L’occasione per Milano è ghiotta: la location spettacolare su cui tutto è già stato detto e scritto, un programma dal respiro internazionale e convincente nel percorso trasversale a cui ambiva, sugli schermi i contenuti dell’arte digitale ed elettronica, disciplina che raramente trova spazio nella programmazione culturale della nostra città.

L’Hangar Bicocca ha ospitato lo scorso weekend, 25-28 Maggio, la prima edizione di MixedMedia, un festival di quattro giorni specificatamente ideato e realizzato come momento di riflessione estesa e continuativa sulle più recenti manifestazioni dell’arte veicolata dalle tecnologie digitali. L’evento si inserisce nella tradizione dei festival sul live media, con il preciso intento di indagare gli estremi e le estensioni della riflessione sul modo in cui il digitale sta modificando le strutture culturali e le modalità percettive della società moderna.

Gli aspetti estetici dei media digitali sono infatti ormai consolidati. L’arte generativa dei software, l’evoluzione elettronica della musica, il vjing, il ritorno alla psichedelia e alle rappresentazioni non figurative appartengono ad un linguaggio che ha propri riferimenti artistici e precise direttrici di evoluzione, e lo dimostra innanzitutto il proliferare di comunità soggetti e ambiti di discussione e pratica di questi temi. Ciò che attualmente è oggetto d’indagine non sono tanto i riferimenti culturali o la possibilità di definire una identità coesa e coerente: la partecipazione delle arti elettroniche ad un panorama culturale più ampio è infatti riconosciuta.

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L’evento si concentra invece sugli estremi a cui è giunta la riflessione sul digitale oltrepassando gli aspetti estetici e di rappresentazione e interrogandosi in maniera specifica sugli aspetti dell’interazione, sulla natura paradigmatica del digitale e sulla ricchezza a cui è arrivato il nostro dialogo con essa. La tecnologia è l’elemento principe di questa interazione; tecnologia senza alcun accento strumentale ma considerata elemento centrale della ricerca, tecnologia nell’accezione di soggetto, oggetto e luogo del progetto creativo. Lo scenario che stiamo osservando esprime concretamente la coincidenza di medium e messaggio, per quanto ormai sia abusato questo assunto; lo fa però al di fuori di una convergenza estetizzante che limita e vincola il contenuto alle scelte di stile, quanto piuttosto nell’orizzonte dell’apertura che il digitale ci consente, ovvero la possibilità di progettare anche il medium. In quanto spazio della progettazione stessa il medium diventa strumento di raccolta, elaborazione, produzione e di condivisione dell’informazione, esprimendo potenzialmente tutta la capacità insita alle dinamiche di rete.

Chi manipola da vicino la tecnologia digitale è mediatore dell’immateriale, con il duplice ruolo da una parte dell’auto apprendimento (processo necessario all’interno della rete e fondato sulla piena e libera relazione delle conoscenze e delle attività di conoscenza) e dall’altra dell’orientamento, ovvero di testare e indicare, forse come precursori di comportamenti e attitudini che avranno un respiro più allargato nei prossimi anni, quali strade tecnologiche sono utili ed espressive ai fini di una più esplicita e contemporanea comunicazione e produzione culturale.

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MixedMedia pone questi interrogativi agli artisti che hanno partecipato all’evento, e alle persone che vi hanno interagito per il tramite di un palinsesto che non pretende di offrire prodotti simbolici e totalmente rappresentativi di cui fruire, ma che piuttosto si è presentato come il tentativo di condividere un avanzamento di fase, uno sguardo lucido e per qualche giorno fortemente messo a fuoco sul terreno delle discipline liquide e delle identità culturali ibride così come si presenta il panorama artistico legato alle esperienze digitali. Si parla di discipline liquide per la difficoltà di un inquadramento tassonomico rigoroso: l’evento è stato suddiviso in macro aree, architettura, media arte e live media, distinzione utile più a tenere in ordine le cose che non a distinguere in maniera netta gli artefatti e le creazioni tra di loro.

