Performance, concerti, laboratori, installazioni, ascolti guidati, proiezioni. Un’affascinante staffetta di eventi scandisce il calendario di Màntica, festival cesenate tenutosi dal 26 novembre al 4 dicembre, che anche nell’edizione 2011 – la quarta – ha conservato intatto il suo cromosoma sonico, rilevato però da un’angolazione diversa rispetto a quella adottata negli anni precedenti: l’istante che crea.

Questo festival che si consuma lontano dai megafoni mediatici, ma che ha visto alternarsi negli anni presenze di risonanza internazionale come David Toop, Mouse on Mars, Jacob Kirkegaard, (per srotolare solo alcuni, tra i nomi di spicco), assume il suono come paradigma di visione, di esperienza, e attraverso una programmazione sempre molto attenta e variegata, in cui il teatro ricopre un ruolo principe ma non esclusivo, dà conto di possibili modalità di fruire o innescare tale esperienza.

Il concerto di Giuseppe Ielasi, inaugura l’edizione 2011 di Màntica, a cui si succedono in ordine sparso, Francesca Grilli, Nico Vascellari, lo statunitense Z’ ev, e la Cracow Philharmonic String Quartet (a Forlì grazie alla partnership attivata con Area Sismica), El General, e la lista potrebbe continuare.

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Màntica accompagna e nutre le ricerche che l’attrice Chiara Guidi (Cesena, 1960), al timone del festival sin dal suo concepimento, sta conducendo sulla pratica vocale di tipo molecolare. Obiettivo della sua ricerca, scoprire le possibilità nascoste della voce, per restituirne al teatro la sua grana, la sua verità emozionale, la sua infanzia (concetto cardine per l’artista), intesa come stadio prelinguistico. Una voce concepita come suono quindi, ma anche come actio, come luogo di azione, uno scarto a mio avviso fondamentale per il teatro, di cui viene così messa in risalto la sua specificità di non-luogo (secondo l’accezione di Carmelo Bene), in quanto punto di passaggio di diversi significanti.

“Disarticolare il linguaggio trovarne i buchi neri, crearsi degli hanticap continui, per essere in tutto abbandono in balia del significante o meglio della selva dei significanti che ci posseggono e mai del banalissimo significato, quindi il teatro non può essere la chiacchiera continuamente riferita […]. Il grande teatro è un non-luogo al riparo da qualsivoglia storia.” ( Cose’è il teatro? Intervita a Carmelo Bene).

Una sfida, quella di liberare la voce dalle strette maglie di una comunicazione imbastita sul significato della parola, portata avanti dalla Guidi attraverso lezioni, laboratori, che esulano anche dal progetto Màntica, e confluita in parte nel Corso di Alta Formazione “Tecniche di vocalità molecolare” di ERT Fondazione (2008), e in parte in interessanti interventi scenici come Madrigale Appena narrabile (2007), Augustinian Melody (2007), Flatlandia (2008), Ingiuria realizzato in collaborazione con Teho Teardo, Alexander Balanescu e Blixa Bargeld.

L’esperienza di Màntica, come suggerisce il titolo, che evoca la spinta del soffio, ovvero qualcosa che si nasconde e poi si manifesta, aderisce perfettamente alla poetica non illustrativa, ma subliminale ed epifanica della Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale di cui la Guidi è cofondatrice insieme a Romeo (1960) e Claudia Castellucci (1958). Una storia che parte dal lontano 1981 la loro e che si basa su quella che, non chiamerei tanto coerenza artistica, quanto profonda fedeltà rispetto a un’idea di teatro e soprattutto di spettatore.

Il loro teatro è stato definito un teatro dell’approccio plastico visivo, un teatro che abbraccia tutte le arti, ma in realtà credo che nessuna di queste definizioni renda davvero giustizia alla potenza che contraddistingue gli spettacoli della Socìetas, la più appropriata, che vorrei in questa sede usare, mi sembra invece essere “eucarestia estetica della sensazione”, espressione che rubo da una lettera del 1999 a Frie Leysen di Romeo Castelucci, che con queste parole definiva il rito teatrale.

