Una volta un musicista pose una domanda piuttosto comune: “Qual è il senso per il pubblico nell’incontrarsi fisicamente con gli autori di web art? Ovviamente il senso è umano, ma allora perché gli enti pubblici (o sponsor privati) dovrebbero pagare questa cosa? Di solito le conferenze le fanno bene i filosofi. Gli artisti normalmente li si fa parlare del loro lavoro, quando si trovano nel luogo dell’esibizione, già che sono lì”.
È sempre difficile rispondere a questa domanda per chi, oltre a non concordare con molte di queste affermazioni, trova che il senso è più che ovvio. È come quando ti chiedono perché nella tua lingua madre si dice una certa cosa o la si dice in un certo modo. Difficile dare spiegazioni. È normale e basta. Chi ancora ha dubbi di questo genere, continua a non capire perché sarebbe importante e prezioso organizzare incontri con gli artisti e i creativi del Web, avrebbe dovuto partecipare alla sesta edizione del festival OFFF , tenutosi dall’11 al 13 maggio 2006 a Barcellona, organizzato da Inofffensive e diretto da Héctor Ayuso già incontrato da Digimag qualche mese fa..
Avrebbe dovuto respirare l’energia frizzante che circolava negli spazi del CCCB (Centro de Cultura Contemporánea de Barcelona): nel cortile organizzato a mercatino e a chill-out, dove giovani e meno giovani di tutto il mondo riposavano e si scambiavano idee sdraiati al sole pallido di maggio; nell’Auditorio, dove si alternavano concerti audiovisivi elettronici e conferenze; nel Cinexin, dove, adagiati su comodi puff o sulla soffice moquette, si potevano guardare sequenze tematiche di opere presentate da artisti presenti e non al festival; nello Showplace, dove si poteva interagire con le creazioni e in alcuni casi anche con i creatori, disegnando con loro, entrando a far parte delle loro pitture dinamiche; nella Hall, dove si poteva provare l’esistenza reale di esseri umani sempre conosciuti in forma di opere che viaggiano lungo i fili del telefono, sentire la loro voce, ascoltarli raccontare la loro esperienza e descrivere il backstage del loro lavoro, ridere con loro, amarli ancora di più (non ha caso il titolo di questa edizione del festival era proprio Love Days).
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Avrebbe dovuto provare tutte queste emozioni. Quella dell’attesa. Quella di cercare di indovinare tra i volti dei presenti quello dell’artista preferito di cui ancora non si conoscevano i lineamenti. Quella di accorgersi come ancora alla settima conferenza, dopo ore di attenzione e di pazienza per gli immancabili disguidi tecnici (ma si sa, è il prezzo che la tecnologia fa pagare in cambio del suo essere a disposizione di tutti e di permettere a chiunque abbia una buona idea di diventare un creatore, che non è poco), i personaggi che salivano sul palco erano capaci di infondere energia, di tenere il pubblico incollato alla sedia, desideroso di ascoltare e di divertirsi con i suoi beniamini.
Un paio di anni fa, Carla Diana, prima di un suo intervento in Italia dove la situazione tecnica sembrava profilarsi disastrosa, si dimostrò incredibilmente tranquillla e disse che anche senza computer, microfono e proiettore l’evento sarebbe stato interessante. Nonostante alla fine potè disporre di tutto quello che meritava di trovare a sua disposizione, dopo il suo screening fu chiaro per tutti che quello che aveva detto era una sacrosanta verità. Questi personaggi sono animati da un’enorme passione, hanno scelto di vivere seguendo il loro daimon, pur rischiando ogni giorno nell’incertezza economica. Tutto questo rafforza il loro carisma e li rende vulcani che il pubblico potrebbe restare ad ascoltare per giorni senza distrarsi mai. E di vulcani, in questa edizione dell’OFFF, ce ne sono stati parecchi.
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Joshua Davis , per esempio, ormai di casa al festival, che quest’anno doveva restare barricato nello Showplace per far partecipare il pubblico con i suoi disegni all’opera Dynamic Canvas. Un disguido grave che ha reso impossibile la presenza di Bradley Grosh, però, ha fatto sì che fosse chiamato d’urgenza sul palco, dove la selvaggia creatività delle sue opere e della sua persona (il suo aspetto è quello di una rock star: è coperto di tatuaggi e si esprime con un linguaggio e una gestualità estremamente informali) hanno dissolto il tempo come in un effetto speciale.