La sezione di Architettura è stata costruita e montata sfruttando una installazione stessa, ovvero una serie di pilastri di legno a diverse altezza, quadrati e disposti secondo una matrice regolare; l’altezza variabile è stata determinata da un taglio della materia derivato da una curva la cui funzione è stata elaborata digitalmente. Alcuni di questi pilastri, o mozzi pilastri, ospitavano computer e schermi per la visualizzazione dei lavori in mostra sul tema architettonico; l’impressione un po’ persistente è che l’architettura stenti ancora a interpretare in maniera complessa i fenomeni digitali e inserirli in maniera coerente nella propria metodologia progettuale se non come estensione strumentale.

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Ciò limita l’interazione su un piano della rappresentazione, e continua a fornire l’idea di una città verticale, di spazi chiusi e delimitati tra di loro, mostrando lavori superiori da un punto di vista della tecnica ma che non sempre arrivano a degli interrogativi comprensibili e condivisi sulle nuove forme dell’ibridazione. Questo svela un terreno ricco e ancora fertile dove indagare e procedere con la ricerca e la sperimentazione; d’altra parte la nozione spaziale è uno dei riferimenti culturali codificati che viene messo maggiormente in crisi dalla natura digitale, come in effetti ci suggeriscono riflessioni teoriche e applicazioni che invece partono dall’idea di una città orizzontale, senza aree separate, una città pensata per i flussi e non per gli stanziali, pronta a recepire il movimento e la trasformazione e a rimetterlo in gioco sul terreno dell’esperienza dello spazio.

L’interazione tra architettura e digitale non può limitarsi alla sofisticazione della rappresentazione, ma la mutazione che architettura e design stanno interagendo non determina un processo chiuso, anzi la maturità di questo processo è ancora all’orizzonte e lo dimostrano le prospettive emerse in alcune lectures che hanno compensato con il giusto slancio prospettico le riflessioni embrionali delle installazioni.

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La sezione della New Media Art è in parte complementare poiché non arriva alla definizione di un percorso strutturato, in parte subendo il limite di una disciplina che ha una notevole eterogeneità espressiva e tecnica, ma riuscendo sicuramente a fornire esempi sufficientemente variegati e in grado di suggerire e far comprendere gli estremi della sperimentazione. Media art è infatti un termine generico che unifica gli artefatti artistici sotto il segno della tecnologia, sebbene l’uso centrale che esse assumono può dipendere e orientarsi verso obiettivi comunicativi e di senso molto diversi; gli ultimi anni hanno infatti visto l’emergere di una tassonomia reticolare: net-art, software-art, web-art, network-installation, componenti o parti che sono autonome e specifiche nell’elaborazione di una tecnica e di un linguaggio, ma che si riferiscono ed inseriscono in un percorso culturale comune chiaramente distinguibile sullo sfondo.

Obiettivo della mostra mi è sembrato descrivere un percorso spontaneo e irregolare tra le tecniche, che si è velocemente diffuso fino a toccare quasi tutto lo scenario artistico elettronico; la selezione delle installazioni in mostra è piuttosto eterogenea, non si basa su un tema specifico e ciò probabilmente (e fortunatamente) ha consentito la rappresentazione di una diversità interessante che spazia da rappresentazioni visuali a esempi di software in cui interagiscono musica e video, a oggetti in grado di interagire con l’ambiente o con le persone che attraversano gli ambienti.

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L’installazione di Jim Campbell, Ambigous Icon, per esempio propone una serie di micro pannelli che presentano studi sul movimento dei corpi, renderizzato però accentuando il low quality, tramite un utilizzo articolato dei led; l’esperimento va oltre il concetto del campionamento digitale e della relativa risoluzione proponendo immagini digitali sgranate che riportano non al dettaglio ma ad un riflessione e percezione sui macro-movimenti. Ancora, i forestbot (progetto di installazione a cura di LEMUR, League of Electronic Music Urban Robots – http://www.lemurbots.org ) hanno animato la sala mostre con il loro rumore-suono: venticinque lunghi steli di metallo ancorati a piedistalli dotati di contrappeso, alla cui sommità sono montati sonagli di plastica ovali. Il peso dei sonagli fa inarcare gli steli e attiva i contrappesi, i sonagli e gli steli interagiscono l’un l’altro emettendo suoni.