Ed è così, come un “rendere grazie” dei sensi attraverso un sacrificio, un’epilessia (in senso etimologico) intesa come attacco degli stessi, che concepirei la scena della Socìetas Raffaello Sanzio. Dello stesso intervento altri passi mi colpiscono e in qualche modo, sfiorano anche la conversazione che segue, come l’idea di bellezza, la sua capacità di condurti in zone oscure, il suo potere anarchico e spesso violento ma sempre capace di metterti a nudo.

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Incontro Chiara con anticipo rispetto all’inizio di Màntica, le chiedo a registratore ancora spento, impressioni sul premio Malatesta Novello per la città di Cesena, conferitole pochi giorni prima, un riconoscimento destinato ai cesenati che si siano distinti con la propria opera, ma che subito l’artista precisa di non aver concepito come ad personam, bensì, come merito dell’attività che il Teatro Comandini ( dal 1992 sede della Socìetas Raffaello Sanzio) svolge con grande vitalità sul territorio, radicandosi come fucina di creatività e punto di snodo per artisti anche internazionali.

L’augurio con cui si conclude il preludio della nostra conversazione, è un maggiore riconoscimento da parte degli autoctoni, del lavoro svolto dal Comandini, e un cambio di rotta nelle politiche di finanziamento dell’arte, che ancora troppo spesso concepiscono la cultura come un inutile pedaggio da pagare, non prendendo in considerazione la vera stigmate del sistema culturale odierno, riscontrabile ancor prima che nelle ristrettezze di budget investito, nell’horror vacui dilagante nel campo artistico.

Alessandra Coretti: Vorrei orientare la nostra conversazione su due parole che estraggo dalla linea programmatica del festival: empirico e politico. Due termini intimamente legati che assumono un significato particolare se ricondotti al teatro…

Chiara Guidi: Sì certo, Màntica parte proprio dall’idea di aprire le porte di uno spazio a coloro che desiderino fare esperienza una pratica teatrale o musicale, ponendosi dalla parte di colui che agisce e applicando la propria angolazione, il proprio punto di vista. È l’approccio esperienziale a caratterizzare il festival, attraverso laboratori condotti non soltanto dai membri della Socìetas Raffaello Sanzioma anche da artisti che in qualche modo rientrano nella tessitura drammaturgica che Màntica mette in campo, sto pensando per l’edizione di quest’anno, a Fabrizio Ottaviucci o Giuseppe Ielasi, cioè a figure che mi guidino nella ricerca di un’idea di improvvisazione, applicabile tanto nell’ambito teatrale, che in quello musicale.

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L’ispirazione di fondo è il tempo veloce dell’azione, dell’ora e qui in questo momento, del dare immediatamente una risposta pratica a un’esigenza estetica. Questo discorso dell’improvvisazione è facilmente estendibile anche ad altre situazioni della nostra esistenza, sino a toccare un’idea di politica.

Prendo come esempio un altro artista inserito nella programmazione 2011, El General, cantante tunisino che a sua insaputa è diventato il portabandiera della Primavera araba, dando implicitamente una risposta a un bisogno sociale, nel senso che l’arte diventa portabandiera di un pensiero, e qui si pone anche il grande tema attorno a cui ci interrogheremo nella giornata conclusiva di Màntica, l’arte trema di fronte alla religione e alla politica e questo non solo alla luce dei fatti successi al nostro lavoro a Parigi, e mi riferisco al blocco dello spettacolo Sul concetto di volto del figlio di Dio da parte di un gruppo di integralisti cristiani legato all’Action Française , ma anche per capire qual è lo scopo dell’arte nell’ambito della politica.

Credo che l’arte non debba porsi dei problemi di scopo, ma debba stare nell’origine, nel punto in cui deve fornire una risposta immediata a qualcosa che l’artista vede e richiede una forma, lì c’è un’immediatezza, un gesto estremamente pratico di bellezza, che non ha nessun tipo di utilità sociale tuttavia se genera bellezza, essa è in sé un riverbero che va ad inscriversi nella tessitura vibrante di tutte le cose della realtà e quindi comunque è qualcosa che lega l’estetica all’etica, come poi dall’antichità si dice.

I laboratori di Màntica, sono stati concepiti seguendo l’idea d’improvvisazione come possibilità dell’artista di diventare materia vibrante, dando una risposta estetica al contesto in cui si trova. Com’è nel caso di El Generalche con il suo canto è diventato vibrazione di un pensiero politico, ma è un problema artistico il suo, è un canto ha delle misure ha una tecnica musicale.

