolica.
Time Tube (6) dell’artista operante a Berlino Andy Hope funziona anch’esso in maniera referenziale, in questo caso facendo riferimento all’icona già menzionata della prima avanguardia: il Quadrato Nero di Kazimir Malevich. L’opera di Andy Hope è un’ibrida, una amalgama di immagine e scultura che realizza la spazializzazione letterale dell’oggetto di riferimento storico-artistico.
Il Time Tube sembra essere caduto fuori dal tempo nella sua forma peculiare, una costruzione in legno industriale di sembianze futuristiche con un’antica cornice tirata sopra la parte superiore. Passato e futuro si sovrappongono. E il profondo, opaco nero dentro il Tube apre lo sguardo a nuove sfere.