Oppure Ze Frank, vero e proprio showman votato alla risata, che non sta fermo un attimo sul palco: mentre presenta in modo esilarante il suo lavoro, in cui procede a indagare con intelligenza il mondo e il comportamento della gente su Internet e nella vita reale attraverso il filtro dell’ironia e del prendersi gioco di tutto, cammina continuamente avanti e indietro sul proscenio, parla usando tutto il corpo, fa facce alla Jerry Lewis.
O ancora Santiagio Ortiz, in arte Moebio, sottile ed elegante come le sue opere, dove esplora e visualizza le connessioni che esistono tra genetica, codice di programmazione e linguaggio, in cui cerca metafore che rappresenta in modo intrigante (se a scuola la insegnassero così, la scienza !) e con una cura estetica impeccabile. Le sue spiegazioni sono pacate e rasserenanti e allo stesso tempo molto divertenti e così chiare da far sembrare il complesso miracolo della vita il più semplice e ovvio dei meccanismi. Particolarmente interessante il suo recente lavoro Mitozoos , sviluppato con il suo gruppo di collaboratori di nome Bestiario e di cui è in fase di prototipo una versione che rappresenti in forma di suoni il corso della vita e le interazioni degli organismi.
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O Zach Lieberman e Golan Levin (il duo Tmema che sempre Digimag ha incontrato qualche tempo fa), responsabili di un esplosivo gran finale, più performance e chiacchierata tra amici che conferenza. I due, che quasi si assomigliano e sicuramente sono animati dallo stesso carattere giocoso, hanno spiegato e mostrato alcuni video di loro installazioni come l’opera Messa di Voce, dove il sistema è stato dato in pasto a Joan La Barbara e Yaap Blonk. Dal vivo, in mezzo a un pubblico a dir poco entusiasta, Zach e Golan hanno “suonato” le opere The manual input sessions, Drawn (con cui era stato possibile giocare nello Showplace per tutta la durata del festival) e Scrapple. Nei siti dei singoli artisti e del duo, si possono ottenere maggiori informazioni sulle loro opere e visionare clip video.
Non è possibile qui dedicare qualche riga a tutti, ma val la pena ancora ricordare la presenza, tra gli altri, di: Eric Natzke, personaggio ormai storico, sempre a caccia di nuove possibilità estetiche e di tecniche di animazione che conferiscano un’organicità sempre maggiore agli oggetti e ai sistemi di navigazione; Florian Schmitt degli Hi-Res! , sempre impegnati nella realizzazione di trailer cinematografici online particolarmente suggestivi e personali, mentre sperimentano nuovi percorsi interattivi, alcuni dei quali in collaborazione con Nanika; Nando Costa, altro nome ormai nelle orecchie di tutti gli appassionati di grafica, le cui strutture aggrovigliate e complesse si ispirano ai cavi elettrici che pendono ammassati e disordinati per le strade delle città brasiliane.
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E ancora Ben Fry e Casey Reas, artisti, informatici e fondatori del progetto Processing, che in questo festival, come sta facendo nella storia della creatività digitale, si è conteso con Flash il ruolo di software protagonista (i due hanno anche tenuto un seminario della durata di cinque giorni che si è tenuto presso i locali dell’ Hangar); Jürg Lehni, che ha portato il suo Hektor (macchina creata in collaborazione con Uli Franke, in grado di disegnare da sola con una bomboletta spray sospesa con dei cavi e pilotata da un computer) e ha presentato i video di altri progetti tra cui uno analogo, ma più sofisticato, di nome Rita; Rob Chiu , affascinante mago di After Effects; Kyle Cooper, direttore artistico specializzato in titoli, tra cui quelli di molte famose pellicole hollywoodiane, videogiochi e pubblicità; Jonathan Harris, che, insieme a Marcos Weskamp, hanno presentato i loro progetti, incentrati sul rilevamento e sulla visualizzazione grafica e statistica dei dati che viaggiano su Internet, e tra i quali spicca il database di emozioni We Feel Fine, di cui è possibile scaricare e utilizzare l’API.
Perché perdersi tutto questo? La bellezza non è solo nutrimento per l’occhio, ma anche e soprattutto per l’anima e tutti i sensi. E la si ottiene creando possibilità, sinergie, comunicazione. Quello che è avvenuto quest’anno, ancora una volta, all’OFFF di Barcellona.