L’interazione è magica poiché toccando gli steli si va a influenzare il movimento e a veicolare specifiche collisioni tra i sonagli; masse differenti di persone o gesti diversi producono oscillazioni imprevedibili e di conseguenza una sonorità ambientale mutevole e contestuale. Questo genere di installazioni si rifà ad una tradizione di progetto immersivo, che realizza coreografie d’interazione tra suono e movimento.

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Altrettanto interessanti sono progetti più contemplativi come Distributed Projection Structure di Aether Architecture
(http://www.aether.hu/distributedprojection.htm)
, architetti ungheresi che propongono una architettura luminosa variabile in cui un fascio di luce proiettato su una composizione di oggetti geometrici va a generare proiezioni colorate sullo sfondo. Il fascio di luce ha gradazione cromatica dinamica ricavata tramite il computer da un sensore che rileva la densità dello spazio: avvicinandosi o allontanandosi fisicamente dalla struttura, i sensori passano ad un computer i dati di distanza, che vengono trasformati in colore e proiettati sulla struttura stessa, modificandone il colore globale e ottenendo una trasformazione della materia fisica tramite luci algoritmiche.

Mi è sembrata degna di attenzione un’altra installazione, orientata ad una riflessione sul media televisivo: Osman Khan e Daniel Sauter “interrompono il regolare svolgimento dei programmi” (il titolo dell’opera è infatti We interrupt your regularly scheduled programs – www.osmankhan.com/weinterruptyourregularlyscheduledprogram) e propongono un nuovo sistema per approcciare la televisione: la luce dello schermo si riflette e viene diffusa da una superficie opaca. Il segnale emesso viene catturato da un computer che processa in tempo reale le sequenze di immagini scomponendo i frame in un’unica striscia verticale di colori estesa un pixel solo. Le strisce sono ordinate in una sequenza orizzontale che parte dallo schermo della tv ma procede la proiezione sulla superficie continua accanto, come se le immagini in questa nuova forma potessero liberarsi dello schermo, e di fatto definendo una storia di colori e immagini astratte. Cambiando canale, come in ogni apparecchio televisivo, cambia la storia.

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Che queste e le altre opere esposte da sé non bastino per esaurire una rassegna sull’arte digitale è palese, ma ciò che ha espresso e definito questa area espositiva sono i margini di una sperimentazione che si rivela ancora fertile e aperta agli input e alle sollecitazioni; per la prossima edizione una cura maggiore per la segnaletica e le didascalie potrebbe aiutare ancora di più gli spettatori a farsi strada tra i percorsi immaginari, occasionali e percettivi che vengono a crearsi sul terreno della fruizione dell’arte digitale.

Tutto ciò a dire il vero si è svolto nell’area finale dell’Hangar, nelle stanze adiacenti al salone principale dove è ospitata l’installazione monumentale di Anselm Kiefer, i Sette Palazzi Celesti. Questa famosa e impressionante opera contemporanea ha fatto da sfondo all’area in cui si sono svolti i live set della sezione Sound&AUdiovideo, sicuramente la sezione più intensa del festival. Lo stage proponeva cinque maxi schermi collocati proprio di fronte alle torri; la collocazione spaziale e la strumentazione sono state usate in vari modi dagli artisti che sono stati invitati per i live media, interagendo e dialogando con lo spazio e dando tutti un peso specifico a questa relazione. Un senso forte di ambiente si è infatti costruito nelle serate, ad intensità variabili e legato alle singole performance, anch’esse piuttosto diverse sul piano tecnico e sul piano percettivo. I quattro performer invitati per ogni sera fanno in qualche modo riferimento a metodologie diverse per il live media, e ciò ha consentito di costruire anche nelle serate un percorso trasversale nella disciplina, molto affascinante per la progressione emotiva che si è generata.