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Alessandra Coretti: Riallacciandomi a ciò che hai appena detto, questo implicito senso politico dell’artista, potrebbe essere rintracciato anche nella dimensione spettatoriale?

Chiara Guidi: Sì, io credo che l’arte, e in modo particolare la musica, debba essere gettata nel mondo dall’artista. Detto altrimenti, io artista posso avere un’intuizione intima, ma essa non è nulla se non assume una forma che viene poi consegnata, data, donata resa comune, non è un caso che la parola comune abbia in sé la parola munusche significa proprio dono. Come artista posso seguire il punto originario della mia ispirazione, che più è fedele più diventa originale, ma senza perseguire una finalità, la ricerca dell’artista è continua, ogni giorno si ripete uguale, non può l’artista raggiungere quello che cerca, altrimenti non farebbe più arte.

Quindi è compito del pubblico accogliere quest’opera e interrogarsi rispetto ad essa, inserirla come materia vibrante all’interno della tessitura della realtà. Nell’editoriale, posto nella parte iniziale di un catalogo in corso di pubblicazione ho scritto: “collocati nel punto più lontano e guarda l’opera come parte di un tutto, dove l’opera stessa perde il suo nome e diventa una vibrazione nell’ordine generale delle cose”. Se questa vibrazione è indispensabile vuol dire che allora fa parte di ciò che è terreno, ciò che è umano, ciò che è politico nel senso però originario del termine di politica, non mi riferisco ai meccanismi che sono in atto con la politica che conosciamo.

Alessandra Coretti:…e che non ha nulla a che vedere con qualcosa di ideologico?

Chiara Guidi: Assolutamente nulla di ideologico, ma qualcosa invece di completamente gratuito, che fonda un linguaggio. La linea estetica della Socìetas, è infatti una linea che non illustra, che non spiega, ogni opera d’arte non si risolve con lo sguardo dell’artista ma prosegue a dire delle cose anche negli anni successivi, è un “buco che genera altri buchi”. La televisione, un certo tipo di arte è illustrativa, ma la vera arte non lo è. Il pubblico deve imparare a fare fatica quando si relaziona alla cultura, bisogna fondare un nuovo pubblico disposto a far fatica, a voler riconoscere la diversità, che invece si uniforma sotto il filtro della mediocrità. Il nostro, pian piano, sta diventando un discorso politico, una rivendicazione politica, non ideologica, ma politica.

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Alessandra Coretti: In un recente saggio pubblicato su Culture Teatrali n.20, definisci la musica come “l’arte dell’immaginazione par excellence, capace di toccare le corde intime dell’esistenza”; ho messo in relazione queste parole con altre sempre tue, in quanto credo possano costituire due stadi di un medesimo processo: “quanto sarebbe bello, avere a teatro un pubblico ammaliato, così emotivamente attento come quello dei concerti”.

Un’affermazione a mio parere bellissima, che mi fa pensare alla relazione teatrale come simile a un’attrazione, a una questione di chimica, che investe e alimenta la sensorialità dell’individuo in toto, passando quindi attraverso una comprensione che non è (solo) raziocinante.

Chiara Guidi: Sì, bravissima, sono d’accordo con te con questa valutazione. Flannery O’Connor, ad esempio, parlava di una responsabilità propria dell’artista, ossia rendere giustizia al reale. L’artista con la sua opera deve saper mettere in campo anche ciò che non si vede, ma che costituisce la realtà. Quando sentiamo e vediamo delle cose non pensiamo che esse siano frutto di qualcosa che le spinge dal basso, qualcosa che non si fa vedere ma che le rende vive, proprio per il fatto di essere nella sfera del non visto, del non sentito, che non è un’accezione negativa, ma positiva.

Quindi il pubblico deve scontrarsi con ciò che nasconde al proprio interno, con il proprio gusto e anche con la precarietà del gusto e dell’esperienza, con la possibilità di un fallimento, ecco queste sono tutte parole che la società non accetta. L’esperienza artistica è un campo di esperienza viva, che porta dentro di sé un’idea viva anche di pubblico, al quale non viene chiesto di partecipare praticamente, nel senso non si chiede l’attivismo del pubblico, così io non credo che l’opera d’arte possa essere assimilabile a un’azione politica.