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Gli esperimenti di live media partono anni fa dalle riflessioni sulle sinestesie ma oramai sono qualcosa di più che una semplice interazione di layer sonori e visivi. Siamo ben oltre l’esercizio tecnico e di stile, entriamo nella sfera del gioco e della performance in cui in maniera dialogica suono e immagine veicolano i significati e li ritrasmettono in maniera diffusa nell’ambiente e sugli spettatori. I live hanno presentato lavori sul tema dei “corpi performativi”, che riprendono le performance sceniche, in particolare il lavoro del giapponese

Suguru Goto (http://suguru.goto.free.fr/) ritorna sul concetto della performance come danza, per quanto sia una danza minimale e di micro movimenti di parti che ci porta ad una piena fruizione e ad un pieno apprezzamento solo al termine dell’opera, di fronte alla rappresentazione della danza unitaria e non ai singoli movimenti delle parti. Questo libera la performance, che è piuttosto rigida in alcune parti, e la inserisce in un contesto di percezione sistemica dove l’insieme supera il valore dei momenti: in diversi stacchi la sensazione è quella di un movimento primordiale, ancestrale e quasi mitologico, lontano quindi da una umanità organica, che però nel complesso della rappresentazione sa esprimere ritmo e sincronia omnicomprensivi. È interessante notare come è sempre dall’Oriente che arrivano le proposte coreografiche più bizzarre, che pongono attenzione alla fattura e all’estetica dell’abito, all’espressione del viso e alla tensione del corpo, oltre che alla coreografia gestuale che è oggetto di progettazione usuale nello scenario delle performance.

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Il secondo gruppo di artisti ha lavorato sulla tradizionale integrazione audiovideo, portando l’interazione ad un livello che non è solo tecnico ma ha una profonda valenza immersiva. In scena su questo tema innanzitutto Otolab (http://www.otolab.net), i quali hanno presentato Op7, performance progettata appositamente per i cinque schermi dello stage e per dialogare direttamente con le torri di Kiefer. L’immaginario presentato da Otolab in questo lavoro è profondamente spaziale e architettonico, parte di un’idea di tunnel come ingresso per un viaggio e considera le torri come tunnel, si avvale di texture, deformazioni percettive dell’immagine che ambiscono e riescono a suggerire l’idea di una deformazione dell’ambiente aggiungendo ulteriori significati all’architettura mastodontica del luogo, e nuove sensazioni all’atmosfera tangibile e magica che in esso si realizza. Il viaggio metaforico e l’esprienza optical si compongono in un’unità finale molto coinvolgente e che ha riempito la sala di applausi. L’unico rammarico è che la pianta dell’Hangar non consentiva un angolo prospettico ampio sullo stage, e non ha reso semplice una fruizione contemporanea e diretta dei tutti e cinque gli schermi, senza riuscire a togliere però alcuna dose di espressività alla performance.

Completamente diverso il lavoro di Scanner + Tez (http://www.scannerdot.com – http://www.tez.it/ ) che invece si fonda su un uso maturo e potente della sincronia audiovisiva in cui non esiste alcuna priorità tra gli elementi. Un ulteriore caratteristica che rafforza la performance è l’abilità di entrambi, quindi sia nell’audio che nel video, di usare materiali ricavati in tempo reale da campionamenti o sensori. I gesti degli artisti sembrano quasi la regia di un’orchestra; l’audio è ricavato dall’ambiente e le immagini sono invece generate grazie ad un software specifico che ha la funzione vera e propria di “strumento d’artista”; ciò che percepiamo è una sequenza di immagini complesse ed articolate che ci trasportano dal film all’onirico e viceversa sul procedere di una musica trascinante.

Infine, grande successo ha riscosso la performance del giovane astro nipponico Ryioichi Kurokawa, un fenomeno che lavora contemporaneamente sia sull’audio che sul video dei suoi lavori. Giocando con un alternanza di stili e generi sempre incentrati sull’approccio grafico minimale e rarefatto ad accompagnare le matrici glitch dei suoi suoni, Kurokawa ha messo in atto 40 minuti di talento audiovisivo, lasciando esterefatti pubblico e critica per la spontaneità e l’abilità nell’uso dei software (Isadora e Processing su due pc differenti) e delle regole dell’estetica del live media.

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Sensazioni più introspettive sono state l’obiettivo di performance dichiaratamente spettacolari e orientate ad una materializzazione del suono e delle immagini, affinché possiamo percepire suoni e luci come attori dello spazio che ci circonda e non elementi statici appartenenti ad esso. Sia Skoltz_Kolgen con la performance Askaa (http://www.skoltzkolgen.com/) che Ulf Langheinrich con Drift (http://www.granularsynthesis.info/) hanno avvolto la platea con un flusso potentissimo. Quest’ultimo progetto usa immagini cinematografiche sgranate, traslate, astratte: è riuscito a trascinare il pubblico in una danza di linee al limite del noize, piuttosto intenso e amplificato dai riverberi dello spazio, dalla silente dimensione lineare delle torri, dal silenzio del pubblico e dell’ambiente che ha dialogato di continuo con un’onda sonora accuratamente progettata.

I canadesi invece, con Askaa, propongono un viaggio ai limiti dell’organico, in apparenza freddo come ci sembrano freddi gli organismi se li guardiamo scomposti, ma che nella durata e procedere della performance ha mostrato microfenomeni, microevoluzioni, microtrasformazioni di sistemi naturali che suggeriscono l’idea di una fortissima potenza costruttiva in grado di equilibrare gli opposti. In alcuni momenti gli elementi in movimento sullo schermo sembrano aver generato un dialogo tra elementi, per emergere, e la musica ha condotto il pubblico alla fine di questa astratta e poetica discussione tra forme.

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Chiudono due esempi di DVJing, tecnica mista di utilizzo di suono e immagini in maniera molto libera e orientata alla spettacolarizzazione di ciò che è messo in scena. Divertente e al limite della sperimentazione che ha trascinato il pubblico nel ballo intenso innanzitutto la performance folle di Additive TV (http://www.addictive.com/), che si presentano in scena con una strumentazione più che completa e realizzano una performance di intrattenimento ai limiti del surreale, sfruttando le citazioni visive e sonore, un ritmo vorticoso della narrazione, una dose notevole di ironia e malizia nella scelta dei frammenti.

Di tutt’altro genere ma non meno entusiasmante il live che ha chiuso le serate, e che ha visto il famoso artista dj Franko B e il vjset di Tina Frank (http://www.franko-b.com/ – http://www.frank.at/) dialogare e proporre una session di danza senza sosta, tenuta fino all’ultimo al massimo dei battiti e in grado, un po’ come se quest’ultima performance potesse anche essere un tributo, di abbracciare e tenere insieme la diversità dei riferimenti culturali a cui il live media si riferisce, senza prediligerne o mostrarne alcuno in particolare ma riunendoli in un dialogo visuale e sonoro eclettico, coinvolgente e liberatorio.

Anche se la performance che più rimarrà nel cuore e negli occhi del pubblico presente rimane quella di Edwin Van Der Heide con la sua laser sound performance, gioco tanto semplice quanto unico al mondo di dialogo sincrono tra suoni e raggi laser, capaci di creare architetture tridimensionali tracciando i propri contorni all’interno di un muro di fumo. Il dialogo contrapposto tra l’artista sul palco, le sue linee colorate di luce e le torri sul lato opposto, dipinte e quasi sezionate nella danza audiovisiva, hanno reso un omaggio del tutto unico al festival, integrando completamente le tecniche digitali con le architetture materiali. Il sipario cala sulla musica che ancora vibra sotto la copertura di 30 metri d’altezza dell’Hangar Bicocca.