L’opera è un gesto di bellezza che mi avvicina sempre di più a quel “buco” che non mi permetterà mai di scoprirlo fino in fondo, quel “buco” di lacaniana memoria. Bisogna raggiungere la consapevolezza che c’è qualcosa di inafferrabile, ed è questo qualcosa che mi fa emozionare, ed emoziona me in prima persona, che sono diverso da te, e questa ancora una volta diventa una questione politica.

Alessandra Coretti: La musica è anche l’unica arte in grado di manifestare e non di rappresentare e forse questo con-tatto epifanico, avviene nella concretezza prodotta dall’impatto sonoro. Ricordo David Toop che proprio in un’ edizione passata di Màntica, parlava della medianità dell’ascoltatore, usando la metafora del fantasma che entra in corpo e dà un segnale cerebrale, mi ha fatto pensare a Karlheinz Stockhausenche parlava di onde elettromagnetiche che superano l’effetto uditivo per passare a quello corporeo e cerebrale. C’è sempre comunque una visione del suono che supera il solo livello acustico e ad un certo appunto fa appello all’immaginazione, alla coscienza, e lo fa attraverso l’intimità di un’esperienza per l’appunto…

Chiara Guidi: Sì è proprio il punto focale. Prima con il discorso dei sensi, ora con l’immaginazione ci stiamo avvicinando sempre di più ad un’idea di infanzia, al concetto d’infanzia, dove immaginare è pensare, dove tra il pensare e fare intercorre un tempo piccolissimo è il tempo breve dell’immaginazione. Se ci pensiamo nell’ antichità l’immaginazione era una chiave della conoscenza, oggi è stata eliminata dal rapporto con la realtà.

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Alessandra Coretti: L’idea di indagare la voce come suono, come materia, è stata innescata o rafforzat,a dal rapporto artistico con Scott Gibbons, compositore di musica elettroacustica, che lavora molto con la sintesi granulare, e che ha introdotto una visione organica, e materica del suono, un suono che di per sé è capace di disegnare uno spazio, di incarnare una presenza, introducendo in teatro un’idea di suono che non più è subordinata ad altre forme, ma che potremmo dire entra dalla porta principale?

Chiara Guidi: È vero, è giusta la relazione anche con Scott, con cui lavoro dal ’99 ormai, c’è sempre stato uno scambio fittissimo durante la realizzazione degli spettacoli, questo ha sicuramente accelerato in me una visione della voce, ma credo che anche a lui questo scambio abbia generato un’idea di suono. Credo che la tecnica della musica elettronica possa essere utile all’attore, in quanto crea uno sguardo di spazializzazione della voce, ma non una voce che da me va verso il pubblico ma una voce che mi circonda che mi accerchia, per cui dico sempre che quando recito la mia voce è tra me e il pubblico come una sorta di pariglia di cavalli, quindi se vanno a destra li spingo a sinistra, se vanno in alto li spingo in basso.

La voce come una materia con la quale si può disegnare, mai come in questo momento mi è chiaro come la voce possa essere la matita che disegna l’immagine che il testo racchiude, che non è il significato delle parole, tuttavia grazie a questa immagine il significato delle parole emerge.

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Alessandra Coretti: Vorrei concludere riappropriandomi nuovamente delle tue parole, le rendo mie e te le rilancio in forma di interrogativa: può l’energia della musica, che è un’ energia emotiva, essere già di per sé una forza che include il teatro e può il teatro, con la sua capacità di proporre un’ esperienza nel tempo stesso della vita, incontrare la stessa partitura musicale?

Chiara Guidi: Il sentire non fa semplicemente i conti con le orecchie, il suono, la musica, c’è un sentire anche dentro la figura. Questa dichiarazione musicale che lancio da diversi anni è anche un modo per dire in parole più semplici, stiamo su una figura che ci chiama non stiamo su mille figura che passano, non ubriachiamoci di immagini, iniziamo a fermarci su le unità che ci chiamano, su ciò che ci interessa e stiamo in quel punto a scavare, quindi in un certo senso ritorniamo a un’idea di teatro dove sia possibile, attraverso il suono,scavare le immagini che vivono sul palcoscenico.